Sebastiano Timpanaro (1923-2000) è uno dei più autorevoli filologici classici del Novecento, allievo di Giorgio Pasquali, Giacomo Devoto e Nicola Terzaghi, i suoi contributi di critica testuale non si limitano solo alla letteratura latina arcaica, ma riguardano anche Lucrezio, Virgilio, Seneca, Lucano [1]. Al di là del proprio specifico campo di studi egli è stato anche capace di spaziare tra molteplici ambiti del sapere che vanno dalla filosofia con l’importante testo Sul Materialismo (1970), alla psicanalisi con le ricerche su Il lapsus freudiano. Psicanalisi e critica testuale (1974), alla linguistica di cui restano fondamentali gli studi su esponenti significativi del pensiero linguistico ottocentesco come Schlegel, Bopp, Cattaneo, Ascoli [2].
Nella diversità dei temi e dei contesti culturali spicca un’omogeneità che riguarda l’approccio che egli ha sempre seguito, cioè quello di riportare gli argomenti studiati sempre al contesto storico, sociale, culturale e ideologico, rifiutando il formalismo e l’idealismo critico che ha tanto contrassegnato la cultura novecentesca. Il valore e la fecondità della sua ricerca sono evidenziati dai convegni e dalle diverse iniziative editoriali che gli sono stati dedicati a partire dal 2001 [3], nonché dalle numerose ristampe delle sue opere e dalla pubblicazione degli interessanti carteggi con Cesare Cases e Francesco Orlando [4].
Il suo ampio e variegato campo di interessi mostra quanto le etichette disciplinari specialistiche e l’angustia delle collocazioni in un determinato ambito disciplinare, tanto esaltate oggi dal sistema accademico italiano, siano inadeguate e fortemente limitanti della libertà di ricerca e di insegnamento. L’opera di Timpanaro, basata su un’autentica prospettiva interdisciplinare, sfugge e allo stesso tempo rifiuta sia la iper-specializzazione, sia la chiusura in una determinata prospettiva di ricerca e costituisce dunque un efficace antidoto alla singolare schizofrenia che caratterizza oggi il nostro sistema universitario, il quale mentre esalta spesso in modo strumentale e acritico l’interdisciplinarità, allo stesso tempo organizza l’organo preposto alla valutazione della ricerca universitaria (ANVUR) sulla base del modello della stretta chiusura disciplinare.
La sua personalità è contrassegnata dalla sua concezione non elitaria della cultura, la funzione conoscitiva assegnata agli studi critici per comprendere meglio il nostro presente e la radice storica delle sue aporie; da questi fattori deriva il carattere militante e politico in senso ampio della sua ricerca [5]. Sono inoltre da sottolineare la semplicità e sobrietà del suo stile espressivo lontano da ogni esempio di oscurità e inutile complessità (Santangelo 2014: 54), la sua totale estraneità a ogni forma di protagonismo. Per lui
«scrivere significa svolgere un ragionamento che deve servire a illuminare un problema e a convincere delle intelligenze. Senza esibizionismi, senza narcisismi, senza trucchi o effetti speciali. Seguendo la logica e le procedure della ragione, senza gli orpelli della retorica e senza gli appelli alle emozioni [offrendo] al lettore la propria coerenza di ragionamento» (Luperini 2005: 375).
Tutte queste caratteristiche ne fanno una delle figure più significative della cultura contemporanea. Data l’ampiezza e l’eterogeneità dei suoi studi – che richiederebbe lo spazio di una monografia e molteplici competenze – non potremo in questa sede ripercorrere le numerose linee di ricerca che Timpanaro ha seguito, ma ci limiteremo a mettere in evidenza solo alcuni aspetti particolarmente significativi della sua esperienza soprattutto come studioso e critico della cultura ottocentesca. La conoscenza sicura e precisa dei testi e il loro inquadramento nel contesto storico e politico in cui sono inseriti e da cui sono inevitabilmente influenzati – che deriva dalla sua formazione filologica [6] – sono stati per Timpanaro anche gli strumenti che gli hanno permesso di mettere in discussione i luoghi comuni e gli stereotipi a lungo presenti nella storia della cultura.
A questo riguardo spiccano le ricerche dedicate a Leopardi con cui Timpanaro ha contribuito in modo decisivo alla conoscenza della sua opera sostenendo non tanto l’attualità (espressione che non amava), quanto la verità del suo pensiero. Il suo primo approccio con il grande poeta recanatese è stato favorito dalla sua formazione di filologo classico: partendo dalla filologia l’interesse per Leopardi si è allargato poi all’intera sfera ideologica e filosofica. Questa impostazione è già presente nel 1955 quando viene pubblicata la fondamentale monografia La filologia di Leopardi in cui è riconosciuta l’importanza della ricerca filologica leopardiana: fino a quel momento era stata considerata soltanto come un tirocinio letterario di iniziazione alla poesia, mentre con questo libro vengono riconosciuti i suoi risultati originali e di sicuro valore nel campo specifico della disciplina; l’apprendistato filologico di Leopardi ha indotto nuovo vigore alla filologia italiana che, dopo la grande fioritura umanistica, stava vivendo un momento di grave crisi. In questo testo inoltre Timpanaro è stato tra i primi a evidenziare la validità del pensiero linguistico leopardiano[7], dimostrando una sicura conoscenza della poesia leopardiana, oltre che una piena adesione al suo modo di concepire l’uomo in rapporto con il mondo che lo circonda, dove questo rapporto è segnato dalla lotta non tanto contro una determinata oppressione sociale e politica, quanto contro tutta la realtà avvertita come costitutivamente e inesorabilmente oppressiva.
L’indagine critica è proseguita poi con Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano (1965) che oggi consideriamo un testo fondamentale della storiografia sulla civiltà letteraria del XIX secolo da cui non si può prescindere (Tellini 2011: VIII), ma che nel momento della sua pubblicazione incontrò molte resistenze perché il suo autore non apparteneva alla scuola degli italianisti: ad esempio, non ottenne nemmeno una segnalazione da riviste importanti del settore come il Giornale storico della letteratura italiana o Lettere italiane. Nonostante questo ostracismo il libro ha avuto una grandissima diffusione ed è stato continuamente ristampato [8]; il suo merito fondamentale è stato quello di ridisegnare il movimento culturale del classicismo nei suoi rapporti spesso conflittuali con il romanticismo, valorizzando e interpretando in modo originale la collocazione che in esso hanno avuto autori come Leopardi, Giordani, Cattaneo e Ascoli [9].
In particolare, nei saggi dedicati a Leopardi – che comprendono successivamente anche Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana (1982) e Nuovi studi sul nostro Ottocento (1995) – Timpanaro ha svolto una convincente rivalutazione della filosofia leopardiana, consegnata nello Zibaldone [10], e dell’Illuminismo come fondamentale momento della sua formazione, confutando quegli autori che nella stagione del romanticismo, e poi dell’idealismo, avevano negato l’originalità e la validità del pensiero leopardiano proprio per la sua matrice materialista e perché si basavano su un concetto ristretto e tecnicistico di filosofia essendo convinti che il materialismo pessimistico non potesse essere considerato una forma legittima di filosofia [11]. Tra questi spicca la posizione negativa di Croce che considerava la condizione di spirito di Leopardi sentimentale e non filosofica, negava ogni suo significativo contributo non solo alla storia del pensiero, ma anche alla teoria dell’arte e della poesia, e sottovalutava l’importanza di capolavori come le Operette morali – il nostro maggiore libro filosofico dal tempo della Scienza Nuova di Vico – e i Paralipomeni della Batriacomiomachia, arrivando addirittura a paragonare le Operette a un testo di nessuna originalità e di nessun valore artistico come i Dialoghetti di Monaldo (Croce 1922: 99-104) [12].
Contro questo modo di intendere l’opera leopardiana Timpanaro ha sottolineato la rilevanza di alcuni temi dell’ideario leopardiano di chiara matrice illuminista: la negazione dell’innatismo, la concezione della materia come il limite entro il quale si estendono le nostre conoscenze (Zib.:3341), il riconoscimento del fondamento materiale della teoria del piacere, il superamento del dualismo cartesiano tra anima e corpo e tra pensiero e materia (ivi: 4252 e 4288). Giustamente viene richiamata l’attenzione sulle bellissime parole di Tristano nel Dialogo omonimo – “il corpo è l’uomo” (Leopardi 1969: I, 182) – per sottolineare l’audacia e la modernità della posizione assunta da Leopardi nel contesto storico e filosofico in cui si è sviluppata e che rappresenta a sua volta il punto d’incontro con le posizioni di Holbach e Diderot (Timpanaro 1969: 184-85 e 1985: LIV ss.).
Da qui Leopardi giungeva a sostenere un radicale e conseguente ateismo con cui viene negata la stessa credenza nell’immortalità dell’anima e nella vita ultraterrena (Zib.: 4277-79), non a caso infatti nello Zibaldone è usato frequentemente il termine “mortale”, mentre chi concepisce l’uomo solo come forza creativa «capace di superare la propria finitudine immedesimandosi con una natura spinoziana non insisterebbe tanto su questo termine» (Timpanaro 1985: LXIII). Analogamente viene rifiutato il concetto di metafisica inteso come sistema di principi da ammettere al di là di ogni esperienza e di conseguenza il concetto di “a priori” o di assoluto (Zib.: 4111, 4177-82, 4251). Per queste ragioni Timpanaro non condivide l’interpretazione di quei critici come Galimberti (1977: XXVI-XXX) che hanno disegnato l’immagine di un Leopardi spiritualista, non banalmente cattolico, ma “teologo negativo”, seguace di una religione del nulla, gnostico più che ateo, quando nei suoi scritti Leopardi non ha mai aderito esplicitamente ai testi gnostici che pur conosceva bene avendoli studiati nei Fragmenta Patrum Graecorum.
Il materialismo è importante perché è anche la ragione che spiega il netto rifiuto di Leopardi di ogni compromesso con le ideologie della Restaurazione e del suo polemico distacco dal Romanticismo italiano spiritualistico e mistico, dalle sue tendenze religiose, dal suo moderato progressismo. Il carattere radicale della sua esperienza, la sua volontà di interrogare fino in fondo il senso dell’esistenza umana, il suo conseguente pessimismo lo avvicinano ai grandi romantici europei, da cui però lo allontana il suo impegno razionale, il rifiuto del fascino dell’oscurità e del tenebroso, il gusto per il concreto e il preciso che gli permettono di guardare nel modo più realistico possibile alle condizioni dell’uomo.
Per questo Timpanaro non condivide la diffusa tendenza della storiografia letteraria a ricondurre l’opera di Leopardi all’esperienza romantica [13] attraverso un uso indiscriminato e troppo estensivo del termine che ha finito per riferirsi a tutto ciò che di vivo e di originale c’è nella cultura moderna, per cui autori come Goethe, Foscolo, Leopardi Heine e Cattaneo, che sono stati espliciti avversari del romanticismo, vengono aggregati loro malgrado alla scuola romantica (Timpanaro 1969: 36-37). Qualificare il pessimismo leopardiano come romantico non è insomma accettabile perché così si disconosce la sua base materialistico-edonistica e lo si confonde con i tanti pessimismi mistici e decadenti di cui è ricca la cultura europea.
Un ulteriore risultato importante dell’analisi di Timpanaro è stato di confutare una volta per tutte il malinteso della “vita strozzata” utilizzato da Tommaseo, Croce e tanti altri critici per attaccare Leopardi sul versante biografico, screditando il suo pensiero sulla base delle sue difficili condizioni di salute. Timpanaro respinge questa tesi aberrante [14] non negando l’incidenza della sua malattia e deformità fisica sulla sua filosofia, ma al contrario affermando che
«la malattia dette al Leopardi una coscienza particolarmente precoce ed acuta del pesante condizionamento che la natura esercita sull’uomo […] l’esperienza della deformità e della malattia non rimase affatto nel Leopardi un motivo di lamento individuale, un fatto privato e meramente biografico, e nemmeno un puro tema di poesia intimistica, ma divenne un formidabile strumento conoscitivo» (Timpanaro 1969: 157-58).
Un’analoga operazione di demistificazione è stata condotta da Timpanaro nello studio dell’opera e della personalità di Pietro Giordani. Il primo saggio a lui dedicato – “Le idee di Pietro Giordani” [15] (1952) – mette in crisi l’immagine convenzionale dello scrittore piacentino che a partire da De Sanctis si era affermata nella critica letteraria, cioè quella di un retore interessato solo alle questioni di lingua e di stile, chiuso in un provincialismo asfittico, poco sensibile al valore e alla coerenza del pensiero. Uno scrittore prigioniero del classicismo e del purismo ormai stantio, la cui opera è composta da scritti d’occasione (elogi, panegirici, necrologi) che, se suscitavano all’epoca l’ammirazione dei letterati, sono oggi per noi di scarso interesse. Oppure l’autore di scritti d’arte che risultano oggi sostanzialmente superati perché basati su un gusto rigidamente neoclassico che oggi nessuno più condivide. Fin dal titolo di quel suo primo saggio – e in numerosi altri che lo hanno seguito – Timpanaro invece ha completamente ridisegnato il profilo di questo autore, restituendoci un’immagine completamente diversa da quella fino a quel momento condivisa dalla maggior parte degli studiosi, un ritratto molto più vivo e sfaccettato dello scrittore piacentino in cui elementi poco conosciuti della sua persona e della sua opera vengono alla luce. Attraverso un’approfondita e circostanziata disamina dell’intera sua opera – compresi il vasto epistolario e gli scritti postumi – è emerso quanto il contenuto culturale dei suoi scritti fosse degno di interesse e quanto il significato che Giordani ha rappresentato nella cultura italiana della prima metà dell’Ottocento fosse degno di attenzione e meritasse un’attenta ricostruzione critica.
Uno degli aspetti più importanti riguarda l’impegno che Giordani ha esercitato per la laicità e il progresso, la valorizzazione della sua formazione illuminista [16] che si mostra in aperto contrasto con le varie forme di cattolicesimo presenti nell’età della Restaurazione. La sua adesione al classicismo ha così rappresentato una forma di protesta contro lo spiritualismo allora imperante, «una fedeltà alla ragione contro il sentimento mistico, un’affermazione di ghibellinismo» (Timpanaro 1961: XI), una lotta contro l’oscurantismo rappresentate soprattutto dagli scritti “De’ nobili e de’ preti in Italia” (Giordani 1854-62: XI, 26-32) e dai “Discorsi ai soci del Gabinetto di lettura di Piacenza” (ivi: X, 391-403; XI, 40-63).
Partito da un sensismo di origini condillachiane, già nel Panegirico a Napoleone del 1807 Giordani è arrivato ad assumere posizioni di aperto materialismo e pessimismo con la teoria del pensiero come secrezione del cervello (Giordani 1854-63: VIII, 229), avvalorando la reciproca interdipendenza tra la conformazione fisiologica-anatomica dell’uomo e la sua vita interiore e psichica. Inoltre in questo scritto è presente una chiara posizione anticlericale in base alla quale Giordani deplorava la politica concordataria di Napoleone e il suo decisivo contributo alla ricostruzione del potere secolare della Chiesa. Un altro aspetto interessante di questo scritto riguarda il fatto che Giordani, invece di celebrare il genio militare di Napoleone, preferisce soffermarsi sulla sua figura di legislatore, di promotore della cultura e di nemico degli oscurantismi, sottolineando così quegli aspetti più duraturi della figura di Napoleone che resteranno validi anche dopo la fine della sua potenza militare (Timpanaro 1982: 111).
La sua posizione sul materialismo e sull’ateismo si è con il tempo sempre più radicalizzata come dimostra ad esempio un’opera come il Peccato impossibile dove, con lucida razionalità e con rara efficacia stilistica, Giordani denunciava la pratica seguita allora dalla Chiesa di utilizzare la credenza nel demonio e sfruttare la superstizione per dominare le coscienze dei fedeli e ottenere vantaggi anche economici attraverso le indulgenze; allo stesso tempo dissacrava la stessa concezione cristiana di un’entità diabolica e il dogma dell’onnipotenza divina. Il Peccato impossibile rappresenta «la punta più avanzata di questo passionale eppur lucido anticlericalismo» (Timpanaro 1995: 45) perché non è soltanto una polemica contro il clero reazionario della Restaurazione, ma anche un modo per mettere in dubbio dogmi solenni come quello dell’incarnazione e dell’immortalità dell’anima. Giordani si rendeva conto che non avrebbe potuto pubblicare questo suo scritto che rappresenta senza dubbio il vertice della sua tensione polemica e che sarebbe stata preferibile una sua pubblicazione postuma anche per eludere i rigori della censura che già in passato lo avevano colpito durante il suo soggiorno a Firenze e a Parma [17]. Anche la storia dei suoi difficili rapporti con la censura smentisce la sua nomea di pedante: se Giordani fosse stato il vacuo retore che spesso ci hanno raccontato non sarebbe stato così inviso ai sovrani restaurati della sua epoca.
Il Cristianesimo come ogni altra concezione spiritualista, compreso il platonismo di primo Ottocento, è sempre stato estraneo alla sua ideologia per cui, contro le idee di Manzoni, egli poteva sostenere che la morale non avesse bisogno di un fondamento religioso e riteneva possibile per il popolo una morale laica. Allo stesso tempo non riconosceva alcun contenuto di verità alla religione, non solo alla religione teologica ma anche a quella filosofica (Cecioni 1977: 45-47), compreso il deismo settecentesco; questo spiega come egli potesse accettare e comprendere – solo tra i contemporanei – l’aspro materialismo leopardiano e interpretarlo in modo non riduttivo e banale. Qui si misura la differenza non di poco conto rispetto a una delle figure chiave dell’illuminismo europeo come Voltaire, che comunque Giordani ammirava: gli aspetti più discutibili dell’opera di Voltaire come il disprezzo per le classi popolari più basse, gli atteggiamenti razzisti e colonialisti e il rifiuto dell’ateismo non si ritrovano nei suoi scritti.
Nei confronti della cultura romantica Giordani si rapportava in modo conflittuale non condividendo le origini antigiacobine e spiritualistiche dell’ideologia romantica che identifica la modernità con la cristianità e fa derivare la civiltà europea non dal Rinascimento o dall’Illuminismo, ma dal Medio Evo. Allo stesso tempo prendeva le distanze da quella commistione di elementi retrivi e progressisti nell’interesse dei romantici per il folclore e la poesia dialettale. Nell’ideologia di Giordani si nota una caratteristica essenziale: «la mancanza di nemici a sinistra» (Timpanaro 1982: 108) che gli permetteva di non condividere né la paura della rivoluzione in generale, né la distinzione tra un buon inizio della rivoluzione francese con l’ottantanove e la successiva degenerazione giacobina che invece erano fatti propri sia dai romantici lombardi, sia dagli animatori della rivista L’Antologia, espressione di quella cultura liberal-moderata o “neoguelfa” (Della Peruta 1992: 168) che respingeva l’eredità dell’illuminismo e mirava a conciliare tradizione e progresso, autorità e libertà, fede cattolica e modernità, riconoscendo la funzione civile svolta dalla Chiesa nella storia italiana in generale.
L’atteggiamento che Giordani mostrava verso le classi subalterne non è assimilabile al «filopopolarismo paternalistico e conservatore dei moderati toscani» (Timpanaro 1982: 112); ad esempio di fronte alla rivolta operaia di Lione del 1834 Giordani esprimeva sentimenti di simpatia e solidarietà oltre che di dispiacere per la sconfitta degli insorti (Timpanaro 1969: 86). Quelle diseguaglianze sociali ed economiche che Giordani aveva sempre denunciato e che riteneva profondamente ingiuste erano invece considerate “provvidenziali” dai moderati: Capponi pensava che la divisione tra chi è costretto al lavoro manuale e chi può dedicarsi all’attività dello spirito dipendesse addirittura da un decreto immutabile di Dio; la stessa posizione si ritrova in Vieusseux, Forti, Ridolfi, Montani. Per non parlare del Tommaseo che collegava la diseguaglianza all’esigenza di ordine sociale e alla legge universale di tutto il creato (ivi: 113). Anche in questo caso le ragioni del contrasto con i moderati sono dovute alla sua formazione illuminista, in primo luogo Rousseau e Beccaria che per Giordani rappresentavano un punto di riferimento imprescindibile.
Queste sono le ragioni che spiegano il rapporto difficile e controverso con i liberali fiorentini e gli scrittori dell’Antologia. Quando Giordani arrivò da esule a Firenze era ben disposto a collaborare con la rivista e aveva molti progetti in merito; ben presto però si rese conto di quanta distanza ci fosse con i moderati toscani nel modo di considerare gli uomini e i loro rapporti con la società, a cominciare proprio dal materialismo e dall’antiprovvidenzialismo. Quando infatti scrisse un lungo articolo destinato a introdurre le tre Operette leopardiane, pubblicate dalla rivista come anticipazione del volume ancora inedito [18], il suo testo venne rifiutato da Vieusseux e non superò nemmeno le maglie della censura granducale. Questo perché gli scrittori dell’Antologia – compreso Montani che era il più vicino alle posizioni di Giordani – «avvertivano la funzione sociale conservatrice della religione o almeno di un ragionevole spiritualismo, e soprattutto per questo vedevano nel pensiero leopardiano un pericolo» (Timpanaro 1982: 128-29).
Le sue posizioni anticlericali, la sfiducia nelle monarchie assolute e nella classe nobiliare, la denuncia delle ingiustizie e delle disuguaglianze erano incompatibili insomma con la politica culturale seguita da Vieusseux e dagli altri collaboratori. Del resto anche quando le tre Operette di Leopardi furono pubblicate dalla rivista incontrarono subito l’incomprensione e la sottovalutazione di Vieusseux e degli altri collaboratori; Tommaseo addirittura vedeva in esse il segno di una «arrogante mediocrità» (ivi: 165), Colletta e Capponi ammettevano di non apprezzarle (Damiani 1992: 370); nelle loro reazioni non si riscontra alcun riconoscimento della loro altezza ideale e artistica. Nessuno di loro si rese conto che quei tre scritti sarebbero destinati a rimanere quanto di meglio sia uscito dall’intera esperienza della rivista.
Come è noto del resto anche il rapporto di Leopardi con l’ambiente della rivista è stato sempre problematico e controverso [19] a causa dell’inconciliabilità tra la prospettiva ideologica dei moderati e il carattere di radicale opposizione alla cultura borghese del suo pensiero (Spaggiari 1990: 60-69): Leopardi avvertiva un forte senso di estraneità verso il loro programma culturale e sociale che comprendeva lo spirito filantropico, gli interessi tecnici e scientifici, l’attenzione per il progresso, l’ideale dello scrittore “utile”. Pur continuando a considerare l’Antologia un esempio di quanto di meglio tra la letteratura periodica l’Italia potesse produrre in quell’epoca, Leopardi si rendeva conto di quanto la sua concezione della letteratura fosse antitetica rispetto alla visione dei moderati toscani che privilegiava l’utile sociale del prodotto giornalistico (Bellucci 1996: 101).
La mancanza di sintonia con lo spirito progressista della cultura fiorentina è testimoniata, ad esempio, dal Dialogo di Plotinio e di Porfirio, scritto proprio nel 1827 durante il soggiorno a Firenze, per non parlare delle fulminanti battute del Dialogo di Tristano e di un amico. L’incomprensione reciproca, la distanza ideologica che col tempo sarà sempre più profonda e definitiva (ivi: 103) sono alla base anche della bocciatura delle Operette morali da parte degli accademici della Crusca al concorso bandito nel 1828, alle quali venne preferita la Storia d’Italia dal 1789 al 1814 di Carlo Botta, in quanto il patriottismo moderato di Botta era molto più in linea con lo spirito del tempo rispetto all’inquietante testo leopardiano che, come osservò all’epoca l’accademico Filippo Nesti, tendeva a «far crollare la base di ogni moralità»[20]. Leopardi stesso era ben consapevole di quanto il proprio pensiero filosofico fosse estraneo al proprio tempo quando, ad esempio, nella lettera del 4 marzo 1826 scriveva a Vieusseux:
«Tenete dunque per costante che la mia filosofia (se volete onorarla con questo nome) non è di quel genere che si apprezza ed è gradito in questo secolo; è bensì utile a me stesso, perché mi fa disprezzar la vita e considerar tutte le cose come chimere, e così mi aiuta a sopportar l’esistenza; ma non so quanto possa essere utile alla società, e convenire a chi debba scrivere per un giornale» (Leopardi 1969: I, 1243).
Non deve dunque sorprendere se l’unico vero spirito solidale con Leopardi durante il suo soggiorno a Firenze, e come lui restio a collaborare con l’Antologia alla quale destinò pochi interventi, fu proprio Giordani, uno di quegli “spiriti pericolosi, inquieti” che aveva turbato molti anni prima il padre Monaldo [21].
Un altro aspetto interessante dell’illuminismo di Giordani, e che Timpanaro opportunamente ha messo in evidenza, riguarda il suo pensiero pedagogico. In primo luogo egli criticava la concezione utilitaristica della cultura e sosteneva la necessità di studiare i classici latini e greci con rigore filologico e sicura conoscenza della lingua, due aspetti poco frequenti allora anche fra i dotti. In secondo luogo Giordani si occupò a più riprese dei problemi dell’educazione popolare che portarono all’istituzione degli asili infantili laici destinati a preparare la successiva educazione elementare e la costruzione della rete degli asili – avviata a Cremona nel 1827 – e diffusa a Parma, Piacenza e in altre zone dell’Italia, tranne che nello Stato pontificio dove gli asili vennero proibiti nel 1837 per il timore che potessero minacciare il monopolio clericale in campo educativo (Della Peruta 1992: 169).
La critica di Giordani operava su due fronti: da un lato il deciso rifiuto delle posizioni più retrive della cultura del suo tempo, ad esempio di Monaldo Leopardi che, con la rivista La voce della ragione da lui pubblicata a Pesaro tra il 1832 e il 1835, addirittura si schierava contro l’istruzione delle classi inferiori che dovevano essere lasciate nell’ignoranza per farle rimanere contente della loro situazione (ivi: 122); dall’altra la polemica, altrettanto aspra, con i liberali e i moderati che interpretavano l’alfabetizzazione delle classi popolari in funzione dell’esigenza di controllo sociale: con l’educazione si mirava a trasmettere una visione della vita come paziente rassegnazione alla propria condizione di inferiorità economica e sociale, disinnescando ogni possibile forma di ribellione (ivi: 169-70).
Questa è l’impostazione di uno dei libri della letteratura popolare più diffusi dell’Ottocento come il Carlambrogio da Montevecchia (1836) di Cesare Cantù che era condivisa anche dai liberali dell’Antologia. Ecco allora che la rivalutazione dell’opera di Giordani, la dimostrazione di quanto le sue idee di riforma culturale abbiano ancora oggi un valore significativo, è stato per Timpanaro anche un modo per individuare i motivi progressisti che sono presenti nel classicismo italiano e per capire come da una educazione classica sempre rivendicata possa essere venuto fuori un autore come Leopardi, il più grande e il più moderno di tutti i romantici.
Pur limitando la nostra disamina alla sola parte dell’opera di Timpanaro che si inquadra nell’ambito della critica letteraria e della storia della cultura, tanti temi e filoni di ricerca che la caratterizzano dovrebbero essere ancora esaminati. Ad esempio, gli scritti sulla storia della linguistica, sulla linguistica teorica intesa come momento di avvicinamento tra storia e scienza o tra natura e società (Piras 2019), sul materialismo settecentesco e sui fondamenti del marxismo, su altre figure anche meno note della cultura ottocentesca come Edmondo De Amicis, Antonio Cesari, Carlo Bini, Pietro Gioia, Angelo Mai. Non è possibile ora proseguire in questa ricostruzione ma sarebbe importante poterlo fare in un’altra occasione, al fine di ribadire quanto gli studi che Timpanaro ha condotto nel corso del tempo siano ricchi e stratificati e possano essere per noi oggi un punto di riferimento imprescindibile.
Dialoghi Mediterranei, n. 56, luglio 2022
Note
[1] Si veda un testo diventato un classico degli studi del genere La genesi del metodo del Lachmann (1963) e, da ultimo, il volume uscito postumo nel 2001 Virgilianisti antichi e tradizione indiretta.
[2] Sono ora raccolti in Timpanaro (2005) e “restano ancora oggi fra i lavori più istruttivi e interessanti sugli argomenti di cui parlano” (Lepschy 2005: 11). Vedi ora anche De Mauro (2003).
[3] Abbiamo tenuto presente soprattutto Feo (2001), Gallo-Iori-Quintili (2003), Di Donato (2003), Feo (2004), Ghidetti-Pagnini (2005), Ordine (2010).
[4] Si vedano Timpanaro-Orlando (2001), Cases-Timpanaro (2004). Altri importanti carteggi sono stati pubblicati in Feo (2001), ad esempio con Giuseppe Pacella e Tristano Bolelli, e in Feo (2004), con Augusto Campana e Giuseppe Anceschi. Da segnalare anche lo scambio epistolare con Carlo Ginzburg ora raccolto in Ghidetti-Pagnini (2005).
[5] Dimostrata in particolare dagli scritti pubblicati in Timpanaro (2001).
[6] Nell’ambito della quale la filologia è considerata come recupero dell’autenticità dei testi, diritto alla critica delle auctoritates e ricerca della verità; quindi non qualcosa di astratto e fine a se stesso ma collegato alla prassi (Canfora 2008: 12-13).
[7] Di cui Gensini (1984) descrive gli aspetti più significativi tra i quali spicca la teoria della metafora e dell’indeterminatezza semantica su cui mi sia concesso di rinviare a Prato (2019).
[8] Ora è disponibile in una nuova edizione critica (Timpanaro 2011) con aggiunte e passi inediti dell’autore.
[9] L’operazione critica condotta da Timpanaro in questo ambito è ricostruita da Ghidetti – Pagnini (2005) e Blasucci (2010).
[10] Utilizziamo l’edizione critica a cura di G. Pacella (Leopardi 1991) abbreviato in Zib. e riportando come è di consuetudine la pagina dell’autografo.
[11] Come dice in una bella intervista, “la stragrande maggioranza delle filosofie sono state forme raffinate di religione, religioni per le persone colte, comprese le filosofie immanentistiche” (Timpanaro 1983-84: 88). Sul materialismo vedi Landucci (2001) e Quintili (2003).
[12] La critica radicale alle posizioni di Croce ritorna anche in altri testi, vedi almeno Timpanaro (1977) e (1985).
[13] Su Leopardi antiromantico vedi Bigi (2011: 55-67) e Mengaldo (2012: 13-32).
[14] Respinta già da Leopardi nella bellissima lettera a De Sinner del 24 maggio 1832 (Leopardi 1969: 1382-83).
[15] Si legge ora in Timpanaro (1969: 41-117). Negli anni successivi Timpanaro è tornato più volte ad analizzare l’opera e il pensiero di Giordani. Ricordiamo soprattutto i saggi: “Il Giordani e la questione della lingua” (in Timpanaro 1980: 147-224), “Ancora su Pietro Giordani” (in Timpanaro 1982: 103-144), “Un’operetta di Pietro Borsieri” e una di Pietro Giordani” e “Pietro Gioia, Pietro Giordani e i tumulti piacentini del 1846” (rispettivamente in Timpanaro 1995: 31-54 e 69-102).
[16] Sull’influsso che gli autori illuministi come Voltaire, Beccaria, gli enciclopedisti hanno esercitato sulla formazione culturale di Giordani vedi Cecioni (1977: 11-53).
[17] Il Peccato impossibile verrà pubblicato infatti postumo a Londra nel 1862 e non sarà incluso nelle Opere giordaniane, si può leggere ora in (Giordani 2002). Sull’importanza di questo scritto per comprendere la posizione effettiva dello scrittore piacentino nella cultura ottocentesca si veda Spaggiari (1990: 77-93), Timpanaro (1995: 45-54) e Serianni (1998).
[18] Si tratta dei Dialoghi “di Timandro e di Eleandro”, “di Colombo e Gutierrez”, di “Torquato Tasso e del suo Genio familiare” usciti nell’Antologia del gennaio 1826.
[19] Si vedano in particolare Bellucci (1996: 97-135), Naldini (1983: LXX-LXXXIV), Damiani (1992: 363-377).
[20] Citato in Spaggiari (1990: 63).
[21] Si veda la lettera di Monaldo Leopardi a Pietro Brighenti del 3 aprile 1820 citata da Naldini (1983: XXXIV-XXXV).
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Alessandro Prato è professore associato di Filosofia e teoria dei linguaggi all’Università di Siena dove insegna Retorica e linguaggi persuasivi e Teorie semiotiche e linguistiche. Tra le sue più recenti pubblicazioni: Retorica e comunicazione persuasiva. Le forme della manipolazione (Edizioni ETS, 2021) e Comunicazione e potere. Le strategie retoriche e mediatiche per il controllo del consenso (Aracne, 2018).
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