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San Giuseppe e Padre Zinnanti: due Padri della Chiesa di Marettimo

Castello del Marètimo. Nel ‘600 vi era stata edificata la piccola chiesa dedicata a Maria SS delle Grazie

Castello del Marètimo. Nel ‘600 vi era stata edificata la piccola chiesa dedicata a Maria SS delle Grazie (ph. E. Milana)

di Emilio Milana

A mmari a nnome ri Ddio e du Patriarca san Gnuseppi!

A mare in nome di Dio e del Patriarca san Giuseppe!

Con tale espressione il pescatore di Marettimo, nelle Egadi, del secolo passato soleva dare inizio alla calata in mare della sua rete. Emerge da questa invocazione una religiosità profonda, sicuramente retaggio di una devozione antica, maturata attraverso le faticose vicissitudini della vita da uomo di mare. L’accostamento all’onnipotente della figura del santo Giuseppe, venerato come patrono e oggi solennemente festeggiato, non è casuale e, al di là della valenza invocativa, conferisce all’umile esortazione il significato della richiesta della “grazia” per una buona pesca, che consenta alla famiglia del pescatore di mettere, ancora per quel giorno, la pignata sul fuoco.

L’umiltà induce l’uomo a rivolgersi al Signore attraverso un intercessore, anche lui uomo, ma autorevole nei riguardi di un Dio, che lo ha prescelto come padre del proprio figlio sulla terra. Giuseppe diventa così il Patriarca, il custode della famiglia, dove Maria, fatta anch’essa santa tra le sante, assume il ruolo di madre e, al pari di Giuseppe, viene invocata per intercedere presso il figliolo. È a Lei che, nel XVI secolo, all’interno dell’antico Castello del Marètimo, viene dedicata la prima chiesa, sotto il nome di Maria Santissima delle Grazie, perché le grazie concesse dalla Beata Vergine costituivano l’unica via per superare le durissime prove che la vita in quell’orrida guarnigione imponeva.

Così scriveva Domenico Stanislao Alberti, della Compagnia di Gesù, a proposito di Nostra Signora della Grazia nella fortezza del Marètim[1]: 

«V’ha in quest’isoletta un Castello, ben munito dalla natura e dall’arte, che rende il Marètimo inespugnabile… e che non ha di che temere se non dalla fame o dal cielo. Or da questi due timori rende libero il Marètimo una immagine di Nostra Signora della Grazia, che si venera in quel Castello… Eccone due prove che vengono confermate da tutti gli abitatori dell’Isola:
… se il mare [è] in tempesta, tutti i soldati e abitatori ricorrono alla Immagine di Nostra Signora della Grazia, e genuflessi dinanzi a Lei la pregano ché, calmato il mare, facesse capitar colà il legno che aspettano carico di vettovaglia.
Ma non la rende meno inespugnabile dalle… saette del cielo, perché mediante la protezione di Lei, gli stessi fulmini vi divengono affatto innocenti senza che niun d’essi v’avesse cagionato alcun male, né alla munizione del castello, né ad alcuna persona…
Alla Nostra Signora della Grazia tutti allora ricorrono con ogni fiducia…
Dicono i meteorologici che non v’è umore così efficace a smorzare il fuoco acceso da’ fulmini quanto il latte. Ma diranno, come fedelissimi testimoni, tutti gli abitatori di quest’Isola che non v’è latte più valevole… a mansuetare e raddolcire l’ira de’ fulmini… quanto il latte di Nostra Signora della Grazia, singolarissima loro Protettrice.
Onde a gran ragione può ciascun di lor dire che non v’è modo più vero per adorar la Reina del Cielo come Nostra Signora della Grazia».

La coabitazione nell’angusto e insano spazio della roccaforte spagnola ha indubbiamente sviluppato l’attitudine al rispetto reciproco e alla solidarietà umana, qualità che direttamente conducono al senso del divino. È proprio in questo contesto che si consolida la profonda devozione dei castellani verso la Sacra Famiglia. Sant’Anna compresa, se si tiene conto che la cappella, eretta fuori delle mura della rocca nel corso del Seicento e ora diroccata, era stata dedicata alla madre della Beata Vergine. La “grazia”, invocata e ricevuta, e la devozione per la “Sacra Famiglia” sono, quindi, gli elementi fondanti della religiosità maturata nelle prime famiglie dell’isola.

Quando, nel 1834, il Castello viene dismesso da Ferdinando II di Borbone, le famiglie dei militari ivi residenti decidono di rimanere nell’isola, trasferendosi nel piccolo borgo di San Simone, messo su, a cavallo tra ‘700 e ‘800, da alcuni pescatori. I cognomi, come la Corona di Spagna imponeva, sono quelli dei Campo, dei Carriglio, dei Torre, tutti di origine spagnola e già da tempo approdati a Favignana.

Dopo i moti del ’20 -’21, con l’arrivo dei fuggiaschi dalla polizia borbonica, il borgo si estenderà verso l’interno, assumendo, sulla fine degli anni trenta dell’Ottocento, un’incerta configurazione urbanistica con botteghe taverne locande e una piazza, quando la grande abbondanza di sardelle intorno all’isola richiamerà dalla terraferma un folto stuolo di pescatori alla ricerca di un guadagno sicuro in una Sicilia profondamente segnata nella sua economia. Il giudice Pasquale Garufi [2] rivela che a Marettimo, in quel periodo, risiedono meno di trecento anime e che, da aprile a novembre, vi arrivano più di mille pescatori stagionali, in maggior parte provenienti dall’area palermitana.

Ha inizio, così, la “moderna colonizzazione” dell’isola con una fisionomia prevalentemente marinara, ma ancora segnata dalla modesta attività di quei contadini che, ancora prima che nei “tufi” di Punta San Simone, abitavano nelle grotte e nei pagghiara, allevando, coltivando e facendo legna. Ai cognomi di prima si aggiungono gli Aliotti, i Livolsi, i Tedesco, i Gandolfo, i Manuguerra, i Maiorana e altri ancora.

Edicola votiva dedicata a Santu Patri

Edicola votiva dedicata a Santu Patri (ph. E. Milana)

Quasi tutti trovano sostegno dal mare, ma le nuove incertezze imposte da un mare, ora prodigo ora avverso, spingono la gente alla ricerca del conforto nella preghiera, nell’adorazione dei santi, nella speranza della “grazia”. La devozione verso la Sacra Famiglia fa presa anche tra i nuovi arrivati, ma non manca l’inserimento nella liturgia locale di qualche santo “forestiero”: è il caso di San Francesco di Paola, patrono della gente di mare in molte località costiere del Mediterraneo, venerato tra i pescatori del litorale palermitano. Il cappellano curato Giuseppe Rizzo della Chiesa di Marettimo, in una lettera datata 24 marzo 1863, chiede al Vicario Generale di Trapani il permesso di erigere in località Scaro Vecchio, come voto per una “terribile rotta” di mare, un’edicola dedicata a Santo Patri (così lo chiamano i marinai siciliani in ricordo del suo miracoloso attraversamento dello Stretto di Messina su un mantello) [3]. Servirà per accendervi la sera un lume per quelli che rientrano dal mare, ma anche per culto verso quell’umile francescano, a cui pochi anni dopo, nel 1870, i pescatori Aliotti e Spadaro, originari rispettivamente di Santa Flavia e di Filicudi, dedicheranno una lapide murata a memoria di una straordinaria pesca di liceiole.

Nel lungo epistolario tra la Chiesa di Marettimo e la Diocesi di Trapani, intercorso tra la metà dell’Ottocento e la Quaresima del 1915, oggi conservato negli archivi vescovili, non si trova menzione alcuna alla figura del Patriarca San Giuseppe. E allora il culto per questo santo, così sentito e solenne, quando nasce? Quale mente, quali eventi lo hanno assecondato? Se lo sono chiesto in tanti, in questi ultimi decenni. Finalmente si è rivelata illuminante una recente ricerca fatta tra le carte conservate nella sagrestia della chiesa. Merito di un umile e coriaceo sacerdote, che diligentemente ha saputo lasciare in alcune pagine i segni di un’interessante eredità: Padre Mario Zinnanti da Favignana, nato nel 1843 da Carlo e Antonina Livolsi; morto a Marettimo nel 1927, come Primo Regio Cappellano.

Padre Mario era stato assegnato dalla Diocesi alla chiesa di Marettimo nel 1870, ma un anno dopo era dovuto ritornare nella sua isola di origine a causa delle cagionevoli condizioni di salute. Si sa poco di lui. L’unico erede, Eduardo Grossi, Mastro Tuccio per i marettimari, “figlioccio” del sacerdote per il censimento del 1912, non ha lasciato traccia di lui. Tra i coevi, solo Pietrino Duran, nel suo libro edito nel 1928 [4], ricordando un altro grande della Chiesa marettimara, così lo descrive:

«… la caritatevole missione del compianto padre Mulè fu degnamente proseguita dal Reverendo Sacerdote Cappellano Don Mario Zinnanti, che audace e forte nell’ascesa – come colui che non s’arresta e va – seppe sempre lodevolmente mantenere la Parrocchia di Marettimo all’altezza del suo invidiato legittimo prestigio».

Pietrino era lo stesso studente che ancora sedicenne, nel 1915, dopo la dichiarazione di guerra all’Austria, aveva organizzato e costituito un Comitato di Assistenza e di Difesa Civile a Marettimo con lo scopo di distribuire sussidi alle povere famiglie dei richiamati e notizie sui militari al fronte. Padre Zinnanti, che sin dall’inizio del suo apostolato era stato molto vicino alla gente, non si era escluso da quel sodalizio umano e patriottico, spesso ostacolato dall’indifferenza dell’Autorità Comunale di Favignana, e ne era diventato vice-presidente.

Nel 1912 scrive l’unico libretto storico [5] sulle isole Egadi, con taglio palesemente classico nella presentazione delle origini egusee e con profondo misticismo nella descrizione delle Chiese delle tre isole, alternando, con rispetto, riferimenti cristiani con riferimenti pagani. A partire dallo stesso anno, redige annualmente con precisa rilevazione lo Stato delle Anime del paese in una sorta di censimento popolare, il cui valore va al di là della semplice descrizione anagrafica, fornendo dati popolari non altrimenti reperibili.

Marettimo, Alloggiate

Marettimo, Il rito delle Alloggiate rievoca la Fuga in Egitto della sacra Famiglia

In occasione della Quaresima dell’anno 1915, prepara una raccolta di predicazioni sui valori del Cristianesimo, rivolgendoli ogni sera dal suo pulpito ai fedeli. Vi aggiunge, come complemento, un Novenario di San Giuseppe, ad arte articolato sulle doti paterne ispirate da Dio al Patriarca e sui valori della famiglia. E con cura traspone la raccolta in più di trecento pagine, con il titolo: “Il Curato al pulpito in Quatragesima – Anno 1915” [6]. Nei contenuti del Novenario è stato possibile rinvenire gli elementi originari di quello che sarà poi il cerimoniale dedicato dalla gente marettimara al Patriarca San Giuseppe.

Il testo si presenta, a prima vista, come una discorsiva introduzione alla catechesi cristiana, ma le lunghe esaltazioni delle doti del Santo, le proposte di culto solenne da celebrare nella ricorrenza festiva e le insistenti esortazioni ad adorarlo lasciano intravedere l’idea, il progetto, che il sacerdote intende perseguire per dare forza e sostegno al valore della famiglia, tanto radicato nella gente dell’isola. Esorta, con sottile provocazione, i fedeli a richiamarsi a questo antico valore e chiede:

«Ma qui ditemi donde parte in voi, o miei cari, questa vostra devozione verso la sacra famiglia del Patriarca San: Giuseppe? Per pura fede ben fondata nel vostro cuore, oppure per costume tradizionale dei vostri antenati?».

Zinnanti è consapevole che la devozione per San Giuseppe è già nell’animo dei marettimari, al pari della Madonna del Bambino Gesù di Santo Patri, ma vuole fortificarla questa devozione, richiamandosi alla Sacra Famiglia per tutte le nove serate. Il giorno seguente alla fine della novena, in una piazza gremita di donne uomini bambini e vecchi, conclude le sue prediche con un discorso più propositivo, diretto ai cuori di tutti. E lo apre dicendo:

«Una certa idea mi si presenta questa sera sul dovuto culto di devozione e rispetto, che voi, o miei cari isolani, avete prestato al nostro Patriarca San Giuseppe… difensore… e protettore di ogni cristiana famiglia. A voi, che fra gli evviva ed i lieti armoniosi canti portato lo avete in giro per le strade nella periferia di questo abitato paese con fede viva e riconoscente devozione, oramai spettavi la mercede e i ringraziamenti del dovuto culto prestatovi».

Con sottile intelligenza il Curato spiega ai fedeli che è lecito rivolgersi a San Giuseppe per una grazia. Ne hanno diritto, proprio per la devozione mostrata nel recente passato. E propone di magnificarne il culto con la proposta, non proprio palese, di un cerimoniale solenne e spettacolare da celebrare in piazza in occasione della ricorrenza annuale del Santo. Ma qual è il presupposto che sta alla base del progetto del Cappellano?

Occorre riferirsi agli eventi storici ed economici che tristemente stanno caratterizzando gli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento. Eventi che non passano inosservati agli occhi del Cappellano e che stanno mettendo a dura prova la famiglia isolana e la sua stessa sopravvivenza: l’emigrazione, la Grande Guerra, le epidemie coleriche e malariche. Nei primi quindici anni del Novecento, a Marettimo, Don Zinnanti ha visto crescere a dismisura il fenomeno dell’emigrazione.

Il rito dell’ “Ammitata ”, in una mensa imbandita in piazza per  Maria, Gesù e Giuseppe. I tre servitori purificheranno le mani dei Santi con ‘u vagnu, decotto ottenuto con erva vianca, barcu, murtidda e menta e  serviranno i “poverelli” durante il pasto.

Marettimo, 1957. Il rito dell’ “Ammitata ”, in una mensa imbandita in piazza per Maria, Gesù e Giuseppe. I tre servitori purificheranno le mani dei Santi con ‘u vagnu, decotto ottenuto con erva vianca, barcu, murtidda e menta e serviranno i “poverelli” durante il pasto

La crisi economica abbattutasi pesantemente sulle classi popolari siciliane ha innescato una voglia di emigrazione anche tra i giovani pescatori marettimari, il cui esodo, cominciato prima verso la Tunisia, era sfociato poi in un flusso di massa diretto verso il Nuovo Mondo. Questa emigrazione tutta siciliana, in ritardo rispetto a quella dell’Italia rurale post-unitaria, rientrava in quell’“emigrazione silenziosa” seguita al fallimento dei Fasci dei Lavoratori, la cui organizzazione, di ispirazione socialista, era stata attuata da contadini operai e piccoli benestanti sconfitti. In quell’occasione non partirono donne e bambini, ma solo giovani adulti, inconsapevoli o indifferenti alla dura accoglienza americana e ai massacranti lavori in cui sarebbero stati inseriti. E non era stata la miseria a ridurre le migliori braccia da lavoro di Marettimo, ma la paura della miseria e la voglia di una vita migliore lontana dall’isolamento e dal senso di abbandono che lo Stato di allora faceva percepire. L’oltreoceano per loro rappresentava solo il “sogno americano”.

Nel censimento del 1915, redatto dallo stesso Zinnanti [7], le famiglie residenti sono trecentoventi e una famiglia su due rimane colpita dall’emigrazione. In quello stesso anno, soffiano terribili venti di guerra e molti giovani saranno chiamati a servire la Patria. Le epidemie, nello stesso tempo, faranno la loro dolorosa parte. Padre Zinnanti, riconoscendo nella famiglia un contenitore di sicurezza e di continuità, intuisce che la frattura generata dall’emigrazione metterà in crisi la struttura familiare stessa e l’individuo che l’ha abbandonata: l’emigrato, allontanato dal suo ambiente e dalla sua storia, sarà sicuramente costretto a vivere la sua discontinuità nell’angoscia; le donne rimaste nell’isola, dal canto loro, dovranno assumere il triste ruolo di “vedove bianche”.

Il sacerdote non dispera e pensa che la perdita di riferimento all’interno della famiglia possa essere recuperata con la figura simbolica del Patriarca San Giuseppe, il custode della famiglia, il dispensatore della grazia nel momento del bisogno. Durante le nove sere della novena, dal pulpito il predicatore infonde fiducia e speranza, intrattenendo la sua gente sulle esemplari qualità del Patriarca. Questi dovrà diventare il paradigma spirituale, il riferimento indiscusso là dove la lacuna ha creato una debolezza strutturale e psicologica.

L’ “Altarino” che le famiglie, dell’Isola o emigrate, allestiscono in un angolo della casa.  In una cornice di stole colorate, primeggia una foto della Sacra Famiglia, contornata da  panuzzi,  cucciddati,  arance e vasi colmi di “barcu”, simboli obbligati dalla tradizione.

L’ “Altarino” che le famiglie allestiscono in un angolo della casa.
In una cornice di stole colorate, primeggia una immagine della Sacra Famiglia, contornata da panuzzi, cucciddati, arance e vasi colmi di “barcu” (ph. E. Milana)

Zinnanti non palesa apertamente le motivazioni che stanno alla base del suo progetto. Le intuiamo noi dalle sue predicazioni. Ricorre a parabole, descrizioni, confronti, riferimenti. Non vuole che dalle sue espressioni affiori la tristezza causata dagli eventi del momento; vuole esorcizzare questa pesante sensazione con la speranza, con la disponibilità del Santo, con il dono della grazia per un buon raccolto, per una buona pesca, per un desiderato ritorno.  Non manca di tono aulico quando, intrattenendosi sul confronto tra San Giuseppe sposo di Maria e Giuseppe d’Egitto figlio di Abramo, descrive quest’ultimo come la prefigurazione del Patriarca San Giuseppe.

Giuseppe di Abramo – spiega Zinnanti – ha interpretato, con l’aiuto di Dio, il sogno del Faraone. E il Faraone, in segno di gratitudine, ha preposto Giuseppe alla carica di vicerè, consegnando nelle sue mani il potere di distribuire le ricchezze tra “i poverelli” d’Egitto. “Ite ad Joseph”, dice il Faraone a quelli che gli chiedono una grazia, «io ho consegnato le chiavi del mio tesoro a Giuseppe…».

«…nella stessa maniera – continua Zinnanti – sembrami che il Patriarca San Giuseppe dall’alto seggio della sua gloria parla a noi… [e] nel vederci nella oppressione di questa terrena vita…[dica]:
“Quel Dio, che dà sollievo ai bisognosi, si compiacque di scegliermi come sposo della Vergine Santissima e come padre del Suo Divino figliolo.
Ora [poichè] in cielo nelle mie mani furono depositate tutti i tesori delle Sue divine grazie…voi, o miei devoti, che vi trovate nel bisogno, venite al mio altare perché io vi farò gustare i frutti della benedizione e della gloria… dispensando tutti i tesori delle grazie a vostro bene e vantaggio” ».

Zinnanti deve aver fatto ormai presa con le sue parole nel cuore e nella mente dei marettimari. È ora di passare a una proposta di cerimoniale che, attraverso un simbolismo religioso e scenico, conferisca solennità alla celebrazione del Santo dando forza alla presa popolare. Nel “Discorso fuori nella piazza sull’invito della Sacra Famiglia” introduce la sua idea di una mensa riccamente imbandita all’aperto, alla quale siano invitati, come ringraziamento al Santo per la grazia ricevuta, “tre poverelli”, che nelle sembianze assunte simboleggino la Sacra Famiglia. Lo fa ricollegandosi ai culti pagani con i quali antichi popoli pre-cristiani intendevano…

«…commemorare, ogni anno, coll’imbandire una lauta mensa a dei “poverelli” sulle urne, nel giorno del [loro] decesso, quegli uomini illustri… che per virtù insigni e rimarchevoli opere eseguite in tempo della loro vita, acquistatosi avevano un grandioso merito e nome immortale… Prima e dopo la refezione, coloro che presiedevano alla mensa purgavano le mani dei poverelli con acqua odorifera e dopo di averli asciugati con un bianco lino, seduti… dovevano levarle verso il cielo e pregare il nume divino…».
La lapide dedicata da Padre Zinnanti ai caduti della Grande Guerra affissa sul frontale della Chiesa di Marettimo.

La lapide dedicata da Padre Zinnanti ai caduti della Grande Guerra affissa sulla facciata della chiesa di Marettimo (ph. E. Milana)

Continua, il sacerdote, con altri richiami arcaici, rifacendosi persino alle sacre scritture dello Zoorastrismo. Nella sequenzialità del rituale, così descritto dal Curato, la mensa viene fatta precedere da un altro cerimoniale, altrettanto suggestivo e simbolico: quello dell’alloggiate, in cui i tre poverelli bussano alla porta della Chiesa per chiedere alloggio, prima negato per ben due volte e poi concesso. La trasposizione simbolica è evidente: la “grazia” è la protagonista della scena; la porta della chiesa è San Giuseppe, dispensatore della grazia attesa con fede e poi donata.

Il ricorso al simbolismo religioso e alla solenne scenicità non nasce casualmente nella mente del sacerdote. Zinnanti ha osservato chiaramente lo scenario forzato dall’emigrazione e intuisce come, in quella realtà, la religiosità possa essere un elemento di identificazione e di congiunzione culturale e come un rituale religioso forte, se trasportato negli spazi d’immigrazione, possa costituire il “ponte psichico”, tra l’isola di origine e i paesi di destinazione, per vivere il mito originario, i valori primordiali.

Gli anni che poi seguiranno daranno ragione al sacerdote: in America, in Portogallo, in Francia, in Argentina, in Australia, così come a Trapani, a Palermo, a Roma, a Milano i fuoriusciti prepareranno in casa l’altarino di San Giuseppe, imbandiranno la mensa con i piatti tradizionali, inviteranno i tre poverelli, anno dopo anno, generazione dopo generazione, fino ai giorni nostri, legati al culto e alle tradizioni degli avi.

Non altrettanto avverrà per Padre Zinnanti. Dell’umile sacerdote rimarrà il suo libretto sulla storia delle isole, pochi scritti disordinatamente riposti nella sacrestia, forse mai letti con la diligenza con cui erano stati concepiti. Nemmeno la sua tomba è nota, sebbene un certificato di morte ne attesti la sepoltura nel nuovo cimitero dell’isola. Per lui non esiste una lapide che lo ricordi. Per lui, che la memoria aveva voluto scolpirla sul frontale della chiesa, in onore di quei giovani “prodi” marettimari, richiamati a servire una patria, che ancora patria non era. 

Dialoghi Mediterranei, n. 51, settembre 2021 
Note
[1] P. Domenico Stanislao Alberti. Maraviglie di Deo in onore della sua SS Madre riverita nelle Sue celebri immagini in Sicilia e nelle isole circonvicine. Parte II. Palermo, Franc. Amato, 1718, Cap XXVII.
[2]Archivio Vescovile Trapani, faldone sulla Chiesa di Marettimo. Lettera del giudice Pasquale Garufi inviata all’Intendenza di Trapani datata 1 aprile 1852.
[3] Archivio Vescovile Trapani, faldone sulla Chiesa di Marettimo. Lettera del Cappellano Curato Giuseppe Rizzo inviata al Vicario Generale di Trapani datata 24 marzo 1863.
[4] P. E. Duran. Una perla in fondo al Mare, Trapani, 1928.
[5] Sac. M. Zinnanti. Cenni storici delle Isole Egadi. Monte S.Giuliano, Tip. G. Genovese, 1912.
[6] Trovasi all’interno del manoscritto del Sac. Zinnanti Il Curato al pulpito in Quatragesima Anno 1915, depositato tra i libri sacri nella sacrestia della Chiesa Maria SS delle Grazie di Marettimo.
[7] Trovasi tra i libri sacri, con il titolo Stato delle Anime 1915, nella sacrestia della Chiesa Maria SS delle Grazie di Marettimo.

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Emilio Milana, egadiano, ingegnere optoelettronico, vive tra Bologna e Marettimo. Ha scritto opere sulla storia della cucina, dell’alimentazione e dell’archeologia dell’arcipelago. Tra le sue pubblicazioni: La scia dei tetraedri. Nel mare gastronomico delle Egadi, premiato al Premio Bancarella (Pontremoli 2009), Hiera fu cartaginese?, un’accurata analisi sui siti archeologici rinvenuti dall’autore a Marettimo, comprovante la frequentazione fenicio-punica dell’Isola come una  “stazione di servizio” nel mare Mediterraneo.

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