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Scrivere di migrazioni oltre le schizofrenie

prove-copertina-franco_page-0001di Antonino Cusumano [*] 

Nel tempo capovolto che viviamo si fa la guerra a chi fugge dalle guerre e si criminalizza la solidarietà di chi li soccorre. Si trasformano la povertà in una colpa, le vittime in irresponsabili, le tragedie in mare in sanzioni ineluttabili di chi ha la spericolata ambizione di aspirare a nuove vite.  Per legittimare e imporre il “dovere di non emigrare” si proclama il “diritto a non emigrare”. Si dichiara di combattere i trafficanti in tutto l’orbe terraqueo e si patteggia ipocritamente con le milizie colluse con i criminali. Si applicano formalmente gli obblighi di protezione e soccorso sanciti dal diritto internazionale mentre si chiudono di fatto le frontiere e si trasferiscono i doveri di asilo a Paesi terzi, siano essi Tunisia o Albania. Più in generale s’improvvisano e si adottano strategie emergenziali e securitarie su dinamiche storiche endemiche e strutturali. Mentre si concede automaticamente la cittadinanza per naturale filiazione di sangue alle lontane generazioni di discendenti degli emigrati di oltreoceano che non conoscono e non abitano il nostro Paese, ci si ostina a negarla ai figli degli immigrati stranieri nati, cresciuti, scolarizzati e socializzati in Italia che parlano la nostra lingua e amano la nostra musica e il nostro calcio. 

Un cumulo di nonsenso, di storture e di assurdità che si accompagna alla caduta di ogni tabù linguistico. Se le parole, come è noto, definiscono l’orizzonte nel quale viviamo, quelle che declinano le disposizioni di legge e articolano l’attuale dibattito politico distillano e depositano nelle coscienze sociali, nella mentalità collettiva un humus culturale che finisce col fare accettare e giustificare scelte indifendibili, discriminazioni intollerabili, incongruenze incomprensibili. Se le parole non sono soltanto parole, la narrazione del fenomeno migratorio all’interno del discorso pubblico traccia i confini del nostro pensare e del nostro sentire, definisce non solo l’orizzonte di senso dei significanti ma anche il destino delle cose significate, costruisce la realtà ovvero la nostra visione della realtà. Così se l’italianità equivale alla consanguineità, non si ha pudore di affermare che “prima gli italiani” significa “prima i bianchi” pena la Grande Sostituzione etnica. Le paure alimentate, inventate, sollecitate, generano pulsioni paranoiche e degenerano nella costruzione della vasta e grottesca galassia dei negazionismi.  

In questo tempo e in questo nostro Paese, in cui come in uno specchio deformato si rovesciano e si distorcono valori e princìpi fondanti della democrazia, i capisaldi dei diritti, le basi della convivenza, sull’immigrazione le parole – dette o scritte, misurate o gridate, meditate e documentate oppure scagliate a raffica come pallottole – sembrano ormai irrimediabilmente sature di enfasi e di retoriche, gonfie di demagogiche manipolazioni, in ogni caso urticanti perché compromesse da umori e malumori, sentimenti e risentimenti. Se così è, allora sarà meno difficile comprendere come a fronte della verità dei numeri prevalgano la potenza e la prepotenza delle ideologie, contro i fatti la loro distorsione mediatica e politica, sul buonsenso delle argomentazioni il nonsense delle semplificazioni e dei luoghi comuni. Nel lessico dell’immigrazione le parole soffrono infatti sia di anoressia che di bulimia, essendo da un lato svuotate dall’assenza di proprietà semantica e dall’altro ingolfate da significati e usi incoerenti. 

A guardar bene, troppo spesso ci si confronta con questo fenomeno assumendo posture schizofreniche e polarizzanti, sguardi miopi o presbiti o addirittura strabici. Da un lato la propensione xenofoba, il primato della sicurezza, l’immaginario identitario, il dogma della chiusura fino all’odio e al disprezzo dell’altro, fino alla legittimazione del razzismo. Dall’altro lato, la priorità dell’accoglienza umanitaria, il massimalismo dell’apertura, la verbosità della xenofilia, la sottovalutazione degli aspetti problematici fino alla palingenesi dell’immigrazione come rivoluzione politica e rigenerazione sociale e culturale. Due rappresentazioni arbitrarie e settarie, due vicoli ciechi, due visioni speculari, esiti unilaterali e parziali di narrazioni che semplificano e banalizzano la enorme complessità del fenomeno, la difficoltà ad essere contenuto e compreso entro uno schema ad una e reificata dimensione.  

Porto Empedocle, 2017 (ph. Nuccio Zicari)

Porto Empedocle, 2017 (ph. Nuccio Zicari)

Parlare e scrivere di migranti e migrazioni è dunque oggi diventato un esercizio tanto più difficile e complicato quanto più inquinato dalla rozzezza degli stereotipi, dalle ambiguità del politicamente corretto, dalle torsioni semantiche delle propagande elettorali. Scrivere con coscienza ed equilibrio di migrazioni significa allora tentare di uscire da questo pantano lessicale e sintattico per provare a ragionare con onestà intellettuale e intelligenza dei fatti e contribuire a conoscere questi uomini e queste donne che chiamiamo migranti, a guardarli negli occhi quando li incontriamo per strada, a chiamarli per nome quando parliamo di loro, a dialogare con loro quando vogliamo capire non solo chi sono ma anche chi siamo. 

Si cimenta con autorevolezza e consapevolezza critica in questa impresa Franco Pittau, che da decenni è studioso serio e attento dei flussi migratori. Ne ha scandagliato le dinamiche vivendone direttamente l’esperienza e osservando da vicino le politiche di accoglienza e i comportamenti e i costumi degli italiani all’estero e degli stranieri in Italia. La latitudine di questo ampio sguardo che coniuga emigrazione e immigrazione gli consente di scrivere di questi temi con cognizione e maturità di argomentazioni nella piena libertà di un pensiero affrancato dai luoghi comuni e dalle astratte pregiudiziali che affliggono il dibattito pubblico. Il suo è davvero un altro punto di vista, fuori dagli schemi e dalle schermaglie delle polemiche politiche contingenti, lontano dalle angustie di narrazioni piegate alle retoriche delle ideologie e alle semplificazioni del pensiero unico.

Franco Pittau collabora dal 2015 con la rivista bimestrale online Dialoghi Mediterranei edita dall’Istituto Euroarabo di Mazara del Vallo e gli scritti raccolti in questo volume rappresentano una selezione dei testi pubblicati in questi anni di intensa, sistematica partecipazione al progetto della piccola impresa editoriale. Alla quale avventura Franco ha aderito con generosità e passione fin quasi dai primi numeri, condividendo l’impegno scientifico a ricercare, studiare, documentare e dibattere le molteplici questioni connesse alle migrazioni, decostruendo tabù, stereotipi, preconcetti che attraversano le responsabilità non solo politiche ma anche accademiche e mediatiche. Ispirandosi alla lezione del filosofo inglese Bacone l’autore ha sempre privilegiato il metodo che colloca l’esperienza alla base della conoscenza, curando non solo la critica degli “idola” che fanno velo alla verità e alla realtà effettuale ma anche l’attenzione alla “pars costruens” ovvero l’analitica ricognizione delle cause e delle possibili soluzioni, lo zelo per l’attendibilità delle fonti e l’osservazione puntuale dei dati statistici, la visione larga sui contesti e abbastanza prospettica sui tempi lunghi di un fenomeno sistemico destinato a plasmare e innervare le nostre società.

«In Italia la presenza immigrata non è di passaggio. Queste persone sono venute nell’ottica di un inserimento stabile e destinate a essere i nuovi cittadini, con il carico delle loro differenze socio-culturali e religiose. Il loro innesto nel tronco delle tradizioni locali può assicurare frutti innovativi, ma abbisogna di particolari attenzioni, che passano sotto il nome di politica di integrazione, un concetto in fase di oblìo». Scrive così Franco Pittau nel breve passaggio di un articolo che sembra riassumere in poche righe l’efficacia del metodo adottato, la lucidità di pensiero e l’originalità di approccio al fenomeno. Nulla di più lontano dall’assertività di certe rappresentazioni manichee intrappolate tra xenofobia e xenofilia, essendo consapevole che le migrazioni sono fisiologie e non patologie, appartengono alle ciclicità della storia braudeliana di lunga durata e gli immigrati sono le future generazioni di un mondo sempre più abitato da quanti nella loro diversità attestano l’universalità della nostra umanità.

Porto Empedocle, 2017 (ph. Nuccio Zicari)

Porto Empedocle, 2017 (ph. Nuccio Zicari)

Sulla scorta delle esperienze lungamente studiate degli italiani in Canada, in Brasile e in Europa, Franco Pittau introduce nel dibattito dati conoscitivi e idee progettuali che nel comparare le politiche e le legislazioni contribuisce a disegnare un possibile modello italiano di integrazione e di inclusione degli immigrati. Attento alle proiezioni demografiche e alle evoluzioni dei contesti internazionali, denuncia l’assenza di una intelligente governance del loro stabile e proficuo inserimento nel tessuto sociale del Paese, una deficienza che ha fin qui di fatto ostacolato l’associazionismo e la formazione di «una significativa élite di origine straniera, conosciuta a livello nazionale e attiva nei media. Di loro – scrive – dei loro problemi, delle loro attese, dei loro punti di vista parlano solo quasi unicamente gli italiani». Da qui la necessità di connettere i genitori e i figli nella istanza di riconoscimento giuridico della cittadinanza «perché è la famiglia immigrata nel suo complesso che deve essere integrata nella realtà del Paese».    

Sono alcune delle tante proposte che Pittau avanza in questi testi che parlano di progettualità, di sviluppo e di futuro in contrappunto ad una cronaca ossessionata dalla psicosi degli sbarchi e dalla isteria dei respingimenti. Che i migranti non siano braccia ma persone con precise istanze sociali e culturali è paradigma concettuale e fattuale rimasto sostanzialmente estraneo nei discorsi e nella prassi della cosiddetta politica dell’accoglienza versata più a sorvegliare che curare, a detenere nei centri che a inserire nelle comunità urbane, a garantire la sicurezza dai rifugiati piuttosto che quella dei rifugiati. Franco Pittau si occupa invece della densa e importante dimensione culturale, della formazione nei luoghi di lavoro, dell’insegnamento della lingua italiana e soprattutto delle questioni di carattere religioso, nel più ampio quadro storico della salvaguardia costituzionale del pluralismo. A questo proposito non può non denunciare le carenze di «una situazione di tutela parcellizzata e incompleta della libertà di religione e di culto, sia nei confronti degli immigrati stranieri che dei cittadini italiani», una limitazione che rischia di produrre discriminazioni nei diritti tali da rendere necessaria e urgente una legge «che superi le attuali restrizioni e realizzi pienamente la previsione costituzionale a beneficio di tutte le confessioni». 

Porto Empedocle, 2017 (ph. Nuccio Zicari)

Porto Empedocle, 2017 (ph. Nuccio Zicari)

Con la socievole e generosa disposizione al confronto e alla condivisione, Franco Pittau ha chiamato colleghi del Centro Studi IDOS e altre figure di operatori sociali e mediatori interculturali a collaborare nella redazione di alcuni degli scritti presenti in questo libro. Ha anche coinvolto studiosi stranieri e gli stessi migranti con le preziose testimonianze delle loro esperienze, intendendo il lavoro intellettuale in forma di plurale interazione, fattiva cooperazione e scambio leale tra ricercatori e avendo trovato nella rivista Dialoghi Mediterranei uno spazio ospitale, un orizzonte inclusivo e una comunità dialogante. Obiettivi, approcci e stili di letture e studio che ispirano le ragioni di una medesima visione d’insieme, di un comune sentire nell’arco dei dieci anni dell’impegno editoriale inteso come sistematico esercizio critico di analisi e riflessioni sulle questioni politiche, sociali e culturali che riguardano le società contemporanee e, in particolare, il fenomeno delle migrazioni, al centro di un rinnovato dibattito transdisciplinare fin dal primo numero. In fondo, nell’intreccio di idee e scritture si incrociano en plein air nelle pagine della rivista le storie e le vite dei collaboratori e dei lettori in quel “pensare in comune” che è presupposto fondante del sentimento di appartenenza ad una collettività. 

Di questo intenso ragionare dialogando Franco Pittau è voce autorevole ed equanime, sensibile interprete dei processi migratori oggi ripensati nell’altezza diasporica della globalizzazione. Franco sa insieme a noi che in un mondo sempre più concatenato, interconnesso e interdipendente le sfide terribilmente complesse per la convivenza non si superano separando il destino degli uni da quello degli altri. Richiesti dal mercato e respinti dalla politica nello stesso tempo, i migranti non saranno forse l’esercito postindustriale di riserva del proletariato del terzo millennio, non sono certo gli eroi protagonisti della mai risolta lotta di classe, non sono nemmeno le figure che libereranno il Sud del mondo dalle secolari catene della subalternità né sono probabilmente destinate a rigenerare il Nord del continente vecchio ed esausto. Possono essere alterità perturbanti, invadenti, intolleranti. Identità che collidono con le nostre. 

Ma nessuna paranoia securitaria né alcun mito cosmopolita possono offrire soluzioni politiche realistiche alle quotidiane criticità della vita associata. Diversamente da percezioni superficiali e rappresentazioni artificiali il fenomeno va letto in tutte le sue articolazioni e progressioni, tra le oggettive incognite e le mille potenzialità. Ma dentro questa faglia le pagine di questo libro ci invitano a coltivare visioni, immaginazione, speranze, a rimuovere la paura delle relazioni, delle contaminazioni, del futuro. Insieme a Franco Pittau e grazie al suo lungimirante pragmatismo, impariamo a guardare ai migranti come a presenze necessarie e ineludibili delle città e del tempo che abitiamo, persone, ovvero uomini e donne – storie, costumi, fedi, lingue, immaginario – con i quali sperimentare la fatica di negoziare, mediare, dialogare e convivere per tentare di costruire insieme società aperte, plurali e coese. 

Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024 
[*] Queste pagine costituiscono la Postfazione al volume di Franco Pittau, L’immigrazione. Un altro punto di vista,  Edizioni Idos, Collana “Affari Sociali Internazionali”, di imminente pubblicazione. 

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Antonino Cusumano, ha insegnato nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo. La sua pubblicazione, Il ritorno infelice, edita da Sellerio nel 1976, rappresenta la prima indagine condotta in Sicilia sull’immigrazione straniera. Sullo stesso argomento ha scritto un rapporto edito dal Cresm nel 2000, Cittadini senza cittadinanza, nonché numerosi altri saggi e articoli su riviste specializzate e volumi collettanei. Ha dedicato particolare attenzione anche ai temi dell’arte popolare, della cultura materiale e della museografia. È autore di diversi studi. Nel 2015 ha curato un libro-intervista ad Antonino Buttitta, Orizzonti della memoria (De Lorenzo editore)La sua ultima pubblicazione, Per fili e per segni. Un percorso di ricerca, è stata edita dal Museo Pasqualino di Palermo (2020). Per la stessa casa editrice ha curato il volume Per Luigi. Scritti in memoria di Luigi M. Lombardi Satriani (2022).

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