Dietro un libro che si scrive ci sono i mille altri libri che si sono letti, le tante voci della letteratura che implicitamente o esplicitamente hanno parlato all’autore. Così come dietro ogni libro che si legge ci sono i tanti altri che si sono letti in precedenza, le suggestioni e le emozioni ricevute da altri autori. E spesso i percorsi, a volte carsici e tortuosi, le associazioni, le memorie anche involontarie o irriflesse sono epifanie, rivelazioni, in quanto imprevedibili e sorprendenti.
Così mentre andavo leggendo l’ultimo libro di Gianluca Solera, Riscatto Mediterraneo. Voci e luoghi di dignità e resistenza (Nuova Dimensione, Portogruaro 2013), mi affioravano pagine di un altro libro, mi ricordavo di un vecchio saggio, scritto nel lontano 1849, un classico del pensiero libertario, La disobbedienza civile, di Henry David Thoreau, un libro letto nell’edizione economica degli Oscar Mondadori nel 1970. «L’azione condotta in base ad un principio etico, cioè la percezione e l’attuazione di un diritto, muta le cose e i rapporti, è un fatto essenzialmente rivoluzionario […] Non vi sarà uno Stato veramente libero e illuminato, finché lo Stato stesso non riconoscerà l’individuo come una forza più alta e indipendente, dalla quale la forza e l’autorità di esso Stato derivano, e non giungerà a trattarlo di conseguenza». Queste parole, scritte nel saggio di questo anarchico americano, che dopo le prime esperienze di insegnante, si ritirò a vivere sulle rive del lago di Walden, nel Massachusetts, sono un invito a resistere e ad opporsi alla forza come sistema di governo e di coercizione. Parole che ispirarono Gandhi e la sua lotta pacifista e, più recentemente, esercitarono un certo fascino sui giovani degli anni Sessanta, per le posizioni ante litteram ecologiche e ambientalistiche espresse dall’autore, per il suo spirito ribelle ad ogni forma di autoritarismo. Oggi, mi pare potrebbero tornare ad avere una loro attualità e utilità, e mi sembrano per molti aspetti in consonanza con le pagine di Solera, scrittore ma soprattutto viaggiatore, ulisside che del viaggio recupera il senso profondo del conoscere, dello scoprire quel che sta fuori e lontano da noi, quell’altrove che ci è ignoto e a cui siamo ignoti, quell’oltrepassare le frontiere per ritrovarsi a casa, per capire che anche dall’altra parte ci sono uomini e vite embricate al comune destino del mondo, all’universale ed elementare condizione mortale.
«Alle genti di una riva quelle della riva opposta sembrano spesso barbare, pericolose e piene di pregiudizi nei confronti di chi vive sull’altra sponda. Ma se ci si mettesse a girare su e giù per un ponte, mescolandosi alle persone che vi transitano e andando da una riva all’altra fino a non sapere più bene da quale parte e in quale paese si sia, si ritrova la benevolenza per se stessi e il piacere del mondo». Così ha scritto Claudio Magris in quello splendido breviario che è L’infinito viaggiare. E così ha fatto Gianluca Solera, che ha attraversato non poche frontiere e ci ha raccontato quel che è accaduto mentre accadeva, quel che accade e non vediamo, non pensiamo e nemmeno immaginiamo dall’altra parte del Mediterraneo: le fosse comuni in Siria, le torture dei militari in Egitto, le carceri libiche e le sevizie perpetrate dai miliziani, i crani dei martiri aperti con i bulbi oculari trapassati, gli acidi e i gas utilizzati dalle polizie e dagli eserciti nella Platea Syntagmatos ad Atene come nelle piazze di Madrid contro gli indignados, i campi profughi e gli ospedali da campo in Turchia, i sit-in nella facoltà di Lettere di Mānūba a Tunisi contro le minacce dei salafiti, l’esercito disarmato dei volontari di Lampedusa, la resistenza del movimento femminile palestinese.
Un ampio, amplissimo scenario che spiega e dispiega il Mediterraneo quale epicentro di movimenti giovanili e sommovimenti popolari, di spinte rivoluzionarie e di contraccolpi antirivoluzionari, di liberazioni e repressioni. Solera restituisce centralità a quell’antico crocevia del mondo a cui l’Occidente sembra guardare solo perché area periferica di transiti, luogo di diaspore e nomadismi di massa, Colonne d’Ercole da cui presidiare quel mare che trasporta disperati migranti.
Ma il viaggio è per se stesso esperienza che modifica le traiettorie del nostro sguardo, che fa comprendere i limiti dei nostri punti di vista, la inadeguatezza degli schemi e dei paradigmi interpretativi, la unilateralità degli strumenti di analisi e giudizio. Nessuna cultura basta a se stessa e attraversarne le frontiere aiuta ad ampliare l’orizzonte non solo del nostro conoscere ma anche del nostro riconoscerci. Nel compiere questi attraversamenti Solera, consapevole dei rischi etnocentrici impliciti nei nostri modi di osservare e descrivere, preferisce occultare (o forse è meglio dire minimizzare) per larga parte del libro la propria presenza e lasciare spazio alle voci degli uomini e delle donne che ha incontrato e ascoltato nei luoghi dove si sta facendo la storia nella inconsapevolezza – come sempre accade – degli stessi uomini che la fanno. La copiosa raccolta di testimonianze dal vivo ci consegna le espressioni libere di un Mediterraneo costitutivamente plurale ma agitato, da est a ovest, da nord a sud, senza soluzioni di continuità, da un eguale vento di rinnovamento, da una comune ricerca di libertà e di giustizia. Da qui la scelta di ricorrere alle storie di vita, a quella strategia metodologica che in antropologia rappresenta una preziosa fonte etnografica e presuppone la capacità di assumere e penetrare il punto di vista degli altri, di rispettarne e restituirne le verità, di convertire l’oralità in scrittura senza tradirne il senso. Da qui, dall’ascolto e dall’empatia muove la possibilità di avvicinare la vita dei soggetti che l’autore ha incontrato a quella “osservazione partecipante” che è formula di investigazione fondante della stessa antropologia.
Solera però non è un antropologo, è piuttosto un narratore, che attraverso le piccole e individuali storie recuperate riesce a raccontare la storia più grande e collettiva di quei popoli impegnati in una lunga e tormentata transizione rivoluzionaria, in una straordinaria esperienza transnazionale di opposizione ai regimi dispotici, di resistenza alle logiche finanziarie della globalizzazione e di conquista delle garanzie dei diritti sociali, economici e civili. Ci sono nel libro davvero centinaia di nomi, di uomini e donne, di giovani soprattutto, di diversa nazionalità, le cui voci documentano fatti, idee, posizioni diverse, entro molteplici contesti geografici, storie di protagonisti più o meno avvertiti di dinamiche storiche in permanente e rilevante evoluzione. Solera ne esplora le radici che si innervano e si espandono da Atene a Madrid, da Istanbul al Cairo, da Tunisi ad Aleppo, e intravede tra le diverse lingue una comune koinè, un linguaggio che sperimenta nuove pratiche di partecipazione democratica, movimenti nati dal basso su iniziative locali, atti pacifici di disobbedienza, progetti creativi, occupazioni di spazi pubblici, difesa e riappropriazione dei cosiddetti beni comuni.
L’autore identifica nell’uso delle tende piantate nelle piazze delle diverse città l’immagine simbolica che connette persone, luoghi e progettualità, nodi di una rete che evoca «domande comuni e una soggettività politica condivisa». La conquista dello spazio pubblico è senza dubbio una delle chiavi di lettura più persuasive per capire la genesi e la natura di queste mobilitazioni.
In questo modo inedito di fare le rivoluzioni, senza leader, senza programmi articolati, senza partiti alle spalle, senza violenze organizzate, con gesti simbolici ed estemporanei, con i giovani e le donne in primo piano, sulle barricate, a invocare libertà e giustizia con le parole dei poeti e le opere degli artisti, mi pare di ritrovare quella moralità della ribellione, quella civiltà della disobbedienza di cui ha scritto Thoreau più di centocinquanta anni fa. Questi giovani e queste donne chiedono non solo la libertà di parola ma anche quella del corpo, e oppongono alla forza delle armi la tenacia della testimonianza. La democrazia è un processo lungo e complesso ma non è patrimonio o conquista solo occidentale. Non è utopia ma speranza dei popoli arabi che, contrariamente a quel che ci rappresentiamo, non rivendicano ragioni identitarie ma libertarie, non si battono per affermare la propria religione ma per il riconoscimento dell’umano che è in tutte le religioni, per quei diritti universali che ci fanno dire che «nessun essere umano è illegale». La Primavera araba ha dimostrato – scrive Solera – che «la fonte del problema non era e non è lo scontro di identità, ma lo scontro di opportunità, lo scontro tra coloro che hanno e coloro che non le hanno».
Nella temperie delle rivoluzioni che muovono e innescano processi transnazionali, i migranti sono coloro che concretamente, fisicamente, umanamente, «avvicinano i popoli delle rive del Mediterraneo, rendono possibili rotture e rimescolamenti, permettono di capire meglio la portata dei cambiamenti in corso nella regione». Sono in realtà gli attivi costruttori di quel laboratorio del futuro in cui le frontiere sono destinate a spostarsi e le appartenenze a sfumarsi. Nelle stesse città europee dove sono stabiliti, ad Atene come a Madrid, scendono in piazza, partecipano ai movimenti, si uniscono ai manifestanti. Del resto, quel che accade nel luogo di arrivo ha le sue cause e le sue conseguenze nella società di partenza, e viceversa. Così che il qui e il là sono dai migranti esperiti e vissuti come referenti spaziali e temporali concomitanti, come luoghi e vicende che abitano e si snodano dentro un’unica storia condivisa.
In questa prospettiva il Mediterraneo è oggi come ieri il grande spazio liquido in cui Oriente e Occidente, Nord e Sud collidono e si amalgamano fino ad ibridarsi in un tessuto ordito da mille fili stesi tra le diverse e opposte sponde. Del Mediterraneo Gianluca Solera riscopre e sottolinea l’anima storica, «il suo essere recettore, che nell’equilibrio trova la sua specificità, nell’essere né troppo caldo né troppo freddo, nel temperare e nel rimescolare, nel fare degli opposti dei punti di giunzione, nel produrre bellezza dalla combinazione di forme diverse di abitare, socializzare e creare». Tornato oggi ad essere fulcro della resistenza civile e luogo di grande sperimentazione politica e culturale, questo mare ha plasmato civiltà che offrono un modello antropologico agli antipodi rispetto a quello ispirato all’individualismo e alla omologazione. L’umanesimo incarnato nei valori dello scambio e del dono, dell’ospitalità e della tolleranza, della comunità e della solidarietà, della spiritualità e della ritualità costituisce un prezioso capitale culturale la cui eredità va difesa e diffusa, un patrimonio di memorie, di tradizioni e di legami che non saremmo disposti a dissipare sol che riconoscessimo che, in fondo, tra le onde di quel mare è il ricordo delle acque amniotiche da cui ha avuto origine il nostro essere europei.
A fronte delle cupe fobie occidentali, delle logiche di esclusione e di discriminazione elette a sistema di legge e di pattugliamento militare, le parole che si levano dalle molte voci “di dignità e resistenza” raccolte da Solera nelle piazze di Tunisi o del Cairo non chiedono probabilmente di entrare nella modernità ma più semplicermente di uscire dalla subalternità, di sconfiggere le povertà e le guerre e di prendere finalmente possesso delle loro vite. Non si rivolgono e non si rivoltano soltanto contro i poteri locali, contro i vecchi e nuovi Generali dei loro Paesi, ma interrogano l’Europa e le istituzioni internazionali intorno alla costruzione di una latitudine transnazionale della cittadinanza, intorno al futuro da progettare e condividere nella pace e nello sviluppo.
«Il Mediterraneo è un insieme di insiemi – ha scritto Braudel – parla molte voci». Solera le ha saputo ascoltare e ne ha documentato, in forma di un originale diario narrativo, le ansie e le speranze, le attese e le frustrazioni. Non sappiamo se il Mediterraneo possa diventare, come si augura l’autore, «il luogo di un prossimo Rinascimento». Siamo certi tuttavia che senza il Mediterraneo il Vecchio Continente è destinato a declinare nel suo malinconico e definitivo tramonto, ovvero a precipitare nelle spire di un catastrofico cupio dissolvi.
Dialoghi Mediterranei, n.8, luglio 2014
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Antonino Cusumano, ha insegnato nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo. La sua pubblicazione, Il ritorno infelice, edita da Sellerio nel 1976, rappresenta la prima indagine condotta in Sicilia sull’immigrazione straniera. Sullo stesso argomento ha scritto un rapporto edito dal Cresm nel 2000: Cittadini senza cittadinanza, nonché numerosi altri saggi e articoli su riviste specializzate e volumi collettanei. Ha dedicato particolare attenzione anche ai temi dell’arte popolare, della cultura materiale e della museografia.
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