di Nicola Grato
Philippe Lejeune aveva suggerito, come ricorda Mario Isnenghi, che il nome più appropriato e adatto a una “espansione effusiva” dell’Archivio diaristico di Pieve Santo Stefano fosse quello di «patrimonio autobiografico di Pieve Santo Stefano», che meglio avrebbe definito questi atti di scrittura quali testimonianze di vita che mettono in dialogo tra loro diverse classi sociali e generazioni. Storie di vite, storie di luoghi, di paesaggi, di abitudini: storie, diari, memoriali, racconti tramandati oralmente. Storie di partenze, di arrivi, storie di guerra.
L’alfabetizzazione di massa ha permesso a tantissime persone di scrivere di sé, di raccontare la storia attraverso le storie quotidiane, i racconti che, esclusi dai “circuiti” intellettuali e dai premi à la page, trovano fortunatamente luoghi in cui sono preservati dall’oblio, ne citiamo solo alcuni: l’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano è il modello di riferimento nazionale e uno dei più importanti a livello internazionale anche grazie al Premio Pieve Saverio Tutino; esistono poi l’Archivio ligure della scrittura popolare, l’Archivio della scrittura popolare della Fondazione Museo storico del Trentino, l’Archivio alessandrino di scrittura popolare, l’Archivio di scritture popolari siciliane a cura del Centro studi filologici e linguistici siciliani.
Dell’Archivio di Pieve ha scritto Saverio Tutino: «L’intenzione dei promotori è evidente: si tratta di convogliare in una sede pubblica questo genere di testi autobiografici per rispondere contemporaneamente a due esigenze, quella dell’io privato che vuole essere letto e quello della società moderna che vuole venire a conoscenza della padronanza di sé delle proprie cellule vitali» [1]. Ci sembra interessante questa definizione della scrittura popolare come insieme di “cellule vitali”: di quale organismo? Dell’organismo sociale, delle comunità. In questo senso gli archivi sono come arche, teche della memoria, luoghi in cui si esplicita il contratto sociale, avamposti di civiltà: ben prima che da noi in Italia, in Polonia, nel 1921, venne fondato il primo archivio autobiografico da Florian Znaniecki, come ci ricorda Anna Iuso [2] .
Oltre agli archivi “istituzionali” esistono ovviamente gli archivi privati, i cassetti che contengono lettere, cartoline, fotografie; esistono ancora gli “uomini libro” che si incontrano per strada e ti raccontano di loro, delle loro esperienze di vita. C’è chi consegna un memoriale, un diario. A stare attenti i nostri paesi sono “covi” di storie che spesso restano chiuse in quei famosi cassetti. Nessuno di queste persone “aspira” a una carriera letteraria, ma a lasciare una traccia di sé, come dice il contadino Michele Mulieri citato da Rocco Scotellaro in Contadini del Sud: «La vita è una storia, ma da farla, il mondo è un passaggio. Passando per il mondo bisogna lasciare la propria traccia».
Perché scrivere? Perché lasciare tracce, mandare segnali di fumo da terre lontane, affidare a bottiglie gettate nell’Oceano messaggi? Scrive Tomasi di Lampedusa: «Quello di tenere un diario o di scrivere a una certa età le proprie memorie dovrebbe essere un dovere “imposto dallo Stato”: il materiale che si sarebbe accumulato dopo tre o quattro generazioni avrebbe un valore inestimabile […] Non esistono memorie, per quanto scritte da personaggi insignificanti, che non racchiudano valori sociali e pittoreschi di prim’ordine» [3].
Scrivere di sé, della propria vita, della propria esperienza migratoria o dei ricordi d’infanzia ha rilevanza costituzionale: la scrittura contribuisce alla edificazione quotidiana della democrazia, al mantenimento della pluralità di opinioni contro l’omologazione e l’appiattimento del pensiero; scrivere è libertà ancorata saldamente alla responsabilità: attraverso la scrittura si può costruire una comunità reale fondata sulla parola di chi non ha avuto mai diritto alla parola, pensiamo ai contadini di tutti i Meridioni e di tutti gli Orienti del Mondo, pensiamo agli schiavi della terra; la scrittura cosiddetta popolare è inoltre un documento potentissimo della funzione fondamentale cui assolve ogni lingua, ovvero comunicare. E comunicare significa partecipare, fare parte, prendere parte.
Diretta “emanazione” dell’Archivio diaristico di Pieve è il sito internet Italiani all’estero, i diari raccontano, cioè una selezione dei diari più significativi raccolti sotto il soggetto “Emigrazione” nell’archivio di Pieve. «I criteri seguiti per la scelta delle testimonianze da pubblicare», leggiamo sul sito, «[…] hanno a che fare con l’interesse storico delle singole traiettorie umane raccontate nei documenti. Ma non solo: oltre all’interesse di presentare punti di vista diversi sui grandi avvenimenti storici, questo progetto si è posto l’obiettivo di raccontare il vissuto comune a tutte le esperienze migratorie, che costituiscono il nucleo principale della selezione documentale insieme ai racconti di viaggio o di lavoro temporaneo all’estero».
Tra queste storie, quella di Salvatore Coco di Mascali, che decide nel 1911 di lasciare il paese per raggiungere l’Argentina. Ecco la decisione di intraprendere il viaggio in queste poche righe:
«Mentretanto il mio amico Romeo mi consigliava di andarmine in’America; mentre che io mai aveva pensato nell’America, per non allontanarme definetivamente del mio paese; Ma infini mi decisi a partire per Buenos Aires. La partenza fu impressionante; Comprendeva esattamente che mi esponeva a una nuova vita, e chi sà per quante anni doveva abbandonare la mia famiglia, e il mio amato paesello? … Il giorno 17 di Marzo dell’hanno 1911- di buon mattino ho abbandonata la mia casa paterna, forse per non rivederla mai più. Tutti della mia famiglia piangevano, specialmente quella poveretta di mia zia Luicia, che tanto mi amava, e forse il suo presentimento gli annunziava, che sarebbe l’ultima spartenza».
L’ultima parola, “spartenza”, è un vocabolo carico di significati, divenuto emblema del distacco, di tutte le partenze, con l’opera di Tommaso Bordonaro da Bolognetta, La spartenza, appunto. Quanto le parole di Coco ci ricordano quelle di Tommaso Bordonaro, che così descrive la sua spartenza per l’America:
«Dolorosa e straziande è stata la spartenza, ma trovando tutto al contrario di ciò che io credevo. Non potevo immaginare ciò che ho trovato. Alle ore 20 di pomeriggio siamo saliti sulla nave chiamata di nome Marine Shark e si distacca la nave della banchina facendo sosta per due ore e 30 minuti, ferma quasi due chilometri distante del porto per passare il controllo il commissariato ai passeggieri con passaporti alla mano e altri documenti, ed io che andavo in giro per appostare tutta la mia famiglia oltre le persone a me affidate. Ne mettevo apposto una e ne perdevo un’altra. Finalmente in ultimo sistemo me con mio zio Rosario e mio figlio Nino, così alle ore 22 e minuti 30 scende la pulizia italiana e parte la nave inviandosi verso la America. E così cominciamo ad essere americane su tutto e per tutto» [4] .
Leggendo un testo come questo siamo di fronte anche al gesto, alle movenze dello scrittore che è anche un parlante, una persona che racconta oralmente di sé, delle proprie esperienze nel mondo e del mondo. In un testo autobiografico, in una memoria, siamo persuasi a cercare “la verità umana”, per dirla con Anatole France e ricerchiamo quella che Lejeune ha definito “estetica della verità”. Assumiamo un atteggiamento di ascolto attivo, leggendo le memorie di un soldato, di una migrante; non ci interessa l’oggetto immaginario, fantastico ma il materiale e l’immaginario che da quel testo promanano e sono l’umanità di quelle donne e di quegli uomini che ci hanno lasciato una testimonianza del loro (nostro) essere nel mondo.
Oggi la “scrittura di sé” usa altre forme di comunicazione: i post di Facebook, i “reels”, le “storie” di Instagram o ancora di Facebook: occorre tenerne conto poiché i social network sono anche archivi, e archivi sensibilissimi.
Ritorniamo ancora a leggere Salvatore Coco, che nel suo memoriale racconterà del viaggio periglioso, dell’attesa in rada prima di sbarcare a Buenos Aires. In Argentina il Nostro lavorerà come calzolaio, tranviere. Si sposerà con una ragazza siciliana rifiutando la chiamata alla Grande Guerra da parte del Regio esercito italiano:
«In Agosto dell’hanno 1914 penzava di fare un’improvisata alla mia famiglia; Ma mentre faceva il tramite dell’imbarco scoppiò la tremente guerra Europea. Dopo pochi mesi che stava in America, l’Italia dichiarò la guerra alla Turchia, che fenè con l’occopazione della Tripolitania, e della Cirinaica, per parte D’Italia. Finita la guerra di Tripoli, il mondo passò un periodo di tranquillità; da per tutto vi era sufficiente lavoro, e regnava una allegria uneversale».
Affini a questi memoriali sul viaggio quelli di Francesco Tripodi o del calabrese Pietro Lucente, che nel suo diario racconta del famoso gomitolo di lana tenuto da una donna sulla nave, l’altro capo in mano a una persona rimasta sulla banchina del porto di Napoli: “spartirsi” era l’assottigliarsi del gomitolo, fino al precipitare dell’ultimo lembo nel mare scuro. Commenta Amoreno Martellini: «Il momento del distacco della nave dalla banchina del porto, per tutti i significati simbolici che porta con sé, si incide in modo così profondo nella memoria di chi parte da costituire un elemento fisso nella maggior parte delle autonarrazioni relative a esperienze migratorie transoceaniche. La ricostruzione di quel momento sembra quasi seguire un cliché letterario, anche per esperienze consumatesi in luoghi e tempi molto diversi tra loro» [5].
Tra i tanti, ricordiamo qui due memoriali raccolti da Santo Lombino: le storie di Sabatino Basso e di Santo Garofalo [6], Sabatino Basso di Secondigliano, in provincia di Napoli, ma siciliano di adozione per essersi trasferito a Castelvetrano a ventisette anni, ci ha lasciato il proprio memoriale di viaggio dal paese trapanese alle Ande. Sabatino era un “magliaro”, un “mestierante”. Nel 1907 organizza, insieme al fratellastro, una spedizione commerciale oltreoceano: partiranno da Napoli, sul vapore “Argentina”: tre settimane di viaggio con una sosta obbligata a Rio de Janeiro, infestata dalla febbre gialla. Nessuno può scendere dal vapore. Attraverso Santos e Montevideo, l’approdo a Buenos Aires e, dopo un periglioso attraversamento della Cordigliera delle Ande, l’arrivo a Valparaìso nel Cile, poi l’approdo finale a Lima, capitale del Perù.
Altra affascinante storia è quella di Santo Garofalo, che parte da San Mauro Castelverde (Pa), come tantissimi suoi compaesani, per l’America del Nord a bordo del Konig Albert dal Porto di Napoli nel 1907. Arriverà nell’Illinois, a Chicago, dove fonderà un impero economico nel settore alimentare. Il resoconto di Garofalo è da ascriversi davvero nella categoria storiografica dell’annalistica, per la meticolosità della narrazione e la datazione precisa degli eventi, che ci consegnano un altro fondamentale documento della cosiddetta, ma solo per pudore estremo, “storia scarsa”. Elemento comune ai due uomini del Sud del mondo è il viaggio, avventuroso, imprevedibile, faticoso; il viaggio ha spesso in sé la ragione sua più profonda: ragione del viaggio è il viaggiare.
Carmela Galante Costa, nata nel 1910 a Castellammare del Golfo, in provincia di Trapani, da Gaspare e da Giuseppa Greco, emigra negli Stati Uniti nel 1920, sarà autrice, nel 1964, di quaranta poesie in dialetto di Castellammare: un testamento poetico, culturale, una storia in versi; queste poesie sono state pubblicate sotto il titolo di Cu ttia avissi avutu furtezza e casteddru [7].
Carmela usa il verso per narrare, in forma diaristica diremmo, col chiaro intento di lasciare una testimonianza della propria storia personale, che inevitabilmente diviene storia di una generazione migrante. La Galante nomina, a volerne fissare iconicamente il senso e le radici, i luoghi della propria infanzia, con una scrittura chiara che si concede a scorci poetici notevoli.
Gnanca una busia, neanche una bugia, è il libro di Clelia Marchi, contadina mantovana di Poggio Rusco, che nel secolo scorso aveva raccontato la propria vita scrivendola su un lenzuolo. La scrittura come esigenza di verità, non la fiction ma la vita vera, la testimonianza nuda di una vita di lavoro, di scelte anche dolorose. Le tante storie dei contadini, ad esempio, storie di persone che sul passaporto recavano la dicitura “contadino” o “bracciante”, e che erano, più nello specifico, piccoli proprietari, salariati, lavoratori a giornata. La maggior parte, la stragrande maggioranza, proveniva dalla campagna del dolore e della fame. Delle storpiature dei corpi, delle morti in tenera età, della pagnotta per sfamare un’intera famiglia: altro che lucciole e cinciallegre, per dirla con Nuto Revelli!
Tra queste testimonianze di lavoro, segnaliamo infine quelle dei lavoratori italiani in miniera. Storie sconcertanti, che Martellini ha ben evidenziato nel capitolo del suo studio sulle scritture autobiografiche che si intitola La miniera: leggiamo così testimonianze di Luigi Villari, di Raul Rossetti che racconta della discesa in miniera dentro alla famigerata “gabbia”, del minatore bergamasco Mattavelli, il quale definisce “Cafarnao” la cittadina del Borinage belga presso cui presta servizio: aria spessa e sporca, cibo scaduto, cucine sporche, i “castelli” ai quali sono legate le funi per calare i minatori a mille metri sotto terra sembrano le stongarde dei lager nazisti.
Annota Martellini: «In effetti, però, Marcinelle non è che una tappa, forse la più nota, nel percorso secolare dell’emigrazione italiana, punteggiato di morti in miniera: uno stillicidio continuo, costante, inesorabile che, giorno dopo giorno, colpì i lavoratori italiani (e naturalmente non solo italiani) in Belgio come in Pennsylvania, nel sottosuolo della Ruhr come in quello dell’Ozark» [8].
Da Villafrati, in provincia di Palermo, come da altri paesi limitrofi a questo piccolo centro, negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso si è avuto un forte movimento migratorio verso il Nord Italia e la Svizzera soprattutto. Abbiamo intervistato, con un gruppo di alunni, chi è partito ed è ritornato “coi soldi” utili per rifarsi casa, e chi torna periodicamente a Villafrati ma ha residenza ormai in Svizzera. Ne riproduciamo qui qualcuna:
VINCENZO
prima di partire per la Svizzera,
facevo il gessaio a Villafrati,
ed era molto pesante.
Non ho lasciato figli a Villafrati
perché ero schietto, e così mi sono
pure goduto la vita, anche se si faticava assai:
lavoravo da lunedì a venerdì
e qualche volta facevo straordinario.
Era tutto organizzato bene,
dai migros agli ospedali.
C’erano siciliani da tutte le parti di Sicilia.
ROSALIA
la nostra condizione era un po’ scarsa,
così mio padre ha scelto di andare alla Svizzera
perché allora era stagionale. Lui tornava a Villafrati
una volta l’anno. All’inizio della sua partenza
per me era molto brutto stare lontana da lui,
ci scrivevamo, ma la presenza era un’altra cosa.
Quando ho finito la quinta elementare,
sono partita con la mamma e sono stata quattro anni
clandestina alla Svizzera, Losanna.
Ho poi lavorato a Losanna come operaia alla Kodak.
In Svizzera si stava e si sta ancora
molto meglio che in Sicilia.
SALVATORE
la nostalgia mi spaccava il cuore,
avevo pure desiderio di caldo,
anche il caldo forte scirocco,
ché alla Svizzera fa freddo,
e facevo il muratore sotto i tuoni.
GIUSEPPE
a Villafrati si soffriva la fame,
in Italia c’era il boom economico
ma a Villafrati no, e si rompeva la terra
per mangiare. Mi ricordo che
per andare in Svizzera
prendemmo il treno per Milano,
viaggiammo stretti come bestie,
e mancava l’aria.
PIETRO
in Svizzera mi ingegnai muratore.
Una volta con gli amici siciliani
decidemmo di fare una passeggiata
in una città vicino Vevey: abbiamo preso
l’autobus e siamo arrivati.
Era sera, siamo stati nei locali
e ci siamo divertiti. Non sapevamo
che dopo la mezzanotte non c’erano
più gli autobus, era l’una e ce la siamo fatta
a piedi fino a Vevey.
Siamo arrivati alle sei del mattino.
Scrive Carlo Levi nella introduzione ai Racconti siciliani di Danilo Dolci: «Nel nostro mondo completamente strutturato, organizzato, storicizzato, politicizzato, superbo di cultura e di tecnica, esiste tuttavia, dappertutto, un immenso sottomondo rimasto, o costretto, fuori della cultura, della direzione, della storia, della stessa esistenza personale: un mondo subalterno e inesistente, che può e deve raggiungere l’esistenza e la libertà, che si muove in questo senso, superando gli ostacoli interni ed esterni che lo trattengono e impediscono, e che in questo processo di liberazione esprime valori nuovi, e rende manifesta una illimitata forza creatrice» [9].
Le “scritture autobiografiche” non parlano soltanto di chi scrive, non ci raccontano soltanto la storia dell’autore della testimonianza: possiedono queste storie alto valore pedagogico e civico, ci parlano, ci chiedono ascolto, sono il tessuto connettivo del Paese, contribuiscono alla faticosa costruzione quotidiana della democrazia, che non può dirsi pienamente compiuta laddove ancora esistono disuguaglianze, discriminazioni, ostacoli.
Le “umane dimenticate istorie”, le scritture della memoria, gli archivi privati e pubblici sono le scuole alle quali attingere e studiare, quotidianamente, per contrastare democraticamente le derive neofasciste delle quali l’Italia sembra essere oggi in balìa.
Dialoghi Mediterranei, n. 62, luglio 2023
Note
[1] Cfr. il saggio di Tutino contenuto nel volume a cura di Q. Antonelli e A. Iuso, Vite di carta, l’ancora del mediterraneo, Napoli 2000: 101
[2] Cfr. Per una genealogia europea, in Vite di carta, op. cit.: 15-17.
[3] Cfr. il racconto Ricordi d’infanzia contenuto in I racconti, Feltrinelli, Milano 1996: 25-26.
[4] Tommaso Bordonaro, La spartenza, Edizioni Off, Palermo 2007: 40-41
[5] Amoreno Martellini, Abasso di un firmamento sconosciuto. Un secolo di emigrazione italiana nelle fonti autonarrative, Il Mulino, Bologna 2018: 55
[6] Sabatino Basso e Santo Garofalo, Avendo trovato l’America. Scritture di viaggio tra Sicilia e Nuovo Mondo, a cura di Santo Lombino, Fondazione Ignazio Buttitta, Palermo 2010
[7] Carmela Galante Costa, Cu ttia avissi avutu furtezza e casteddru. A life in poetry a cura di santo Lombino, ANFE 2011
[8] Amoreno Martellini, Abasso di un firmamento sconosciuto. Un secolo di emigrazione italiana nelle fonti autonarrative op. cit.: 129-130.
[9] Cfr. Carlo Levi, “Le ragioni di Danilo Dolci”, nota introduttiva ai Racconti Siciliani, Sellerio, Palermo 2008: 10
__________________________________________________________________________________
Nicola Grato, laureato in Lettere moderne con una tesi su Lucio Piccolo, insegna presso le scuole medie, ha pubblicato tre libri di versi, Deserto giorno (La Zisa 2009), Inventario per il macellaio (Interno Poesia 2018) e Le cassette di Aznavour (Macabor 2020) oltre ad alcuni saggi sulle biografie popolari (Lasciare una traccia e Raccontare la vita, raccontare la migrazione, in collaborazione con Santo Lombino); sue poesie sono state pubblicate su riviste a stampa e on line e su vari blog quali: “Atelier Poesia”, “Poesia del nostro tempo”, “Poetarum Silva”, “Margutte”, “Compitu re vivi”, “lo specchio”, “Interno Poesia”, “Digressioni”,“larosainpiù”,“Poesia Ultracontemporanea”. Ha svolto il ruolo di drammaturgo per il Teatro del Baglio di Villafrati (PA), scrivendo testi da Bordonaro, D’Arrigo, Giono, Vilardo. Nel 2021 la casa editrice Dammah di Algeri ha tradotto in arabo per la sua collana di poesia la silloge Le cassette di Aznavour. Con Giuseppe Oddo ha recentemente pubblicato Nostra patria è il mondo intero (Ispe edizioni).
______________________________________________________________