di Cristina Lavinio
Premetto che questo è il testo del mio intervento nella tavola rotonda di apertura del festival “Teatro di terra” (Quartucciu, 12-20 settembre 2024), organizzato da Rita Atzeri, del Centro di intervento teatrale “Il Crogiuolo”. La tavola rotonda era dedicata alla discussione su quanto sta accadendo in Sardegna a proposito dei tanti progetti su eolico e fotovoltaico, per una transizione energetica che ha urgente bisogno di essere regolamentata, sottraendola a quella che altrimenti appare come una insopportabile speculazione. Infatti, a tanti presentatori o sostenitori dei moltissimi progetti esistenti, sembra troppo spesso importante e urgente solo incassare gli incentivi, incuranti del giusto equilibrio, che spetta alla politica e al governo regionale trovare, fra la transizione alle rinnovabili e la salvaguardia del paesaggio e delle tante chiese, nuraghi, menhir e siti archeologici di ogni tipo disseminati sul territorio isolano.
In vista di questa tavola rotonda, mi è stato chiesto di parlare del ruolo della letteratura nel contribuire alla costruzione di uno sguardo critico sul mondo. Rispetto a un tema così ampio, dico solo che, naturalmente, sappiamo bene quanto il potere della letteratura sia o possa essere straordinario, quanto sia grande il suo contributo alla nostra conoscenza del mondo pur nella costruzione di una finzione narrativa che, peraltro, mobilita la nostra capacità di cogliere punti di vista e sguardi diversi sul mondo reale a partire da quelli di cui, nei mondi possibili creati, sono portatori i diversi personaggi. «La grande sfida per la letteratura è il saper tessere insieme i diversi saperi e i diversi codici in una visione plurima, sfaccettata del mondo», diceva per esempio Italo Calvino a proposito della “molteplicità”, cui è dedicata l’ultima delle sue Lezioni americane. Ma do per scontato che tutto ciò sia ampiamente noto e condiviso.
Perciò ho deciso di circoscrivere l’argomento per parlare di alcuni scrittori sardi che hanno trattato in modo efficace di ambiente e paesaggi della Sardegna non solo per descrivere ed esaltare la bellezza del suo territorio, ma anche per denunciare gli attentati che ha già subìto e i pericoli che lo minacciano.
E voglio partire dalla lettura di questo passo, tratto da Il nostro padrone, uno dei romanzi meno noti di Grazia Deledda [1]:
«In quel tempo l’Orthobene era quasi ancora a metà coperto di boschi; ma il versante orientale, le cui piante appartenevano al Perrò veniva già diboscato. Grandi estensioni boscose dei versanti nord e ovest aspettavano la medesima sorte; ma lo speculatore non si decideva a cominciare il taglio da quelle parti in attesa che la nonna di Antonio Maria gli vendesse la sua tanca, il cui passaggio era permesso ai pedoni e non ai carri per il trasporto della scorza e del carbone.
Bruno [2] attraversò un angolo di questa grande estensione di bosco, che divideva quasi in due parti le proprietà del Perrò col suo mare di roccie e di verde. Gli alberi, lecci millenari dai tronchi alti e grossi come maestose colonne di ferro, sorgevano così fitti che una specie di crepuscolo regnava sotto le loro chiome compatte; e il suolo era coperto da uno strato di foglie secche annerite dall’umido e qua e là ammucchiate come alghe in riva al mare.
Il globo rosso del sole sorgente sfiorava la linea d’oro del mare lontano, quando egli giunse sopra una muraglia di macigni che in quel punto segnava il confine fra la tanca Moro e la lavorazione Perrò. Si vedeva di lassù tutta la grande vallata chiusa dai monti di Dorgali e di Oliena e la striscia metallica del Cedrino, gli stradali bianchi, i muricciuoli, le linee delle macchie disegnate vagamente sulle distese verdognole e rugginose coperte da un velo azzurro di vapori mattutini[3]. Egli scese una specie di scalinata di roccie e attraversò un altro bosco ed una estensione di terreno ove il taglio era già terminato.
Quel tratto di montagna dava l’idea di un cimitero; gli avanzi dei tronchi sembravano tombe e croci, e le roccie monumenti funebri; e famiglie di umili vegetali, cespugli di tasso e di rose canine già in fiore, si raccoglievano intorno ai giganti morti, come superstiti sfuggiti alla distruzione e ancora tremanti di terrore. […]
Uomini dal viso melanconico e dallo sguardo mite, non ostante la scure e il coltello di cui erano armati, popolavano il luogo selvaggio» (2018:61-62).
Ancora, una decina di pagine dopo, troviamo lo stesso personaggio che da una parte sembra perplesso ma che dall’altra si arrende ai propri disegni speculativi:
«V’erano giorni in cui Bruno sentiva un vero odio di razza contro tutta la genterella che invadeva la foresta; e i gridi dei carriolantes[4] che incitavano i buoi, le cantilene delle donne, e persino le risate dei ragazzi, gli dispiacevano. Egli s’aggirava continuamente intorno ai lavoratori, pesava la scorza, riempiva le bollette: taceva, ma il suo pensiero lavorava come la sua mano. I suoi progetti si facevano sempre più distinti, e propositi dimenticati gli risalivano dal profondo della memoria: l’idea dell’albergo lo tentava, perché Marielène era buona cuoca e anche lei non avrebbe certo smesso di lavorare, ma un albergo non può come una speculazione arrischiata formare la fortuna d’una famiglia. La speculazione è la chiave che apre le porte della fortuna, il badile che può strappare alle viscere della terra, a furia di rischi e di sforzi, il tesoro nascosto» (ivi: 72-73).
Il nostro padrone testimonia dunque la grande speculazione, tra fine Ottocento e primo Novecento, del taglio dei boschi – in un’isola che era altrettanto boscosa quanto la Corsica – per farne soprattutto traversine per la rete ferroviaria di tutta Italia. Come leggiamo nella quarta di copertina dell’edizione Ilisso della medesima opera, «i personaggi di questo atipico romanzo della Deledda, mentre esprimono valutazioni, denunciano la cattiva coscienza di chi assisteva a quello scempio ambientale, e danno anche voce alle ragioni attraverso le quali, come sempre accade nei periodi in cui è possibile fare bottino di una qualche irripetibile risorsa naturale, si cercano alibi e giustificazioni al proprio operare».
Preoccupata per i saccheggi che la Sardegna subisce, l’autrice si conferma amante della sua bella isola, da difendere anche dai tanti luoghi comuni che la colpiscono, come per esempio quello che la considera terra di violenza e di banditi. Contro tali diffusi stereotipi Grazia Deledda si è scagliata anche in vari passi delle sue tante lettere, indirizzate in particolare ad Angelo De Gubernatis. E si può aggiungere che tanto «atipico» questo romanzo non è, dato che la scrittrice è stata più attenta di quanto non si creda anche al mondo del lavoro e alle nuove imprese che portano in Sardegna imprenditori e lavoratori di altre regioni, ora a tagliare boschi, ora a costruire strade e ponti (come nel romanzo La chiesa della solitudine, del 1936). Per non citare la costruzione di argini in un romanzo ambientato però in Romagna (L’argine, 1934). Nella narrativa deleddiana non c’è dunque solo il mondo pastorale e contadino, rappresentato per esempio dal buon mezzadro Efix che cura amorevolmente il poderetto delle dame Pintor in Canne al vento…
Mi sono soffermata su Grazia Deledda perché, a proposito del taglio dei boschi, i più ricordano solo Paese d’ombre di Giuseppe Dessì (premio Strega nel 1972), mentre ignorano o dimenticano che in precedenza la nostra scrittrice ne aveva fatto il tema del succitato intero romanzo, usando la parola speculazione. E questa parola oggi risuona attualissima, in un dibattito che riguarda invece il sole e il vento che si vogliono sfruttare nell’isola senza peraltro darle molto in cambio e producendo molta più energia del dovuto e del ‘trasferibile’ altrove [5].
In Paese d’ombre [6], ambientato in Parte d’Ispi e a Norbio (il nome che nel romanzo viene dato a Villacidro) c’è il piemontese ingegner Ferraris che
«si trovava a Norbio con l’incarico di sollecitare la consegna di mille cantara di legna necessari alle Regie Fonderie della zona; e l’Intendente Generale aveva mandato lui perché era un uomo energico, capace di farsi obbedire.
Qualche anno prima era riuscito a farsi consegnare la legna dal Consiglio comunitativo minacciando di requisire buoi, cavalli, carri e di far tagliare la foresta dai forzati che lavoravano alle sue dipendenze nelle miniere dell’Iglesiente. La consegna forzosa di ingenti quantitativi di legna durava da più di un secolo. Nel 1740, il Re aveva concesso al nobile svedese Carlo Gustavo Mandell il diritto di sfruttare tutte le miniere di Parte d’Ispi in cambio di una esigua percentuale sul minerale raffinato; e gli aveva permesso di prelevare nelle circostanti foreste il carbone e la legna per le fonderie, costringendo i comuni a vere e proprie corvé e distruggendo così il patrimonio forestale della regione.
Lo scempio era continuato anche quando miniere e fonderie, scaduto il contratto trentennale di Mandell, furono gestite direttamente dal regio governo. Anzi da allora la situazione si era aggravata, perché le richieste di combustibile si erano fatte più pressanti e perentorie» (1972: 77).
Dunque lo «scempio» era continuato anche dopo soddisfatta la richiesta iniziale, che già prevedeva un’interazione tra sfruttamento delle miniere e delle foreste insieme. E si ricordi che proprio in Paese d’ombre si parla anche dei fatti di Buggerru, uno sciopero dei minatori finito nel sangue nel settembre del 1904 [7]. Ma continuiamo a leggere il passo sopra riportato, ricordando che ci si trova, nella storia narrata, in un momento di grande pericolo a causa di un’alluvione e l’ingegner Ferraris, adoperatosi a far defluire le acque del torrente che, gonfiatosi, rischia di tagliare in due il paese, propone la costruzione di un ponte [8]. Tra l’altro, riuscirà a superare le diffidenze dei paesani, che non capiscono il suo italiano, grazie alla traduzione fattane, nel dialetto locale, dal norbiese (villacidrese) Angelo Uras (alter-ego del nonno di Dessì), la cui vita è narrata nel romanzo.
«La folla radunata in piazza era convinta che la proposta dell’ingegnere nascondesse un tranello, ma Ferraris voleva solo aiutarli, e cercava di spiegarlo ad Angelo che gli faceva da interprete. Gli sprovveduti montanari erano lontani dall’immaginare che proprio il duro e autoritario Ferraris era uno dei pochi tecnici piemontesi preoccupati della progressiva distruzione dei boschi. Ferraris aveva più volte proposto che, per la fondita del minerale, venisse adoperato il carbonio fossile che si ricavava nello stesso bacino minerario del Sulcis. Ma il Re, avidissimo della miserrima percentuale del 2% che gli spettava per contratto sull’argento e il piombo raffinati, respingeva tutte le proposte di esperimenti innovativi che rischiassero in qualche modo di ritardare il ritmo della produzione. Così l’ingegnere correva il rischio di passare per un sobillatore e un giacobino quando cercava di salvare quel poco che restava delle foreste di Parte d’Ispi e, dalla popolazione, veniva considerato un aguzzino dell’esoso governo» (ivi: 77-78).
Ancora più esplicite sono la consapevolezza e la «resipiscenza» dell’ingegnere a proposito del dissesto idrogeologico provocato dalla deforestazione, come leggiamo poco più avanti:
«Ferraris si ricordava bene i boschi di un tempo e sapeva che, se ci fossero stati, i torrenti non si sarebbero precipitati dalle montagne con tanta violenza e le povere case dei caprai di Castàngias non sarebbero state sepolte dalla frana come quella mattina era successo. Nessuno di quelli che lo guardavano lavorare con l’acqua fino al petto, trasportare travi e ancorarle al greto, poteva immaginare che il suo slancio fosse dovuto a una resipiscenza, alla reazione che aveva provocato in lui la faccia di quella gente che era diventata italiana senza nemmeno sospettarlo e senza migliorare minimamente la propria condizione di eterni “vassalli”» (ivi: 80).
A questo punto, si dovrebbero citare altri autori, fino ai più recenti, che hanno parlato delle bellezze naturali e della ricchezza culturale di un paesaggio sardo tutto da difendere. Tra questi anche Salvatore Cambosu, che nelle ultime pagine del suo troppo spesso dimenticato zibaldone letterario Miele amaro, nel brano intitolato “Il trenino se ne va”, rappresenta un’isola la cui «immobilità» cede al progresso. E il trenino che se ne va è quello delle ferrovie a scartamento ridotto, sostituite dalle più veloci autocorriere. Siamo nel 1954, a ridosso delle prime istanze per il Piano di Rinascita; ma è forte anche, in queste pagine, il monito implicito a non dimenticare la bellezza naturale e la ricchezza culturale di tutte le zone della Sardegna, nominate anch’esse con le loro specificità, da Castelsardo a Sant’Antioco, dall’Anglona al Campidano, dal Marghine e dall’Ortobene a Santa Barbara, e così via, in un lungo bellissimo elenco di frasi veloci e fulminanti, scandite e isolate in tanti punti e a capo. Come queste quasi finali, in cui elementi del paesaggio naturale si alternano a tratti storico-culturali e/o accenni ad attività lavorative:
«I campi elisi degli asfodeli.
Gli stagni e le peschiere.
Le piramidi di sale e le catacombe minerarie.
I ponti e i manieri.
Le torri di Pisa e quelle antisaracine.
I noci. I noccioli, i castagni, i carrubi.
I giardini d’aranci.
Le chiese nelle contrade dai bellissimi nomi» [9].
E come non ricordare Francesco Masala, con il suo Il dio petrolio (del 1986) reintitolato nel 2001 Il parroco di Arasolè? [10] Questo parroco di origine contadina è diventato un «prete industriale», cui è stato imposto di essere alleato del potere. Guarda desolato dal campanile della sua nuova chiesa, costruita con i finanziamenti elargiti dai padroni della Saras, un altro campanile: la Fiaccola ben più alta che brucia costantemente nella raffineria di Sarrok [11], la «Raffineria più grande d’Europa», una «cattedrale nel deserto», mentre «vinti ma non convinti» sono i sardi chiamati ad abbandonare la vecchia economia agropastorale comunitaria. Quest’ultima era un’economia che, come in modo un po’ romantico scriveva Emilio Lussu in quegli stessi anni, affidava al consiglio degli anziani il compito di regolare i rapporti interni del territorio, ancora quasi come nella “Carta del Logu” dei giudici d’Arborea.
«La quale Carta, per la verità, gli orti, i piccoli chiusi attorno al villaggio, le strisce di vigne e i rari seminati, li proteggeva meglio di quanto non abbiano saputo fare le legislazioni del regno sardo e dello stato nazionale, monarchico o repubblicano» [12].
La citazione è tratta dal Commento (del 1967) introduttivo a Il cinghiale del diavolo, splendido racconto di caccia (che risale invece al 1938) dove Lussu manifesta comunque il grande rispetto dei pastori-cacciatori di un tempo non solo per la natura e i suoi ritmi, ma anche per gli animali che la popolano [13]; mentre il fascino di tale mondo della sua infanzia e prima giovinezza trasuda nel ricordo dell’Altipiano di fronte al suo villaggio, con
«le distese verdi dei cisti fioriti in bianco, intramezzati da cespugli blu, contemplati dall’alto, a cavallo, in primavera» (ivi: 9).
Ma mi piace citare anche la grande efficacia del passo seguente, dettato da uno sguardo su una natura bellissima ugualmente percorsa a cavallo:
«Se un turista, abbandonata l’auto, può avere da un amico un cavallo da sella, si godrà, in maggio, le ore più belle della sua vita. E sentirà anche l’usignolo, che ormai non si fa vivo che alla radio. E potrà vedere, spettacolo unico in Italia, i pianori d’asfodelo mossi dal vento: onde marine illuminate da un colore di sole al tramonto, che l’asfodelo solo allora acquista, abbandonando quel bianco-rosso sporco, che doveva essere gradito, in Grecia antica, persino agli dei, nell’Olimpo che ne era carico» [14].
Nel superamento della vecchia ed esclusiva economia agropastorale e nel temuto dominio del dio petrolio paventato da Masala si può leggere tutta la polemica nei confronti di una scelta (che ha riguardato anche il Polo petrolchimico di Ottana e quello di Porto Torres) fatta in nome dell’industrializzazione dell’isola, ma con grande sottovalutazione dell’inquinamento e dei pericoli per la salute che ne sarebbero derivati. Peraltro, non ne è nato un progresso economico diffuso, dato che ci si è fermati all’industria di base, a solo grande profitto dei padroni venuti da fuori.
Al riguardo, si può ricordare pure Le intime pietre. Un racconto industriale di Ignazio Lecca [15], in cui quello che in Masala, con una inversione sonora di petrolio, è chiamato olio di pietra, viene preso alla lettera e, in modo fantastico e surreale, nascono pietre dalle pietre nei terreni di cui gli abitanti di S** (ancora una volta Sarroch, dunque) si vogliono disfare perché non valgono nulla, ma saranno pagati bene da chi impianterà la raffineria. Sono pochissimi coloro che tentano di opporsi inutilmente a tutto ciò, anche se si spegneranno, a poco a poco, le grandi speranze di rinascita per tutti riposte nella Saras. Lavoro? Al massimo manovalanza per la costruzione degli impianti…
Infine, facendo un salto veloce nel tempo e arrivando quasi fino a oggi, mi preme ora ricordare almeno Giorgio Todde e Giulio Angioni. Il primo per la sua straordinaria sensibilità, nello scrivere e ‘rianimare’, in Memorie del sottosuolo (testo per una performance teatrale), il passato di zone archeologiche come Tuvixeddu (e ricordo la battaglia, che abbiamo vinto, fatta per anni per difendere la più grande necropoli punica del Mediterraneo dalla speculazione edilizia e dai palazzoni di camere con vista sulle tombe); Giulio Angioni per avere denunciato, in particolare in Assandira [16], la reinvenzione e falsificazione del folklore, entro una complessiva mercificazione funzionale all’industria del turismo. Come sta diventando oggi sempre più chiaro, anche questa, se non debitamente regolata [17], può finire per distruggere un luogo che, invece, è e deve restare bello prima di tutto per noi sardi che ci viviamo.
Era del resto questa considerazione ad impregnare in modo diffuso il programma di “Progetto Sardegna”, diventato poi programma della coalizione “Sardegna insieme” che nel 2004 vinse le elezioni regionali. E Giulio Angioni e Giorgio Todde fecero ambedue parte della commissione regionale che, durante la presidenza di Renato Soru, contribuì al varo del Piano Paesaggistico Regionale, il PPR che ha funzionato e funziona ancora a difesa delle coste da quella cementificazione che rischiava di chiudere interamente il territorio isolano entro un anello di costruzioni continue, a due passi dal mare.
La bellezza della Sardegna, luogo “selvaggio” nel passo deleddiano citato inizialmente, era già stata definita “selvaggia” da tanti scrittori dell’Ottocento (e mi riferisco per esempio a Carlo Brundo, Enrico Costa, Ottone Bacaredda), come del resto selvaggia veniva detta la Corsica nel romanzo di Prosper Mérimée, Colomba, non a caso tradotto da Bacaredda. C’era in questa definizione anche un riecheggiare di quanto tanti viaggiatori avevano detto già dal Settecento; ma è ciò che molti continuano a ripetere tutt’oggi a proposito della Sardegna, siano essi turisti oppure autori e conduttori – da Licia Colò a Mario Tozzi – dei tanti documentari in cui si parla dell’isola, diventata tanto di moda in TV.
Oltre ai paesaggi, selvaggi sono anche costumi e personaggi nella Sardegna affrescata da Grazia Deledda, che suscitò con le sue opere una grande curiosità per quest’isola, vista come esotica e affascinante nel suo esotismo dai lettori non sardi (italiani di altre regioni, ma anche stranieri) per i quali l’autrice scriveva. Tutto ciò le è stato anche rimproverato da chi, in tempi recenti, ha sottolineato la parziale falsità di un autoesotismo che peraltro pretende di estendere all’intera isola ciò che è già un po’ forzato per la rappresentazione letteraria della Barbagia.
Ma non voglio parlare di tutto ciò, bensì ricordare che ancora oggi questo carattere affascina spesso chi visita la Sardegna e non si limita a chiudersi in un residence sul mare. Però, mi chiedo, quanto resterà di questa bellezza “selvaggia” un domani, visto l’assalto programmato ai suoi luoghi più belli, mare compreso? Quanti turisti vorranno ancora venire nell’isola, quando non la percepiranno più tanto bella? L’eolico e il fotovoltaico selvaggi non faranno un grande danno al turismo e alla sua economia? Per non parlare delle pale off-shore, come vengono dette quelle previste in mare [18], non si capisce a quanta distanza dalla costa. Secondo alcuni progetti potrebbero sorgere, alte fino a 300 metri, persino di fronte a Capocaccia e alla costa algherese (e che fine faranno il corallo e i corallari?) o a Carloforte (che fine faranno i tonni e le tonnare se, come pare, l’ecosistema marino sarà stravolto?). E chi, tra vent’anni circa (pare sia questa la durata media delle pale), si prenderà la briga di smaltire questi ecomostri altamente inquinanti, che spargeranno ovunque particelle nocive di vetroresina e che desertificano il suolo su cui poggiano le loro amplissime basi di calcestruzzo? Sono preoccupazioni e domande che ci facciamo in tanti, sperando che si trovino i modi per impedire una proliferazione selvaggia degli impianti, pur nel rispetto di una necessaria, ma ragionevole e ben governata, transizione ecologica verso le “rinnovabili”.
Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024
Note
[1] Pubblicato da Treves nel 1910, lo si citerà qui dall’edizione “Il maestrale”, Nuoro, 2018. Con prefazione di Michela Murgia, il romanzo era uscito nel 2009 anche con la casa editrice Ilisso di Nuoro.
[2] Questo personaggio è il ‘continentale’ Bruno Papi, capomacchia della Forestale.
[3] Emerge qui la notevole capacità di descrivere il paesaggio da parte di una scrittrice che è sempre attenta ai colori e alle loro sfumature e che, come la critica ha notato più volte, dipinge con le parole.
[4] «Carrettieri», traduce in nota l’autrice.
[5] Si calcola che attualmente il consumo energetico dell’isola sia al massimo di 2Gw, mentre non ci sono ancora i cavi per esportare tutto il surplus di energia che si produrrà, né saranno sufficienti quelli programmati.
[6] G. Dessì, Paese d’ombre, Mondadori, Milano, 1972. Si riferiscono a questa edizione le pagine sopra citate.
[7] Sulla narrativa che tocca il tema dello sfruttamento delle miniere, protrattosi sino a tempi ben più recenti, si potrebbe aprire un altro capitolo citando almeno i romanzi Il figlio di Bakunin di Sergio Atzeni (1991), Il pozzo Zimmerman di Paolo Corrias (1999) e Doppio cielo di Giulio Angioni (2010).
[8] In una libera associazione, ricordo l’Oratio pro ponte di Emilio Lussu nel proporre in Parlamento, nel 1951, la costruzione di un ponte per un analogo torrente che, ingrossandosi, isolava completamente il suo paese (Armungia). E ciò mi viene in mente non tanto perché l’irruenza pericolosa dei corsi d’acqua in piena sia un fatto poco comune, quanto perché Lussu, da grande narratore ironico qual era, inseriva nel suo intervento parlamentare un aneddoto gustoso: quello di un noto maestro «mangiasanti e mangiapreti» che, salito con lui a cavallo per attraversare il torrente in piena, nel timore di essere travolto e cadere, si faceva in continuazione il segno della croce e poi, arrivato in salvo, prese ad andare a messa tutti i giorni. Per cui, «a differenza di Paolo di Tarso che passò al Cristianesimo cadendo da cavallo, egli si convertì standoci in sella» (E. Lussu, Oratio pro ponte, in Il cinghiale del diavolo e altri scritti sulla Sardegna, a cura di S. Salvestroni, Torino, Einaudi, 1976: 137-153: 148).
[9] S. Cambosu, Miele amaro, Firenze, Vallecchi, 1954:326.
[10] Il dio petrolio fu pubblicato dalle Edizioni Castello di Cagliari, Il parroco di Arasolè da “il Maestrale” di Nuoro.
[11] Scritto in questo modo nel testo, anche se la grafia più corrente è Sarroch. Ed erano i primissimi anni Sessanta del Novecento quando venne impiantata la raffineria di Moratti.
[12] E. Lussu, Il cinghiale del diavolo, cit.: 10.
[13] Tanto che c’è, come leggiamo nel Commento, chi rinuncia a sparare a qualche esemplare troppo bello e preferisce dare la caccia ai cinghiali piuttosto che ai cervi, in omaggio alla loro generosità nel nascondere e salvare i cerbiatti a costo di sacrificarsi in vece loro (E. Lussu, Il cinghiale, cit.: 16-17).
[14] E. Lussu, Guida Touring Club, Settembre 1963, ora riprodotta in E. Lussu, Tre poesie (1959-1970), con uno scritto sul turismo in Sardegna, sei vignette di Mameli Barbara e presentazione di Giuseppe Caboni, “Sardus pater” XIX, Nardini Editore, 2024: 31-32: 32.
[15] Pubblicato da Janus, Cagliari, 1987/1995.
[16] Romanzo pubblicato nel 2004 da Sellerio, Palermo. Salvatore Mereu ne ha tratto il film omonimo, interpretato da Gavino Ledda, autore di Padre padrone.
[17] Come per esempio molti sindaci cominciano a fare, contingentando la possibilità di accedere alle spiagge più belle.
[18] A differenza degli impianti eolici sulla terraferma, questi dipendono direttamente dallo Stato, sfuggendo a qualunque controllo degli enti locali (Regione e Comuni), per produrre tanta energia in esubero (e senza limiti) rispetto agli almeno 6,2 GW (già troppi) che si è deciso debbano essere prodotti dalla Sardegna.
______________________________________________________________
Cristina Lavinio, già ordinaria di Linguistica educativa all’Università di Cagliari, ora in pensione, è responsabile per l’italiano del polo della Sardegna, nell’ambito del progetto nazionale promosso dall’Accademia dei Lincei “I Lincei per una nuova didattica nella scuola”. Fa parte della giuria del Premio Tullio De Mauro (sezione del Premio nazionale “Salva la tua lingua locale”). È stata segretaria nazionale del GISCEL (Gruppo di Intervento e di Studio nel Campo dell’Educazione Linguistica) e si è sempre occupata anche di formazione degli insegnanti e di educazione linguistica e letteraria. Le sue numerose pubblicazioni vertono su temi di linguistica del testo, di linguistica italiana e sociolinguistica, riguardano le varietà della lingua, la comunicazione orale e scritta, generi narrativi di tradizione orale e popolare, lingua e stile di numerosi scrittori sardi, tra i quali Grazia Deledda, Salvatore Cambosu, Emilio Lussu, Giuseppe Dessì, Salvatore Satta. Si ricordano qui solo il volume Narrare un’isola. Lingua e stile di scrittori sardi (Bulzoni 1991), la cura di Oralità narrativa, cultura popolare e arte. Grazia Deledda e Dario Fo (ISRE-AIPSA 2019), oltre a numerosi altri saggi su atti di convegni e riviste, fino a un contributo sulle prime attestazioni e il persistere di vari luoghi comuni a proposito di Grazia Deledda (in “Italica Wratislaviensia”, vol. 15, 2024).
______________________________________________________________