di Giovanni Isgrò
La storia del sacro rappresentare in Sicilia, come in generale la storia dello spettacolo nell’Isola, registra un plurisecolare processo di stratificazione, piuttosto che una evoluzione costante, almeno fino alla seconda metà del Cinquecento quando, insieme al consolidamento del potere della monarchia ispanica, prese avvio l’azione della Compagnia di Gesù, che diede inizio ad una regolare organizzazione e diffusione della spettacolarizzazione del sacro.
Dal medioevo normanno all’inizio del Cinquecento, pertanto, il susseguirsi di dominazioni e di culture diverse non consente di avere una visione organica, né tanto meno la percezione, di una tradizione omogenea anche nel campo del fenomeno devozionale, essendo peraltro le pratiche del sacro rappresentare legate alle strategie di potere delle monarchie che si avvicendarono nel dominio dell’Isola.
La mancanza di documenti relativi alla eventuale presenza di forme di tradizioni popolari, anche nel campo delle celebrazioni della Settimana Santa, a sua volta, ci costringe a limitarci a citazioni legate all’ideologia del potere dominante legittimato dalla Chiesa. Due esempi bastino per tutti relativi all’età normanna: la raffigurazione dell’ingresso di Gesù Cristo a Gerusalemme nel mosaico della Cappella Palatina e la rappresentazione del dramma liturgico della Pasqua nella cattedrale di Palermo nel 1131. In entrambi i casi si tratta di espressione diretta dell’idea della monarchia teocratica degli Altavilla.
La rappresentazione dei drammi liturgici della Pasqua, riportati in un manoscritto di officina scrittoria palermitana, il Liber Cantus Chori, oggi conservato presso la Biblioteca Nazionale di Madrid [1], ci offre una testimonianza diretta del contesto celebrativo del monarca che, assistendo assiso in trono alla rappresentazione in lingua latina delle sequenze della resurrezione di Cristo ad opera dei monaci benedettini, proponeva alla sudditanza l’immagine di se stesso legittimato al potere teocratico dal pontefice. Non a caso sia nella Benedictio Cerei che nella Litania riportati nel sopracitato Liber Cantus Chori (ff. 99 v. e 102 r.) è indicato il nome di Rex Rogerius.
La prima forma di rappresentazione “al vivo” della Settimana Santa in Sicilia ha dunque la forma di un cerimoniale regale ancora ben lontano dalla fruizione popolare del messaggio salvifico. A carattere aulico e curtense è la rappresentazione musiva dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme. Qui persino l’asino sul quale siede Gesù Cristo è raffigurato in un incedere solenne come è nello stile dei cortei paratattici. Gli stessi apostoli al seguito sono rappresentati come membri di una corte regale, mentre l’immagine della città di Gerusalemme non è altro che citazione stilizzata dell’impianto urbanistico-architettonico di Palermo città ideale. Anche in questo caso, pertanto, la sequenza iniziale del ciclo della Settimana Santa si presta al gioco autoelogiativo del monarca nella veste di Cristo Salvatore, da offrire alla contemplazione della corte normanna e dei suoi ospiti illustri.
Al di là dell’età sveva e del breve periodo angioino, i re aragonesi tardarono, come è noto, a lasciare campo al nascere e al formarsi del movimento confraternale.Ciò anche in ragione dei rapporti della monarchia aragonese con la Chiesa che, partigiana degli angioini, aveva lanciato scomuniche e interdizioni contro la Sicilia. Bisogna attendere il 1347 per assistere al sorgere della prima confraternita regolare, quella di San Nicolò Regale, il cui statuto si ispira a quella di San Domenico di Genova e con essa alle prime manifestazioni devozionali legate alla Settimana Santa. Ne è testimonianza una lauda drammatica del sec. XIV, il “pianto di Maria”, drammaturgicamente basata sull’alternanza recitante del personaggio di Maria con il coro. Il valore artistico-letterario di questa unica lauda pervenutaci, scritta in lingua siciliana, lascia intravedere una evoluzione del genere del sacro rappresentare in concomitanza con il progressivo diffondersi del fenomeno delle congregazioni.
Sorte inizialmente nel tessuto sociale di mercanti, più che di artigiani, di provenienza continentale (appartenenti alle cosiddette “nazioni”di provenienza continentale), ma anche frequentate dal ceto medio e dalla nobiltà locale, a poco a poco si diffusero anche nella sfera popolare di Palermo, nella quale crebbe una sorta di emulazione nei confronti di strati sociali presso i quali il dovere della contrizione e del pentimento maturato attraverso la consuetudine delle discipline caratterizzava in particolare il periodo della Settimana Santa.
Le sedi delle congregazioni divennero così luoghi deputati della disciplina rituale, spazi scenici di cerimoniali dal rigore talvolta eccessivo che consentiva, al tempo stesso, ai giovani congregati delle classi subalterne di esibire la capacità di sopportazione della sofferenza fisica e di affermare in modo protagonistico la loro identità. Maturava, soprattutto in occasione della Settimana Santa, una sorta di tradizione penitenziale frammentata nelle pratiche che via via si andavano affermando nelle diverse chiese che sorgevano nelle aree più popolari delle città. Fu così che negli anni Settanta del sec. XIV, a seguito del riavvicinamento della monarchia aragonese alla Chiesa in occasione del matrimonio di Federico III nel 1374, lo spettacolo religioso poté iniziare ad avere uno sviluppo meno disorganico.
Ne fanno fede alcuni gonfaloni processionali in uso fra ‘300 e ‘400, raffiguranti la scena della crocifissione e quella della risurrezione, realizzati da un pittore siciliano identificato con l’appellativo di “Maestro delle Incoronazioni”: una sorta di raffigurazione della scena reale del rito adattata ad elemento scenografico mobile. Alla pratica dei gonfaloni non fu estraneo lo stesso Antonello da Messina nella prima fase della sua attività artistica. Ma saranno le sue celebri crocifissioni a testimoniare, anche attraverso le vaste proiezioni paesaggistiche della sua città, l’esistenza di una tradizione devota della Settimana Santa di livello ben più maturo rispetto alle altre realtà quattrocentesche dell’Isola. Ciò in riferimento anche allo status di una città in buona salute economica, sia per la produzione della seta che per i rapporti commerciali con l’aera continentale, che garantiva una vivacità artistica maggiore che nel resto della Sicilia. L’immagine dei cittadini raffigurati nel percorso di rientro in città dopo avere assistito alla drammatizzazione presso il calvario, ne sono una testimonianza viva.
Nei centri minori e nelle realtà rurali, intanto, soprattutto grazie alla diffusione del monachesimo, si poterono verisimilmente attuare a poco a poco forme di rappresentazione sacra per le quali processionanti, figuranti, personaggi dei riti della Settimana Santa, misero in atto forme di concertazione e di simbiosi fra attante e spettatore attivo, che garantiva unità e sintonia all’evento devozionale. E poiché il territorio, inteso come luogo del lavoro sia rurale che artigianale o commerciale, é lo spazio di quella medesima comunità che quotidianamente lo abita, necessariamente la forma del rappresentare non poté che essere a spazio totale, essendo oltretutto il rito a garantire lo stato di salute della comunità stessa.
Anche se, come si diceva, non ci è dato di conoscere documenti in proposito, non poté trattarsi, tuttavia, che di fenomeni di pietà popolare legati appunto alla presenza evangelizzatrice soprattutto di francescani e di altri ordini religiosi, che tuttavia non svolsero un’azione organica tale da coprire in modo omogeneo il territorio della Sicilia. La stessa rappresentazione della Passione del 1440 avvenuta a Catania nella chiesa di S. Maria La Grande alla quale assistettero «quasi tucti li donni, gentilomini et populu» [2], per quanto sembri già espressione consolidata di una tradizione locale («comu si soli fari», si legge nella relazione), non è inquadrabile in un genere di cui, peraltro, non ci è pervenuta testimonianza altrove, ad eccezione di un «actu di votu di la cena et passioni di nostru Signuri», avvenuto nel 1481 davanti la chiesa madre di Sciacca alla presenza del popolo, dei giurati e dei pubblici ufficiali della città [3].
Ecco allora la singolarità della messinscena della Resurrectio Christi di Marco De Grandi avvenuta a Siracusa nella seconda metà del ‘400, la prima sacra rappresentazione della Passione di Gesù Cristo di cui ci è pervenuto il testo [4]. Si tratta di un’opera matura, scritta da uomo di cultura che usò la tecnica del racconto popolare. Le numerose didascalie testimoniano il vasto impiego di figuranti, il gigantismo della macchina scenica (un catafalco diviso verticalmente in tre settori), la partecipazione di figure recitanti alle quali venivano date precise istruzioni sul piano attoriale, l’uso di una ricca attrezzeria. Si trattò evidentemente di un evento eccezionale al quale assistettero autorità di alto livello, compreso il viceré; e per quanto la scenotecnica appaia ancora tardomedievale, lo spirito della rappresentazione dovette assumere un carattere sovranazionale, probabilmente legato al passaggio al governo diretto della Spagna sulla Sicilia, dopo il congiungimento delle corone di Aragona e di Castiglia.
Su questa stessa tipologia di pur rari eventi ancora legati ad una consuetudine topica consolidata, va collocata la testimonianza di un’altra sacra rappresentazione della Passione avvenuta a Messina nel 1508 nella piazza del Monastero Carmelitano, alla quale presenziò il viceré Raimondo Cardona [5]. A Catania invece la Passione, ancora all’inizio del sec. XVI, assunse le caratteristiche di rappresentazioni mute, con statue e artifizi in legno e cartapesta, affidate alla competenza di maestri artigiani. A questa stessa consuetudine “non regolata” da interventi recitati con spirito edificante, sembra riferirsi una testimonianza tarda offerta da una rappresentazione avvenuta nel 1557 ad Alcamo. Si tratta di un contratto stipulato per la messinscena di una sacra rappresentazione nella quale si succedono quadri viventi processionanti con personaggi in costume e atteggiamento penitenziale, intervallate da interventi di predicatori e con la presenza di alcuni dispositivi scenotecnici apprestati da maestri falegnami; ad indicare i luoghi deputati della condanna e Passione di Cristo [6].
Ed eccoci arrivati al ‘500, il secolo che segnò l’inizio di uno sviluppo regolare (per quanto anomalo rispetto all’idea di teatro sviluppatasi nel continente italiano) del teatro e dello spettacolo in Sicilia, orientato verso la forma del teatro festivo urbano dalle strategie politico-culturali promosse da Filippo II, e soprattutto dall’avvento della Compagnia di Gesù. Ai gesuiti va riconosciuto il merito di avere regolarizzato, fra le altre cose, anche il quadro del sacro rappresentare, sia attraverso l’attività pedagogica svolta nei collegi, sia nell’organizzazione del teatro devoto di massa nei centri maggiori e minori dell’Isola. In questo senso la pratica delle “missioni popolari” volte ad evangelizzare luoghi lontani dalla fede attraverso prediche appassionate e azioni penitenziali con relative flagellazioni a sangue ispirate alla Passione di Gesù Cristo, quasi sempre associate alla realizzazione dei dispositivi delle tre croci del Calvario, costituì per certi aspetti la premessa per la creazione di una regolare pratica drammatica da attuare nel corso della Settimana Santa, che finì per modificare, a sua volta, l’interpretazione e la fruizione dello spazio urbano in sintonia con le dinamiche sceniche riguardanti la Passione.
In senso generale la condizione di ri-definizione del paesaggio in termini sacri aggiunge dunque valore scenico agli assi di parata, alle piazze e agli slarghi coinvolti nel grande scenario celebrativo della Settimana Santa. È così che alla configurazione urbanistico-architettonica dell’urbe peraltro quasi sempre progettata dalla seconda metà del ‘500 in avanti nei termini di assialità e di apertura a spazi di rappresentanza, si sovrapposero ulteriori invenzioni architettoniche e urbanistiche esclusivamente riferite alla teatralità festiva che condizionarono la configurazione complessiva del centro abitato, talvolta trasformandone radicalmente l’impianto. Queste trasformazioni urbane in alcuni casi sono evolute nel tempo fino ai nostri giorni. Emblematico in questo senso, come meglio si vedrà più avanti, è l’assetto urbano di S. Cataldo in provincia di Caltanissetta.
Su un altro piano il collegamento della Compagnia di Gesù con la cultura iberica, soprattutto nei primi decenni dalla fondazione dell’Ordine, portò all’inserimento, nel cerimoniale della Passione e morte di Gesù Cristo,di alcune forme rituali come quella dell’entierro, destinato a diventare una delle sequenze più significative della tradizione devota. Si tratta della raffigurazione statuaria del Cristo morto che, adagiato su un fercolo, viene portato processionalmente per le vie principali del centro abitato. Scortato da quattro uomini in arme “alla spagnola”, appunto, il Cristo viene deposto all’interno della chiesa e vegliato dagli stessi “soldati”. Questa sequenza importata dalla Spagna (ma diffusa anche in Portogallo) vive ancora oggi attraverso l’opera di congregazioni e confraternite, sorte numerose in Sicilia, come altrove , in buona parte per iniziativa dei padri gesuiti e destinate a diventare il braccio operativo dei progetti devoti ideati dai gesuiti stessi. E perché non sfugga la dimensione planetaria di questa pratica , ricordiamo che l’entierro negli anni ’60 del ‘500 fu introdotto dalla Compagnia di Gesù anche in Giappone dove si radicalizzò, al punto che gli stessi giapponesi in breve tempo, oltre a diventare protagonisti di azioni penitenziali battendosi a sangue sia lungo il percorso processionale che in chiesa, reputarono un privilegio vegliare il Cristo morto, esibendo le loro armature orientali [7].
L’influenza dei gesuiti nell’organizzazione dei progetti festivi urbani in Sicilia fu determinante per garantire stabilità e riconoscibilità agli eventi celebrativi della Settimana Santa. Ciò fu dovuto in buona parte anche alla necessità di regolarizzare il lavoro artigianale legato alle forme del teatro festivo, così determinando il configurarsi di congregazioni corrispondenti alle stesse maestranze. Grazie a questa concentrazione, pur rimanendo lo standard delle diverse sequenze, dalla Domenica delle Palme alla visita dei “sepolcri”, dalle processioni della Passione ai riti della Resurrezione, seppero indicare, soprattutto in riferimento all’entierro, l’articolazione dei diversi percorsi in corrispondenza degli spazi di riferimento (chiese, oratori, ecc.) per l’aggregazione devota. Si comprende così la lunga durata e la regolamentazione della tradizione delle processioni del venerdì santo che durano inalterate da secoli fino al tempo di oggi. Ciò ha consentito di mantenere, soprattutto nelle vie del centro storico di Palermo, la definizione delle diverse identità quartierali che vengono vissute anche da chi, trasferitosi in altri luoghi, ritorna nel tempo della festa per partecipare all’evento. Questa sorta di configurazione “blindata” si collega d’altro canto alla ritualità di matrice ispanica che, in controtendenza rispetto all’esplosione libertaria tardosettecentesca, sia a livello culto che popolare di cui si dirà a breve, è rimasta inalterata anche dopo la fine della dominazione spagnola.
Di provenienza ispanica è anche la tipologia rituale dei “Misteri”, in particolare quelli di Trapani (ma anche quelli di Caltanissetta). Essi sono gruppi statuari in numero di 18, raffiguranti le diverse sequenze della Passione di Gesù Cristo, oltre alla figura del simulacro del Cristo morto e di quello della Madonna dell’Addolorata. L’accostamento ai pasos dell’Andalusia conferma la medesima matrice culturale, e con essa, l’importanza della mediazione gesuitica che ha agito sia nel territorio spagnolo che negli altri luoghi nei quali questa forma processionale esportata altrove si è radicalizzata. In particolare nel territorio del dominio spagnolo dell’Italia del sud, da Procida a Sassari, ad Alghero e Cagliari, fino in Sicilia, il ruolo dei gesuiti è stato quello di stimolare gli artigiani alla creazione artistica attraverso congregazioni deputate a divulgare fra il popolo il valore della fede.
Di altro tenore è invece il percorso che conduce alle tante rappresentazioni della Passione e morte di Cristo in uso oggi in centri grandi e piccoli della Sicilia. Per meglio comprendere il significato di queste forme parateatrali, bisogna partire dalla metà del ‘700, quando proprio il declino della ritualità antica imposta per più di due secoli dalla monarchia spagnola a seguito del passaggio dal dominio diretto a quello della monarchia borbonica, determinò in generale una vera e propria esplosione della spettacolarità popolare (e non solo popolare) e, proprio in questo stesso contesto, quella della sacra rappresentazione della Passione e morte di Gesù Cristo.
Giuseppe Pitrè ci ha lasciato un’ampia serie di descrizioni di teatralizzazioni sacre ispirate alla Settimana Santa (e non solo), in uso nei secoli XVIII-XIX [8]. Riferimento fondamentale per le rappresentazioni della Passione di Cristo è il Riscatto di Adamo, o Mortorio di Cristo scritto da Filippo Orioles nel 1750. Pitrè si sofferma con dovizia di particolari sugli adattamenti e le varianti operati nel tempo nei luoghi più diversi della Sicilia. Né trascura le divisioni in scene degli spettacoli, le tipologie degli interpreti, professionisti o dilettanti che fossero, i dispositivi e i luoghi scenici: chiese, piazze, strade e persino teatri regolari. In alcuni paesi la sacra rappresentazione è a spazio e partecipazione totali, essendo tutti i membri della comunità coinvolti a vario titolo nella rappresentazione dell’evento; e non mancavano le specializzazioni nel ruolo destinate a durare nel tempo [9].
Tutto ciò dimostra che, al di là del testo della Passione, che in tempi più recenti ha fatto registrare pure nuove scritture drammaturgiche, si è venuta a sviluppare una vera e propria evoluzione in senso tecnico-artistico. Pur mantenendo alto il valore identitario, non si trascurano oggi sostanziali aggiornamenti nelle tecniche di messinscena.
Le rappresentazioni delle vicende canoniche che vanno dalla condanna alla Via Crucis fino alla crocifissione di Gesù Cristo, sono ancora oggi in molti centri della Sicilia un vero e proprio spettacolo teatrale sempre più curato, oltre che nella recitazione, anche nella costumistica, nella attrezzeria, nella scenografia, nella scenotecnica, negli interventi di voci fuori campo, nei suoni, nelle musiche, con un’attenzione particolare all’uso delle luci e persino degli effetti speciali. Basti per tutti l’esempio della Congregazione ai Fornai della Chiesa di Sant’Isidoro Agricola all’Albergheria di Palermo. La piazza antistante la chiesa di riferimento si trasforma in un palcoscenico multiplo con ampia passerella per la Via Crucis, uso di service di luci e amplificazione di alto livello tecnico, prestazioni attorali di ottima godibilità sia nel gesto che nella voce, frutto di lunghe prove, musiche fuori campo di grande cattura emozionale. La folla degli astanti assiepata assiste a questo spettacolo articolato in tre giornate e a lungo atteso, diventato anch’esso un rito che annualmente conferma il prestigio di quella comunità promotrice dell’evento.
Al di là della raffinatezza dei costumi, curati come per il cinema, un’estensione maggiore e più articolata degli spazi scenici si registra a San Cataldo, dove come si accennava prima, le chiese distribuite nelle diverse aree del paese assumono una posizione scenica ben precisa in rapporto alla complessa drammaturgia della Passione, morte e resurrezione: da quelle presso le quali avviene la “cerca infruttuosa” del Cristo morto da parte delle statue processionali della Madonna e di San Giovanni alla piccola chiesa dell’oratorio dove giace il simulacro del Redentore. La chiesa della Mercede è una cappelletta anch’essa nel corso principale. Sono rispettivamente i luoghi deputati dell’attesa di Maria e della Maddalena e del sepolcro vuoto. Nello steso asse ha luogo il festoso movimento dei “Pauluni”, raffiguranti i Santi che annunziano l’avvenuta resurrezione. Totalmente progettata per il dramma della Settimana Santa è invece l’imponente architettura del Calvario, realizzata a ferro di cavallo, con una serie di vani di accesso al corpo architettonico stesso. Inglobato nel tessuto urbano come monumentale punto di fuga dell’asse principale, rivela strutturalmente la sua funzione scenica che, in occasione della sacra rappresentazione, si anima per la presenza di circa trecento personaggi.
Ed eccoci alla fine della nostra forzatamente veloce carrellata, dopo aver trascurato elementi specifici che si aggiungono topicamente alle sequenze celebrative fondamentali della Settimana Santa: dai “Diavoli” di Prizzi ai “Giganti” in cartapesta oltre a quelli già citati di San Cataldo, anche di Barrafranca, Caltagirone, Aragona, senza parlare dei “Giudei” di San Fratello e alle tante varianti possibili in altri Comuni della Sicilia. In ogni caso rimane la grande estensione delle pratiche spettacolari diffuse in tutti i centri, frutto in buona parte di importazioni importanti che hanno trovato nel paesaggio scenico della Sicilia il luogo più consono a quella combinazione di ritualità e di parateatralità che continua a fare della nostra Isola uno spazio scenico multiplo di straordinario interesse.
Dialoghi Mediterranei, n.25, maggio 2017
Note
[1] Ai segni V 20 4. A questo manoscritto fanno riferimento: S. Cambria, Surrexit, Palermo, 1967; V. De Bartholomaeis, Origini della poesia drammatica in Italia, Torino, 1952: 471, 475 sgg.; K. Young, The Drama of Medieval Church, Oxford, 1933: 450 sgg. Il testo del dramma liturgico è stato pubblicato nel mio saggio Festa teatro rito nella storia di Sicilia, Palermo, 1981: 57 sgg.
[2] Il documento, una relazione dei Giurati di Catania, è stato reso noto da M. Catalano Tirrito, Sacra Rappresentazione in Sicilia, Termini Imerese, 1907: 11.
[3] Il documento è conservato presso l’Archivio di Stato di Palermo (Protonotaro del Regno, a. 1481, ff. 189 r. e 190 r. e v.).
[4] Il testo dell’opera è stato socperto da Rosalia Anastasi-Campagna e pubblicato in Documenti di Sicilia, IV s., 1913.
[5] Cfr. F. Maurolico, Sicanarum rerum compendium, Messina, 1562.
[6] Arch. Notai Alcamesi, Bastardello del notaio G. Paolo Orofino, anno XV, ind. 1556-7, pubblicato da P. M. Rocca, Documento di una sacra rappresentazione in Alcamo nel sec. XVI, in “Archivio storico per lo studio delle tradizioni popolari”, XIII, 1889: 295-6.
[7] Su questo argomento rimando al mio saggio L’avventura scenica dei gesuiti in Giappone, Bari, Di Pagina, 2016 .
[8] Si vedano, fra gli altri, La vita in Palermo cento e più anni fa, 1904; Sacre rappresentazioni in Sicilia in “Archivio storico siciliano”, 1876.
[9 Per una visione complessiva delle celebrazioni della Settimana Santa in Sicilia nel nostro tempo, rimando per tutti a Antonino Buttitta, Pasqua in Sicilia, Palermo 1978 e Le feste di Pasqua, Palermo 1991.
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Giovanni Isgrò, docente di Storia del Teatro e dello Spettacolo presso l’Università di Palermo, è autore e regista di teatralizzazioni urbane. Ha vinto il Premio Nazionale di Saggistica Dannunziana (1994) e il premio Pirandello per la saggistica teatrale (1997). I suoi ambiti di ricerca per i quali ha pubblicato numerosi saggi sono: Storia del Teatro e dello Spettacolo in Sicilia, lo spettacolo Barocco, la cultura materiale del teatro, la Drammatica Sacra in Europa, Il teatro e lo spettacolo in Italia nella prima metà del Novecento, il Teatro Gesuitico in Europa, nel centro e sud America e in Giappone. L’avventura scenica dei gesuiti in Giappone è il titolo dell’ultima sua pubblicazione.
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