di Pietro Romano
Ci sono libri e scrittori che offrono lo spunto per ritessere, attraverso le trame di donne e uomini dalle molte virtù, un pezzo importantissimo di storia siciliana del dopoguerra legato allo scenario politico italiano e internazionale contemporaneo. Giuliana Saladino è autrice di una ampia produzione di scritti che scavano con precisione nelle vene aperte della Sicilia del suo tempo per evocarne le speranze, le illusioni, gli orrori. Lo stile accosta all’analisi oggettiva dei fatti una forte carica espressiva, densa di passione e carica di indignazione per la degradazione del presente. Rappresentativo della natura polimorfa del romanzo è il volume De Mauro, una cronaca palermitana (Feltrinelli, 1972), incentrato su un tema molto forte: la scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, rapito a Palermo il 16 settembre del 1970. L’intreccio fra giornalismo e letteratura è il fulcro intorno al quale quest’opera si organizza. Le due componenti interagiscono fra loro per restituire al lettore un impianto originale e straordinariamente espressivo. In particolare, De Mauro, una cronaca palermitana, diviso in cinque sezioni (Settembre, Ottobre, Novembre, Dicembre, Un anno dopo), ricorre agli strumenti tipici del giornalismo per scandagliare un contesto con i suoi abitanti. Gli strumenti dell’invenzione narrativa, invece, vengono impiegati dall’autrice per meglio incastonare i diversi reportage da lei condotti nella cronaca del rapimento.
Nell’immaginario di Giuliana Saladino, Palermo figura come la vera colpevole. La città, impermeabile a ogni forma di cambiamento, divora chi cerca di cambiarla. Le strade sono sventrate e dissestate, l’illuminazione pubblica manca, le istituzioni sono impotenti, dominano la miseria e il malaffare. Emerge il ritratto di una città bloccata e inerme, la cui storia viene collocata al centro di uno scenario più ampio, di portata nazionale. In questo modo, la narratrice giornalista mette a fuoco le lacerazioni politiche italiane di quegli anni, anni in cui parole come mafia e antimafia penetrano nel dibattito politico nazionale. Pertanto, proprio per la sua attualità, nel 2015 l’Istituto Poligrafico Europeo ha scelto di ripubblicare De Mauro. Una cronaca palermitana, cambiandone, in accordo con gli eredi dell’autrice, il titolo e la veste grafica. La nuova edizione, intitolata Romanzo politico. De Mauro, una cronaca italiana, vuole sottolineare il carattere intrinsecamente politico dell’opera e fare chiarezza sul genere a cui essa può essere ricondotta:
«Una cronaca politica? Non proprio. Un romanzo poliziesco? Neanche. Un giallo? No di certo. Un pamphlet? Per niente. Un diario civile? Non è il caso. Un libro di denuncia giornalistica? Per favore no! Allora che cos’è quest’opera della Saladino si chiederà il lettore. Difficile rispondere perché è all’incrocio di tutto questo, racchiude tutti questi generi ma non li contiene. Quello della Saladino è uno dei pochi esempi italiani di un canone molto difficile che possiamo definire, come per il titolo, romanzo politico» [1].
Tuttavia, l’organizzazione del romanzo, proprio per la sua ibridazione, sfugge a qualsiasi definizione e collocazione. Pertanto, la nozione di «romanzo politico» mal si presta a definire la complessa struttura di De Mauro. Una cronaca palermitana, poiché non enuncia le regole compositive a cui l’opera rimanda. Invece, è un testo ibrido, articolato su un rigoroso binomio letteratura/giornalismo, e condensa esplicitamente gli elementi portanti dello stile dell’autrice. Infatti, anche Terra di rapina, accolto alla sua uscita come un magnifico reportage, è caratterizzato dalla compresenza di forme giornalistiche e letterarie. In quest’opera, il racconto prende avvio da un fatto clamoroso, un tentativo di rapina, poi fallito, compiuto da Giuseppe Di Maria, di Cianciana, ai danni di una banca di Carmagnola. Inizialmente, la narrazione si svolge come se la giornalista si trovasse sul luogo del reato; poi, bloccandone lo svolgimento temporale, Giuliana Saladino omette ulteriori dettagli sulla vicenda per sviluppare il racconto dei reportage condotti nel cuore della Sicilia e approdare così nei luoghi di origine del criminale; infine, riagganciandosi alla storia principale, Saladino ne illustra le dinamiche e l’epilogo riportando la cronaca dei giornali.
Analogamente, De Mauro. Una cronaca palermitana sfrutta le risorse tipiche dell’invenzione letteraria per descrivere uno spaccato politico e sociale. Così, la letteratura trasforma i fatti in rappresentazione; il giornalismo, invece, svecchia la lingua e avvicina chi scrive a un pubblico eterogeneo. A questo proposito risultano utili le parole di Piero Violante:
«Se v’è una persona della sua generazione, in cui l’idea di movimento fosse anticipata, quella è Giuliana. Per questo Giuliana appariva omogenea-disomogenea al giornale e al suo gruppo. Il tipo di intellettuale che interpretava ci sembra proprio quello dell’intellettuale pubblico. Come sostiene Richard Posner, per diventare un intellettuale pubblico occorre occuparsi di questioni generali, ma scriverne in modo semplice e accessibile. Accessibilità dell’esposizione, generalità di destinatari, trattazione di questioni di interesse pubblico e dal marcato profilo o politico o ideologico: ecco i tratti per individuare un intellettuale pubblico. Chi sono dunque gli intellettuali pubblici? […]I loro interventi hanno di mira il bene pubblico. Inclinano verso l’utopia allorché si propongono di additare alla società nuovi percorsi; o piuttosto verso la denuncia radicale quando in loro la disaffezione con lo stato delle cose è tale da superare il buon proposito di proporre delle riforme» [2].
Per Giuliana Saladino il compito fondamentale della scrittura è quello di contribuire alla formazione morale del singolo e della collettività. Ella si dona perché altri le offrano il dono dell’ascolto e a loro volta continuino a testimoniare:
«Ricordare, raccontare, testimoniare, non è vero che non ne vale la pena […] Bisogna ricordare, se non altro per quelli che hanno pagato di persona» [3].
Per un lettore odierno, Romanzo politico. De Mauro, una cronaca italiana rappresenta una importante occasione per conoscere da vicino fatti della nostra storia recente riferiti con un acume e una passione indagatrice sconosciuti al nostro tempo. Giuliana Saladino ha raccontato l’epopea di una generazione di giovani dalla tempra antica e «disposti a tutto per cambiare tutto», ma inaspettatamente sconfitti e costretti alla fuga per sopravvivere. Significativa a tal proposito è la data di pubblicazione di De Mauro. Una cronaca palermitana, tre anni dopo la quale la giornalista si congedò dal giornale «L’Ora»:
«Ma con l’andare del tempo quello che non ci andava bene eravamo noi stessi. Gli anni settanta ci fecero a pezzi, e a scegliere il perché c’è solo l’imbarazzo della scelta, tanti erano gli elementi che non voglio mettere in ordine, ma buttare alla rinfusa: una certa stanchezza individuale e collettiva, i postumi del’68, l’inarrestabile deterioramento della vita pubblica, il sequestro le lettere e l’uccisione di Moro […] l’attesa di una crisi energetica che, visibile, non venne mai, […] il compromesso storico su cui ci azzannavamo […]Io ruppi col giornale, dopo diciannove anni che ci stavo, e se mi chiedono perché non lo so nemmeno, so solo che trovai la forza di montarmi a freddo un tasso di litigiosità che mi è estraneo e di intentargli causa per ottenere i contributi arretrati indispensabili al minimo della pensione» [4].
In questo passo, l’autrice riferisce il disincanto di un’intera generazione. La caduta di ogni illusione induce l’intellettuale a rinunciare a ogni ideale di cambiamento e ad allontanarsi dalle turbolenze della vita sociale. Saladino, dunque, ha vissuto l’impegno civile in termini assai personali. I suoi scritti vibrano di intensa attualità e ancora oggi ci esortano a valorizzare la storia umana e i suoi esempi più alti di virtù. In particolare, gran parte dell’interesse nel leggere De Mauro. Una cronaca palermitana deriva dall’erraticità della scrittura, politi- camente impegnata ed eticamente radicata. Lo stile è scarno, asciutto e volto a una rapida quanto immediata esposizione dei fatti narrati. La narrazione è dinamica e si struttura attraverso un continuo affastellarsi di eventi e particolari che complicano l’inchiesta senza soluzione.
Anche se lo scenario nel quale l’opera è ambientata rimane sempre lo stesso, talvolta ipotesi e costruzioni di senso tentano di varcare i confini isolani per inscrivere la cronaca del rapimento di De Mauro in un contesto più ampio. Così, l’autrice guarda ai moti di Reggio, dove si combatte per le strade per ottenere che la città diventi il capoluogo della nuova Regione eletta il 7 giugno 1970. Tuttavia, il suo occhio «non passa lo stretto» e si limita a fornire una breve disamina delle lotte che funestano la città calabrese. Non è un dettaglio di poco conto. Saladino vuole legare logicamente gli eventi attorno a cui si arrovella la coscienza collettiva, ma accetta consapevolmente che dietro i fatti non esiste una sola verità; allo stesso tempo tiene conto delle difficoltà legate a ogni forma di progettualità politica o utopica. Infatti:
«Anche a volere muovere un dito non si sa da dove cominciare, se dallo Stato che esiste solo come vertice di mafia e di ladrocinio o dal cittadino che ha avuto millenni di tempo per organizzare la sua difesa a danno altrui. Non è Europa e non è Africa. Non è capitalismo e non è feudalesimo. Ѐ solo una sacca» [5].
In De Mauro. Una cronaca palermitana è drammatica la coscienza della corruzione del presente. L’autrice riconosce esplicitamente di non sapere da dove debba iniziare il cambiamento. Il palermitano è abituato a esercitare la furbizia per difesa, la sua diffidenza viene qui storicamente spiegata come la risposta a secoli di oppressione straniera. Invece, lo Stato, sprovvisto di credibili strutture civili, «esiste solo come vertice di mafia». In un simile contesto, l’intellettuale è figura della perdita, vinto ed emarginato come gli umili verso cui prova pietà. E tuttavia, proprio la dedizione a essi costituisce la forma concreta della sua utopia:
«La generosità di Giuliana era la forma concreta della sua utopia. Mi ha sempre colpito, e costituisce motivo di riflessione, il fatto che dei giovani cui non manca nulla in termini di mezzi, posizione sociale, possibilità personali, cultura, siano capaci di lasciare tutto e scegliere la povertà, l’emarginazione, il rischio. […] Perché è tanto più significativo quanto più non è esclusivo di una sola persona o di pochi individui ma è rappresentativo, almeno sotto certi aspetti, di una generazione che ha saputo scegliere contro corrente rompendo con la propria classe di appartenenza, il proprio ambiente, la propria cultura, affrontando, non garantiti, prospettive dagli esiti incerti e molto futuribili» [6].
La vocazione al giornalismo e alla testimonianza implica la vicinanza a tutte quelle categorie sociali impossibilitate a fare valere i propri diritti. Il senso del reale è nelle cose, dalle quali escono guizzi di umanità bella o abbruttita. L’obiettivo è di aggredire la realtà per captarne tutti gli aspetti su cui è ancora possibile investire istanze ideologiche. Come Sciascia, anche Saladino ritiene che la mafia abbia radici in Sicilia. Per estirparla, occorre abiurare l’appartenenza dell’Isola alla cultura mafiosa e rieducare i cittadini ai valori della collettività:
«Se cambia Palermo cambia l’Italia […] è dura, sarà dura. Ma se davvero esiste quella mezza Palermo generosa e onesta qualcosa potrà cambiare nella vita pubblica di tutti noi. La città più torva dovrà fare un passo indietro. E non solo. Senza autosopravvalutarci, senza sentirci come al solito, ombelico del mondo, pure una cosa è certa: se Palermo cambia l’Italia intera cambia, seppellendo per sempre quel cupo progetto gravido di mafia e di incubi che circola in giro e che si chiama “Dc del Sud”» [7].
L’Italia potrà cambiare solo se Palermo si mostrerà disposta a mettere da parte ogni rivendicazione identitaria e a riconoscersi parte di un’identità politica superiore, lo Stato italiano appunto. Per questa ragione, l’autrice si rivolge ai tanti palermitani desiderosi di riscatto civile. Ma la città è recalcitrante a ogni forma di disciplina e di crescita. Sesso e genere poi influenzano molto i com- portamenti sociali, producono limiti e divieti e trasformano i desideri in presa di possesso. Del 1968 è un’inchiesta di Giuliana Saladino sulle donne palermitane [8]. Padri autoritari che lasciano uscire di casa le figlie solo al fianco di un uomo; mogli stanche che, pur avendo un matrimonio felice, lamentano una vita vuota, spenta, irrisolta; ragazzi che disprezzano le ragazze vergini che si sono loro concesse e che per questo non sono più da sposare; fratelli che pretendono di controllare la vita delle loro sorelle; ragazze del popolo che rivendicano il desiderio del piacere fisico e che constatano la libertà sessuale delle ragazze del ceto medio e dell’alta borghesia palermitana.
In una società dove domina il potere maschile, Saladino avverte l’urgenza di un giornalismo che intervenga attivamente sul presente, contro le ingiustizie sociali e contro i meccanismi di potere. Infatti, sa bene che, prima ancora di essere una giornalista, è una donna e che, in quanto tale, deve far fronte ai condizionamenti culturali dell’ambiente in cui vive:
«Ma come scrive una donna? A lassa e pigghia, lascia e piglia, lascia e piglia, interrotta venti volte, suona il telefono si perde il filo, si ricomincia, suona il citofono, tutto daccapo, ora suonano alla porta, ma figurati, vieni, non facevo proprio nulla, riprendo, aspetta, la pentola a pressione fischia, ora scrivo questo, un momento, suona di nuovo il telefono, accidenti, lo metto di là, ma intanto arrivano i giornali, un’occhiata, e la lavatrice ha finito, stacco la spina, riaccendo il bagno, stendo? No, non stendo, domani ci pensa Grazietta alla biancheria, rileggiamo, ben concentrata… Nonna, posso venire? Sì amore, anche subito. Tanto per oggi non si combina più niente. L’indomani: che dici, ce ne andiamo in campagna? Pronti, andiamo. Un altro giorno c’è una qualche spesetta, anche se riduco poi sempre le liste più lunghe a pane formaggio e sigarette, quando c’è questo siamo a posto. Suvvia da brava, rileggi e scrivi, e ricomincia il citofono la porta il telefono, un giorno ho contato dodici interruzioni in un’ora e diciamolo pure che io ci stavo, mi lasciavo usare, perché in fondo tutte le scuse sono state buone, finiamola con gli alibi e il vittimismo, si fa di tutto pur di non scrivere di cose che dolgono» [9].
Pertanto, in un tempo che non lo vuole e in cui viene sacrificato come martire laico per difendere la verità, l’intellettuale non è più capace di resistere né di provare meraviglia:
«Perché ostinati, resistevamo? All’uscita dal cinema, dalla riunione, dal teatro non trovi mai un passaggio, tutti filano verso nord est o nord ovest, verso la città nuova e solida, per cui concludevo che pazzi eravamo noi, rimasti a torcerci le budella sulle rovine. Eravamo pochissimi: gente che forse ne faceva una questione di pigrizia, o di malintesa cultura, o di radici, o di denaro […] Ma quale era questo meglio non lo sapevo più. Il clima? Cominciava a darmi sui nervi, a me, che un giorno sotto la neve, uscendo allegri dallo zoo di Berlino, io e Mars a braccetto, per poco non piangevo alla sola ipotesi sventurata di dover rimanere lì per sempre: la stessa, per esempio, di quella inflitta a un milione di emigrati meridionali. Questo mi rafforzava nella convinzione maturata lentamente: i siciliani migliori se ne sono andati o se ne vanno, chi resta è scaglionato» [10].
Il viaggio a Berlino rappresenta per Giuliana un importante momento di autocoscienza: il legame con le radici le risulta inestinguibile, malgrado il disincanto seguito al fallimento delle lotte contadine. E tuttavia, la fiducia nella forza comunicativa della scrittura tiene viva in lei l’utopia di una terra liberata da secoli di banditismo e oppressione. Non di rado, nei suoi scritti la natura assolve a una funzione consolatoria e salvifica: mitiga amarezza e disincanto, centra suggestioni e umori, sottolinea la necessità di tornare a un mondo incorrotto, lontano dalle brutture della civiltà. L’intensità con cui l’autrice ritesse gli scorci lirici dell’ambiente siciliano è altresì ascrivibile all’erraticità della sua scrittura che, prima ancora di essere un connotato professionale, è espressione di un profondo radicamento alla propria terra, come mostra la lunga serie di immagini o parole più o meno colorite tipiche del dialetto siciliano e frequenti nei suoi scritti.
Giuliana interroga costantemente la propria cultura e attraverso i suoi reportage ne ripropone brevi segmenti di parlato con la loro la musicalità, i colori, gli aspetti tipici, la disperata vitalità, le contraddizioni brutali. Così, dalle strade palermitane promana l’odore delle sponze [11] di gelsomini e citronella; «l’Ora» sbatte in prima pagina gli assassinii quotidiani annunciato da «bambini strilloni» come L’Ora ch’i fotografii [12]; De Mauro, a differenza di Buttafuoco che è stato garantito dall’azione benemerita dei suoi legali di fiducia, dopo esser stato sottoposto nella notte del rapimento alla strinciuta, non ha goduto di queste garanzie [13]; il capo della polizia è un gran «fradicio» [1 4]; il 24 dicembre le famiglie borghesi giocano a tombola e mangiano spincione [15]; nel febbraio del 1971 è fermato e arrestato Antonino Caruso, «compare» dell’onorevole Mattarella [16]; Verzotto maneggia un fottìo di soldi [17]; le scuole sono chiuse e Campofiorito è in marcia sulle note di ‘A fanfareddavinciu [18]; il pesce fete dalla testa [19]; il tomolo, l’antica unità di misura della superficie agraria, è il tummino [20].
Spesso il dialetto è impiegato con valore mimetico-espressivo. Si registrano così tratti di oralità e immediatezza del parlato: «Come scrive una donna? (…) A lassa e pigghia» [21], «Solo un tremore interno, qualcosa che si aggruma e si scioglie, si riaggruma e si riscioglie alla cosiddetta bocca dello stomaco (…) » [22]; «come gli spercia» [23]; « fu stanato e convocato il direttore, che sembrò uno svizzero grevio (senza sale) e impassibile» [24]; « io in una Palermo affamata e monarchica che aveva come suo nobile motto cu mi duna a manciari mi veni patri » [25]; «per Milady la piccola Caterina, prima della serie dei non battezzati era un armaluzzo (…)» [26], « […] e scendere giù fino al reparto maternità che non funziona o fino al Teatro Massimo chiuso da tanti anni, o all’ultimo curtigghio culturalpolitico» [27]; «esagerati, come vi avvilite per un poco di munnizza…» [28]; «atturriamo» [29] etc…
La giornalista cerca di inserirsi all’interno del contesto che vuole descrivere, parla con chi incontra lungo la strada, ne racconta e registra le differenti versioni dei fatti. Da questo punto di vista, il suo stile risente della lezione di Vittorio Nisticò e dell’esperienza presso il giornale «L’Ora». Inoltre, come ben osserva Giovanna Fiume, i metodi di indagine di Saladino rassomigliano molto al lavoro sul campo caratteristico dell’antropologia, che implica la partecipazione diretta alla vita di coloro che sono oggetto di studio. Il lavoro di inchiesta dell’intellettuale palermitana è perciò complicato da molti limiti, in parte connessi a fattori socio-culturali, politici e spaziali. Tuttavia, come possiamo dedurre, molti sono gli strumenti di cui la giornalista può servirsi per arginare le difficoltà del suo mestiere. I suoi scritti danno prova di grande acume e forza interiore, fanno trapelare interessanti considerazioni antropologiche, socio-politiche, storiche e culturali. Alla varietà dello stile, poi, si aggiunge la capacità della scrittrice di riconoscere i limiti della sua storia culturale. La spinta a scrivere le proveniva da una sorta di vocazione dell’anima. Per queste ragioni, si può affermare che in lei la scrittura coincideva con la vita ed era fondata sulla fiducia laica di costruire, per mezzo dei valori culturali, una società più giusta e umana nell’avvenire.
Dialoghi Mediterranei, n.28, novembre 2017
Note
[1] A. Blando, Saggio introduttivo, in G. Saladino, Romanzo politico. De Mauro, una cronaca italiana, Istituto Poligrafico Europeo, Palermo 2015: VIII
[2] P. Violante, Giuliana Saladino. L’incanto e il disincanto, trascrizione del contributo al convegno Incanto e disincanto. Una rilettura di Giuliana Saladino, Istituto Gramsci Siciliano, 6- 7 maggio 2013
[3] G. Saladino, Terra di rapina, Sellerio, Palermo, 2001: 48-49
[4] G. Saladino, Romanzo civile, Sellerio, Palermo, 2000:106-107
[5] G. Saladino, De Mauro. Una cronaca palermitana, Feltrinelli, Milano: 16
[6] N. Fasullo, L’utopia di Giuliana, in «Segno», n.205, anno XXV, maggio 1999: 31
[7] G. Saladino, Se cambia Palermo cambia l’Italia, in «Segno», anno XIX, n.149, novembre 1993:16
[8] G. Fiume, Finché c’è collera c’è speranza, in G. Saladino, Chissà come chiameremo questi anni, Sellerio, Palermo, 2010: 48-52
[9] G. Saladino, Romanzo civile, cit.: 17-18
[10] ivi: 133-134
[11] G. Saladino, De Mauro. Una cronaca palermitana, cit: 10
[12] ivi: 17
[13] ivi: 69
[14] ivi: 84
[15] ivi: 121
[16] ivi: 129
[17] ivi: 75
[18] G. Saladino, Terra di rapina, cit.: 28
[19] ivi: 30
[20] ivi: 50
[21] G. Saladino, Romanzo civile, cit.: 17
[22] ivi: 28
[23] ivi: 30
[24] ivi: 35
[25] ivi: 53
[26] ivi: 103-104
[27] ivi: 138
[28] ivi: 139
[29] ivi: 153
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Pietro Romano, laureato presso l’Università degli Studi di Palermo in Lettere Moderne con una tesi dal titolo Le due anime di Giuliana Saladino. Tra giornalismo e letteratura, è autore di una raccolta di poesie, dal titolo Il sentimento dell’esserci (Rupe Mutevole, 2015), nonché di diverse prefazioni e recensioni per libri pubblicati da Rupe Mutevole. Suoi testi compaiono in diverse antologie e riviste.
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