A sei anni dall’esordio, con la raccolta di racconti L’invasione degli omini in frac e altre piccole nostalgie (Pascal Editrice, 2010), Ada Bellanova presenta Papamusc’ (Effigi Edizioni, 2016), breve romanzo che eredita personaggi e temi di quella prova, a partire dalla voce narrante (che si rivela un folletto della stessa famiglia del protagonista di Il pellicano), dall’ambientazione in un innominato paese del nostro Mezzogiorno (solatìa contrada di ulivi e mandorli che richiama la «landa di sole» fuggevolmente evocata in Non i tacchi alti), dal simbolismo del rosso (colore che compariva come una sigla in ognuna delle «nostalgie»).
In quella che chiama la sua «lettera», il narratore onnisciente dal cappello a punta (che afferma di sapere «molte cose di tutti» e si dice «saltarello», «monacicchio», «lavurieddu», apparentandosi a certe sfuggenti creature frequentate da Anna Maria Ortese) riferisce del ritorno di una giovane donna al paese nativo, da cui è stata a lungo lontana. Il nostos (lo accusa l’etimo) sarà vettore di altre ‘nostalgie’, calamitando, sulle piste della reduce Grazia, un animato confronto tra quel che era e quel che è (araldo di quel che sarà). Lo spiritello scriba è infatti il nume tutelare del luogo: testimone privilegiato e custode delle sue memorie (di se stesso dirà: «come un ragno al centro della tela, sorvegliavo il mio piccolo mondo»).
Papamusc’, che l’Avviso al lettore traduce in «ragnatela abbandonata, dimenticata», è dunque la tessitura stessa del ricordo, il racconto come restituzione del passato, di tutto il passato, ivi compresi i sogni ad occhi aperti, le fantasie infantili (non a caso per Grazia bambina è un talismano sonoro, l’apritisesamo che la introduce a un universo precluso agli adulti). Un ricordare che procede a onde, a sbalzi, a ‘improvvisi’, seguendo gli inesplicabili affioramenti del tempo trascorso, producendo un racconto non rettilineo, ‘a capriccio’, fatto di volubili tessere che a poco a poco formano un quadro, disegnano una storia: una vicenda che, sebbene resti precaria (perché, come confessa il nostro saltapicchio, è difficile «cercare un senso, un ordine, una causa, dove un senso, un ordine, una causa, non ci sono»), un significato lo lascia scorgere: il corso desultorio e divagante di questa favola contemporanea – ascritta com’è a un «filosofo e conoscitore dell’anima» – riesce poi a interrogarci su quel che siamo, su quel che stiamo a diventare.
Nel paese che Grazia dopo tanti anni ritrova (e in cui traluce Ceglie Messapica, luogo natale dell’autrice) c’è sempre, là in alto, il Castello, ci sono le stradine tortuose, la cattedrale, le piazze assolate, le lamie, ma non si vedono persone, non si sentono voci. Le uniche presenze sono quelle di Grazia, di un cane, il «diavolo bianco» che era stato il suo beniamino, e del folletto che li scorta non visto. Ma il deserto via via si anima, passo dopo passo vi rifiorisce virtualmente la vita che sembrava spenta, con i suoi immancabili segreti. Il segreto delle stregonesse, depositarie di perigliosi saperi ancestrali, riunite a consulto in casa di Caterina la zoppa. Il segreto di Donna Francesca, figlia illegittima di un nobile, reclusa nella solitudine del palazzo paterno inopinatamente ereditato. Il segreto dell’amore proibito fra la malmaritata Isabella e il ferroviere preso dai libri. Il segreto di Grazia, portatrice di un dono di magia che intravede senza conoscerlo. Il segreto dello stesso folletto, geloso collezionista di cose rubate.
L’enigma di questo deserto, che Grazia registra seguendo le orme del «bianco gigante re di sapienza», sarà sciolto (in coda al Commiato) da un didascalico capitoletto che è una delle mosse infelici del libro (da sceneggiato televisivo o film americano), insieme ai vieti espedienti del diario tenuto da Grazia e delle lettere di Isabella. Non ne faremo menzione, in quanto la cifra del racconto è proprio lo spazio indenne, l’inattesa pagina bianca che si fa soglia, confine, autorizzando il transito temporale, l’andirivieni tra l’oggi e l’ieri. È qui che avviene la miracolosa reviviscenza delle cose trascorse; è qui che la parte saggia del folletto pronuncia la sua sentenza sulle perdite che sono la vera ragione, non quella banalmente giornalistica, dell’assenza: «Non c’era niente, neppure il sostegno del saluto, il supporto del vicino»; «tutti avevano dimenticato tutto»; «la perfidia di un tempo galoppante che cancellava l’identità, cancellava il ricordo». Ecco la domanda che ci riguarda: l’eclissi della memoria, che azzera le differenze mutandoci in una pasta uniforme; lo ‘spaesamento’, così rapido che stentiamo a realizzarlo: «Il progresso era arrivato, aveva ingozzato tutti quanti e non aveva permesso alcuna digestione, così che il mal di pancia durava e tante cose non si capivano».
Per questo disastro, paragonato a una «guerra atomica», ancor più mortifero se si pensa che è posto in un ambito ritenuto ancora abbastanza tradizionale, non del tutto infettato dal ‘progresso’, il mercuriale genietto non ha rimedi, come non ne ha Grazia, con la sua «paura di non essere se stessa qui, rabbia di non saperlo essere altrove». Ma la voce di chi non può praticare l’oblìo, di chi ha raccolto «pure i pensieri […], quei pensieri che si dimenticano per strada», è un provvido anticorpo, un invito a riflettere su quel che non si è fatto, su quel che si poteva fare.
Un invito che tiene però assai poco del sermone, della tirata ‘oggidiana’ (per dirla con Ripellino) sul ‘come si stava bene una volta’; portato senza iattanza, con l’arguta allegria di un Puck, nelle pieghe di un racconto continuo, fatto di storie che dischiudono storie, scandito dall’anafora, distribuito su reti di richiami (quella, ad esempio, che allaccia lo scandaloso vestito rosso del marito di Assunta, la rossa gonna di Isabella, il rosso berretto del folletto, i sandali rossi di Grazia all’emblema che vi è inscritto: «Rosso di melograno e rosso di camino e rosso tutto rosso il mondo. Senza che lei bambina avesse idea del rosso di sangue che si nascondeva»).
Prevale, insomma, il piacere dell’invenzione, l’estro sbarazzino dell’elfo, sostenuto da enumerazioni ‘alla Borges’ che danno un segno leggendario agli accadimenti, da inversioni sintattiche che sanno di sognante cantilena. I momenti più felici del libro sono quelli della rêverie, dell’abbandono al saltuario flusso di immagini, quello, ad esempio che sorprende Grazia incantarsi dinanzi al bianco d’uovo chiamato a divinare il destino, alle «impalcature fatate dentro il vetro» («si era vista camminarci sopra, piccina e leggera, arrampicarsi sulle liane e le crepe e le torri e gli alberi maestri»), o l’evocazione delle ombre emanate dai muri del ‘circolo dei civili’, «che ancora con le impeccabili ben stirate camicie sotto i completi a righe cuciti a mano giocavano a carte spiandosi le mosse al di là della coltre grigia delle sigarette arrotolate e si affacciavano al bianco balcone barocco tra un tiro al bigliardo all’altro sbadigliando in faccia ai profili delle straniere le sere d’estate come un tempo nelle silhouettes ondeggianti delle gonne delle giovani donne da sposare all’uscita della messa».
E, come Grazia, anche noi torniamo a contemplare stupiti «la fiaba d’altri tempi, e la malinconia di una infanzia leggera». Ma il cuore della narrazione, i ‘personaggi’ memorabili restano i due fantastici pupazzi con gli abiti di Donna Isabella e del Ferroviere, che l’enorme maremmano trascina per le strade fino al luogo in cui gli antichi amanti consumarono la loro ‘colpa’ e dove avranno finalmente requie: un viaggio che ha qualcosa di epico e che denuncia lo scarto tra la luce del mito divenuto polvere e il buio del presente che dobbiamo comunque attraversare.
Dialoghi Mediterranei, n.26, luglio 2017
________________________________________________________________
Antonio Pane, dottore di ricerca e studioso di letteratura italiana contemporanea, ha curato la pubblicazione di scritti inediti o rari di Angelo Maria Ripellino, Antonio Pizzuto, Angelo Fiore, Lucio Piccolo, Salvatore Spinelli, Simone Ciani, autori cui ha anche dedicato vari saggi: quelli su Pizzuto sono parzialmente raccolti nel volume Il leggibile Pizzuto (Firenze, Polistampa, 1999).
________________________________________________________________