Mi riecheggiano, suggeritemi dalla lettura dell’ultimo lavoro di Lucio Zinna [1], le parole di un “gigante” della nostra Isola, Gesualdo Bufalino, che sarebbe stato bello e doveroso – nell’anno del centenario della nascita – poter diversamente omaggiare: «[…] le Sicilie sono tante, non finiremo mai di contarle» [2]. Non una constatazione, non un monito; un invito semmai ad addentrarci, ad esplorare, ad aggiungere ulteriori tasselli alla conoscenza di una terra spinosa, ma dai tanti dolcissimi frutti, come del resto sembra voler suggerire anche l’immagine stilizzata della pianta di fico d’India, impressa sulla copertina di Lettere siciliane. Autori del Novecento dentro e fuori circuito [3]. Pubblicato da Mimesis nella collana «Sisifo» [4], l’agile volume di Zinna, saggista e poeta di estrema sensibilità, si presenta come raccolta di profili bio-critici, prodotto di un lavoro di selezione e revisione di taluni contributi dedicati ad autori siciliani del Novecento, già proposti in precedenti occasioni: un’operazione condotta sul filo della memoria che ricalca e richiama quella già effettuata anni dietro con La parola e l’isola [5].
«Rinverdire la memoria di chi non ha più memoria (o, bene che vada, una scolorita memoria) tra i vivi è, oltre che un tributo risarcitorio, un atto di gentilezza» [6], ha scritto Antonino Cangemi recensendo le Lettere siciliane, opportunamente sottolineando come la gentilezza sia cifra distintiva dei poeti, schiera alla quale Zinna appartiene a buon diritto [7]. E di ritratti e spigolature di poeti non difetta la raccolta, nella quale Zinna include autori dentro e fuori circuito, celebrati oppure obliati, voci della letteratura emersa come di quella sommersa (in forza di mai del tutto trasparenti «giochi del potere alto-editoriale») [8].
Così quella delle sue Lettere siciliane è operazione risarcitoria, oltre che memoriale, lontana dalle luci della ribalta, dal «clangore di tube», dalla «volatilità dei borsini letterari» [9]. Si comincia dalla fitta corrispondenza tra Antonio Pizzuto [10] e Salvatore Spinelli [11], due amici che si confrontano a suon di stilettate, ma con affetto vero e curioso humour, sul comune mestiere dello scrivere, uniti da reciproca stima, divisi da differenti prospettive estetiche. Radicale fu la concezione di Pizzuto: da Ravenna in avanti ogni unità narrativa nella sua bottega letteraria appare definitivamente franta, lasciando spazio a una pluralità di voci narranti, fino all’evoluzione verso forme che prevedono la rinuncia ai connettivi logici e il passaggio a una sintassi esclusivamente nominale, con l’eliminazione perfino della categoria del verbo in quanto opposta al nome [12]. Spinelli si trovò disorientato di fronte ai manoscritti di Pizzuto, lamentando mancanza di organicità e un simbolismo che gli riusciva oscuro, mentre Pizzuto si arrischiò addirittura a riscrivere un intero capitolo de Il mondo giovine, conferendo un diverso ritmo narrativo all’impronta di Spinelli che non potè che manifestare disappunto per l’invadenza dell’amico [13].
Si continua con Ignazio Buttitta [14], la cui opera poetica si dispiega lungo tutto il Novecento, tracciando con la forza e l’immediatezza del dialetto un secolo di storia sociale, politica, culturale della Sicilia: le lotte contadine e i conflitti mondiali prima, la lotta alla mafia e l’avversione al nuovo ordine post-bellico poi. Un tempo da lui, poeta di piazza e d’azione, vissuto rigorosamente nella militanza, reagendo in versi alle dittature, dando voce al disagio economico delle classi subalterne, credendo nella possibilità di un mondo migliore: ha cantato la speranza e la memoria, ma nell’epilogo del suo lungo percorso di vita e di scrittura, con la saggezza di chi ha visto sfilare davanti a sé tutte le stagioni con sogni e delusioni, non ha potuto fare a meno di vedere negli uomini dei pupi di negghia, autentici «fantasmi» che hanno colpevolmente smarrito «sangue e voce» [15].
Nella galleria disegnata da Zinna non poteva mancare Salvatore Quasimodo, in un quadro che merita un’attenzione supplementare. Del Premio Nobel per la Letteratura [16], egli sceglie di tratteggiare un aspetto non completamente indagato e, per molti versi, scivoloso, quello legato alla connotazione etico-religiosa della sua poesia: una dimensione – non si manca di rilevare – che sussegue alla stagione ermetica, caratterizzata dalla poesia pura e dalla poetica della parola [17], caricandosi di accenti immanentisti, con insistenza sui temi della solitudine radicale dell’io dinanzi al cosmo e dell’inquietudine causata da un vivere contemporaneo sempre più deumanizzante, il primo di natura esistenzialista, il secondo di valenza segnatamente sociale [18]. Sulla scorta di Neria De Giovanni – la quale aveva intuito nella parabola artistica quasimodiana una «storia etica profonda» riconducendola ai temi del dolore e della morte che, inizialmente «trasfigurati nel mito, possono farsi storia, si fanno storia a volte» [19] –, Zinna pone l’accento sulla tendenza all’oltrità [20] di alcune opere del poeta modicano, citando in particolare la lirica Un arco aperto, da La terra impareggiabile [21].
Non può sfuggire nel testo la presenza di tessere (“il canto chiuso del chiù”) che dialogano con il Pascoli de L’assiuolo (“tintinni a invisibili porte: che forse non si aprono più?”, con la relazione istituita tra il dato fisico del suono prodotto dalle cavallette e la realtà metaforica di varchi immateriali che, schiudendosi, consentono l’accesso al mistero). Il “Qualcuno verrà” dell’ultimo verso – suggerisce Zinna – da un lato chiude il componimento, dall’altro lo apre ad una «significazione escatologica» [22]. E pare più che opportuna – riattraversando in cerca dell’elemento religioso le tappe evolutive della parabola poetica di Quasimodo, da Acque e terre [23] ad Oboe sommerso [24], da Erato e Apollion [25] a La vita è un sogno [26] – la ripresa di un giudizio di Zago, per il quale la dimensione del sacro è «aspetto importante dell’anagrafe culturale dello scrittore» [27].
Importante ancorché sfuggente a precise definizioni, ci permettiamo di aggiungere; del resto, lo stesso Quasimodo, mentre nel discorso su Il poeta e il politico ebbe a dire – come ricorda l’autore di Lettere siciliane – che «il fattore religioso può spingere ancora a imprigionare l’intelligenza dell’uomo» [28], qualche anno dopo, nella famigerata intervista a Ferdinando Camon, volle precisare che nella sua visione – causa di dissidi con la sinistra politica – il problema religioso perteneva al Dio cristiano: «Non si può pregare un Dio generico», affermò con perentoria sentenziosità [29].
L’avvertimento di un’insufficienza del vivere, da cui ha origine l’intuizione religiosa, deve estrinsecarsi in un «tu»; pertanto, è necessaria un’esperienza intima e personale: sottratto a diatribe di natura politica, sembrerebbe esser questo il nucleo centrale del problema religioso in Quasimodo, «pur nel suo riluttare» – tornando alla interpretazione zinniana – ad un’«adesione aperta a religioni rivelate» [30].
Sempre sul versante della poesia, ma stavolta tra gli scrittori fuori circuito, incontriamo Orazio Napoli, autore mazarese dall’indole solitaria [31] che, ventiquattrenne, andò in cerca di miglior fortuna a Milano, dove lavorò come correttore di bozze per Mondadori, entrando poi a far parte del gruppo dei cappotti lisi, insieme a scrittori e critici di talento, tra cui Leonardo Sinisgalli, Salvatore Quasimodo, Sergio Solmi, Alfonso Gatto, Giuseppe Marotta e Cesare Zavattini. Le sue poesie sono dense di nostalgia per la terra natia, nel segno di un’intensa sensualità e del legame, mai dissoltosi, con il mare [32]. E se Rolando Certa aveva fatto notare che l’umiltà era sempre stata la sua «ambizione» [33], Zinna – sulla traccia di Solmi – ne coglie gli aspetti antiretorici, agli antipodi della maniera, ad esempio, di Luzi, e lo definisce poeta della concretezza per «l’asciuttezza dei suoi versi», la ricerca della «parola precisa e decisa», il «linguaggio prosciugato e comunicabile, che fa leva su un sapiente gioco delle immagini» [34].
Il penultimo dei profili bio-critici della raccolta è dedicato a Castrense Civello [35], come Buttitta poeta di Bagheria, centro particolarmente caro a Zinna, che ivi risiede: amico di Marinetti, aveva fatto parte negli anni giovanili del movimento futurista ed era poi approdato, negli anni Settanta, al Gruppo Beta, che – formatosi «per effetto delle suggestioni del Gruppo 63» [36] – guardava più alla beat generation americana che alla neoavanguardia nostrana, puntando su una ricerca sperimentale non fine a se stessa e manifestando l’esigenza di un rinnovamento del linguaggio nel solco di un neo-umanesimo che coglieva nell’automazione e nella robotizzazione elementi in grado di produrre un potenziamento delle capacità umane [37].
E nel segno delle neoavanguardie, sullo sfondo della Palermo di inizio anni Settanta, tra passione e ideologia, si chiude questo interessantissimo libro di Zinna, che richiama per l’occasione il quaderno di Vittorio Riera su Gruppo 63 e Antigruppo [38], con intervista a scrittori che si muovevano su binari estetici diametralmente opposti: da un lato Salvatore Di Marco, per cui l’operazione letteraria andava considerata «al di là dell’impegno e del disimpegno» [39]; dall’altro Pietro Terminelli, che identificava nel marxismo l’«unico termometro dell’arte» [40].
Resta da dire su due fra i massimi pensatori nel panorama della cultura novecentesca, non solo dell’Isola: Santino Caramella, filosofo e storico della filosofia, genovese di nascita, ma siciliano d’adozione [41], uomo di vastissima cultura, del quale Zinna segnala un importante scritto critico sulla poesia apparso nel 1965 [42], concepito dunque all’interno di una stagione di intenso dibattito per la città di Palermo sulla cultura artistica; e Virgilio Titone, figura di intellettuale poliedrico e non allineato, del quale Zinna ricostruisce la parabola narrativa con grande lucidità, avvertendone e segnalandone la contiguità e il debito col mestiere dello storico [43].
Dalla “storia” alle storie: questo il più che eloquente sottotitolo del capitolo su Titone, che fu non soltanto eminente studioso di storia moderna e contemporanea, ma filosofo della storia attento ai fenomeni economici, sociologo (sebbene questa dimensione un po’ la contestasse, giudicando la sociologia serva della storia) [44]; ancora, pubblicista ed estensore di note di costume, oltre che acuto critico e, appunto, narratore [45].
Le sue molte anime si intrecciarono particolarmente negli scritti sulla Sicilia, con riferimento sia a quelli di taglio storico che agli altri di marca narrativa: Titone fu un osservatore quanto mai acuto della realtà isolana, proprio perché riuscì a compenetrarne le tante declinazioni. Ravvisò nel vittimismo e nell’assenza di imprenditorialità i caratteri peculiari (in negativo) del popolo siciliano, analizzò la questione meridionale, ma ribaltò l’ottica dalla quale osservarla e, coniando la formula di «questione settentrionale», mostrò che il connubio tra malaffare e politica riguardava lo Stivale tutto [46].
Portò sulla pagina letteraria – evidenzia Zinna, curatore dell’edizione postuma de I racconti [47] – una Sicilia che era «ancora quella delle miniere di zolfo e del duro lavoro dei carusi» [48]. E non si può tacere come, a distanza di un secolo dall’esperienza verista, la Sicilia permettesse ancora certi ritratti: Titone fu abile a restituire l’immagine di una terra il cui «elemento archetipico» era ancora il baglio [49], ferma al mondo contadino, più che proiettata verso quella crescente industrializzazione che già dalla metà degli anni Cinquanta interessava la Nazione. Lo fece attraverso una scrittura riflessiva, dai toni pacati eppure «icastica», una scrittura pregna di realismo in cui «dialogano impulso vitalistico e senso della morte» [50].
Ben più profondi attraversamenti potrebbero e dovrebbero compiersi sulla scorta delle Lettere siciliane di Lucio Zinna, per la valenza emblematica delle figure e delle vicende richiamate e offerte a più generale significazione della ricchezza artistica di una terra complessa e travagliata come la Sicilia. Una cosa è certa: chi vorrà misurarsi con queste pagine, certamente ne apprezzerà non solo il valore critico e documentale, ma il rigore e insieme la fluidità di una prosa saggistica che sa andare all’essenza.
Dialoghi Mediterranei, n. 47, gennaio 2021
Note
[1] Lucio Zinna, nato a Mazara del Vallo nel 1938, è stato redattore e direttore di numerose riviste quali “Sintesi”, “Quaderni di Estuario” e “Arenaria”. Ha fondato, inoltre, l’Istituto Siciliano di Letteratura Contemporanea e Scienze Umane.
[2] G. Bufalino – N. Zago, Cento Sicilie. Testimonianze per un ritratto, La Nuova Italia, Scandicci (FI) 1993; poi Bompiani, Milano 2008.
[3] L. Zinna, Lettere siciliane. Autori del Novecento dentro e fuori circuito, Mimesis, Milano-Udine 2019.
[4] Interessante serie di scritti controcorrente diretta da R. Bertoldo e P. Flecchia.
[5] L. Zinna, La parola e l’isola. Opere e figure del Novecento letterario siciliano, Istituto Siciliano di Studi Politici ed Economici, Palermo 2007.
[6] A. Cangemi, rec. a Lettere siciliane, 14 dicembre 2020, online at https://larosainpiu.org/2020/12/14/rinverdire-la-memoria-di-chi-non-piu-memoria-nino-cangemi-su-lettere-siciliane-di-lucio-zinna/.
[7] Nell’ambito della poesia, Zinna ha pubblicato: Il filobus dei giorni (Organizzazione Editoriale, Palermo 1964), Un rapido celiare (APE, Palermo 1974), Sàgana (Il Punto, Palermo 1976), Abbandonare Troia (presentazione di R. Pellecchia, Forum, Forlì 1986), Bonsai (Ila Palma, Palermo 1989), Sàgana e dopo (Cultura Duemila, Castelvetrano 1991), La casarca (La Centona, Palermo 1992), Il verso di vivere (introduzione critica di F. De Nicola, Caramanica, Marina di Minturno 1994), La porcellana più fine (prefazione di R. Di Biasio. Sciascia, Caltanissetta-Roma 2002), Poesie a mezz’aria (LietoColle, Faloppio 2009); Stramenia (con dipinti di E. Petrizzi, L’arca felice, Salerno 2010). Piace ricordare che, oltre che apprezzato poeta e critico, egli è pure romanziere. Per la narrativa ha scritto: Antimonium 14 (prefazione di S. Di Marco, Ausonia, Palermo 1967), Il ponte dell’ammiraglio (Romano, Palermo 1986); Trittico clandestino (Ediprint, Siracusa 1990); Quando bevea Rosmunda (Ausonia, Palermo 2001); Un’estate a Ballarò e altri racconti (Edizione del Giano, Milano 2011). È inoltre autore di Come un sogno incredibile. Ipotesi sul caso Nievo (Giardini, Pisa 1980) e Il caso Nievo. Morte di un garibaldino (Caramanica, Marina di Minturno 2006), resoconti «tra narrazione e inchiesta» della vita e della personalità di Ippolito Nievo, con riferimento alla sua esperienza garibaldina e ai dieci mesi da lui trascorsi a Palermo, fino all’imbarco sull’Ercole.
[8] L. Zinna, Lettere siciliane, cit.: 6.
[9] Ibid.: 5.
[10] Tra le sue opere si segnalano: Sul ponte di Avignone (Ardita, Roma 1938); Signorina Rosina (Macchia, Roma 1956; poi Lerici, Milano 1959); Si riparano bambole (Lerici, Milano 1960); Ravenna (Lerici, Milano 1962); Sinfonia (Lerici, Milano 1966); Pagelle I-II (Il Saggiatore, Milano 1973-75); Giunte e virgole (All’insegna del pesce d’oro, Milano 1975); Rapin e Rapier (scritto postumo a cura di Antonio Pane, Editori Riuniti-Fondazione Antonio Pizzuto, Roma 1998).
[11] Dirigente amministrativo dell’Ospedale Maggiore di Milano, dove lavorò per quarant’anni, scrisse il romanzo-saga Il mondo giovine (Ceschina, Milano 1958; poi a cura di A. Pane, prefazione di S. Zarcone, introduzione di L. Zinna, La Nuova Ipsa, Palermo 2003).
[12] Cfr. L. Zinna, Lettere siciliane, cit.: 14. Si fa riferimento ai volumi che riuniscono il carteggio tra i due scrittori: A. Pizzuto – S. Spinelli, Ho scritto un libro… : lettere (1929-1949), a cura di A. Pane, introduzione di L. Zinna, Nuova Ipsa, Palermo 2001; Iid., Se il pubblico sapesse… : lettere (1951-1963), con una lettera di Pizzuto a F. Fellini, a cura di A. Pane, nota introduttiva di L. Zinna, Nuova Ipsa, Palermo 2003.
[13] Cfr. G. Contini, Nota per l’ultimo Pizzuto, in A. Pizzuto, Ultime e Penultime, Il Saggiatore, Milano 1978: 300-307. Susseguendo a Si riparano bambole (Lerici, Milano 1960), la prova narrativa di Ravenna vide la luce per lo stesso editore nel 1962.
[14] Buttitta, dopo gli esordi con la raccolta Sintimintali (prefazione di G. Pipitone Federico, Sabbio, Palermo 1923) e il poemetto Marabedda (traduzione di G. Ganci Battaglia, prefazione di V.A. Guarnaccia, La Trazzera, Palermo 1927), ha scritto La peddi nova (Feltrinelli, Milano 1963), La paglia bruciata (prefazione di R. Roversi e con una nota di C. Zavattini, Feltrinelli, Milano 1968), Io faccio il poeta (introduzione di L. Sciascia, Feltrinelli, Milano 1972), Il poeta in piazza (Feltrinelli, Milano 1974), Prime e nuovissime (Forma, Torino 1982; raccoglie molti dei suoi primi componimenti), Pietre nere (con un intervento di G. Contini, Feltrinelli, Milano 1983).
[15] L. Zinna, Lettere siciliane, cit.: 32.
[16] Conferito a Quasimodo nel 1959 «per la sua poetica lirica, che con ardente classicità esprime le tragiche esperienze della vita dei nostri tempi».
[17] Cfr. L. Zinna, Lettere siciliane, cit.: 35.
[18] Ibid.: 36.
[19] N. De Giovanni, I due livelli etici della poesia: nel labirinto ‘armonico’ di S. Quasimodo, in Ead., Da Sebastiano Satta a Eugenio Montale. Studi sulla poesia italiana del Novecento, Giardini, Pisa 1984: 76.
[20] Cfr. L. Zinna, Lettere siciliane, cit.: 38-39.
[21] S. Quasimodo, La terra impareggiabile, A. Mondadori, Milano 1958.
[22] L. Zinna, Lettere siciliane, cit.: 39.
[23] S. Quasimodo, Acque e terre, Edizioni di Solaria, Firenze 1930. Per quella che Zinna definisce una «non invadente presenza di una componente religiosa» (L. Zinna, Lettere siciliane, cit.: 41), cfr. le liriche Si china il giorno e Nessuno.
[24] S. Quasimodo, Oboe sommerso, Edizioni di Circoli, Genova 1932. Qui elementi religiosi sono stati riscontrati dalla critica quasimodiana in un manipolo più significativo di testi: Curva minore; Lamentazione di un fratello d’icona; La mia giornata paziente; Metamorfosi nell’urna del santo; Dammi il mio giorno; Amen per la domenica in albis.
[25] Id., Erato e Apollion, Scheiwiller, Milano 1936. Per questa silloge, da richiamare le poesie Primo giorno e Al tuo lume naufrago.
[26] Id., La vita non è sogno, A. Mondadori, Milano 1949, contenente l’altissima lirica Thànatos Athànatos, attraverso cui Quasimodo intese affermare ancora una volta il valore etico dell’eterna ricerca della verità, concependo la bellissima invocazione finale al Dio del silenzio: “La vita non è sogno. Vero l’uomo / e il suo pianto geloso del silenzio. / Dio del silenzio, apri la solitudine”.
[27] N. Zago, Quasimodo. Nel giusto tempo umano, in AA.VV., Rileggere Quasimodo, Atti della Giornata di studi su Salvatore Quasimodo (Modica-Ragusa, 3 dicembre 1996), Centro Studi Rossitto, Ragusa 1988: 48.
[28] S. Quasimodo, Il poeta e il politico e altri saggi, Milano, A. Mondadori 1960: 51.
[29] F. Camon, Il mestiere di poeta, Lerici, Milano 1961: 93.
[30] L. Zinna, Lettere siciliane, cit.: 44]. La questione è affrontata da vicino nel volume “Dio del silenzio, apri la solitudine”. La fede tormentata di Salvatore Quasimodo, che Curzia Ferrari, ultima compagna del poeta, ha pubblicato nel 2008 per la casa editrice milanese Ancora.
[31] S. Mugno, Orazio Napoli: dalla Scapigliatura alla mediterraneità, in Id., Novecento letterario trapanese. Integrazioni e approfondimenti, ISSPE, Palermo 2006: 101.
[32] Nella sua produzione poetica rientrano: Il cadavere innamorato (Istituto Editoriale Nazionale, Milano 1929); Poesie. Con un saggio sulla poetica di Jacopone da Todi (Edizioni Primi Piani, Milano 1940); Notte, legame, mare (collana «Lo Specchio», Mondadori, Milano 1956); Occhi a terra (Editrice Lombardo-Veneta, Venezia 1964); Smarrimenti (Libreria Cavour, Milano 1968); Le ambizioni moderate (con pitture di C. Bissoni, Edizioni del Naviglio, Milano 1969). Postumo è uscito, a cura di Lorenzo Greco e Salvatore Mugno, il volume di Poesie scelte (Istituto Euro Arabo di Studi Superiori, Mazara del Vallo 2005).
[33] R. Certa, La condizione umana di Orazio Napoli, estr. da “Trapani”, XV, 9 (1970): 4.
[34] L. Zinna, Lettere siciliane, cit.: 58.
[35] Di cui ricordiamo almeno Aria madre: glorificazione dell’aviazione italiana in versi liberi e parole in libertà (Edizioni futuriste di poesia, Roma 1941); Il pilota sconosciuto (Società Editrice Siciliana, Mazara del Vallo 1947); e il volume postumo delle Lettere sul futurismo (a cura di A. Russo, ISSPE, Palermo 2015)
[36] L. Zinna, Lettere siciliane, cit.: 98.
[37] Ibid.: 100.
[38] V. Riera, Gruppo 63 e Antigruppo. Un frammento di memoria rivoluzionaria, ILa Palma, Palermo 2012.
[39] L. Zinna, Lettere siciliane, cit.: 114.
[40] Ibid.: 110.
[41] Dal 1950 al 1972, anno della scomparsa, fu docente nell’Università di Palermo, dove ereditò la cattedra che era stata di Giovanni Gentile. Compresa nel Dizionario dei pensatori e dei teologi di Sicilia. Secc. XIX e XX (Sciascia, Caltanissetta-Roma 2010, vol. II: 472b-483b), è apparsa una scheda bio-bibliografica su Santino Caramella, a firma di Francesco Armetta, già allievo del filosofo, segretario della Pontificia Facoltà Teologica di Sicilia e curatore dell’imponente progetto rappresentato dal Dizionario, articolato in diciotto volumi complessivi, dall’antichità ai giorni nostri.
[42] Cfr. S. Caramella, L’atto estetico e la coscienza profonda, “Il Baretti”, VI, 31-32 (1965): 91-100; poi a stampa negli Atti del V Convegno Internazionale di Estetica (Amsterdam 1964), The Hugue, Amsterdam 1968: 74-77; infine. riproposto nel volume postumo Coscienza della poesia (a cura e con un saggio di F. Armetta, Grispo, Palermo 2000).
[43] Già docente di Lettere nei Licei, fu poi incaricato dell’insegnamento di Lingua e Letteratura spagnola nella Facoltà di Magistero, quindi titolare della cattedra di Storia moderna nell’Università di Palermo. Spirito antidogmatico, libero, controcorrente, avversò e rifuggì sempre ogni forma di accademismo.
[44] Cfr. V. Titone, Storia e sociologia, La Nuova Italia, Firenze 1964.
[45] Cfr. Id., La Sicilia e la questione settentrionale, Sciascia, Caltanissetta-Roma 1983.
[46] Id., I racconti, a cura di l. Zinna, Novecento, Palermo 1998.
[47] Id., Storie della vecchia Sicilia (Mondadori, Milano 1971); Le notti della Kalsa di Palermo (Herbita, Palermo 1987; poi a cura di L. Zinna, Novecento, Palermo 1998); Vecchia e nuova Sicilia (Herbita, Palermo 1989).
[48] Id., La fuga, in I racconti, cit.
[49] Id., L’odio, in I racconti, cit.
[50] L. Zinna, Lettere siciliane, cit.: 80. Ne Le notti della Kalsa si osserva forse il realismo più crudo: i personaggi non sono frutto della fantasia dell’autore, non appartengono alla finzione. Fittizi sono solo i nomi, ma gli uomini che dietro essi sono adombrati e le situazioni attraverso le quali sono osservati sono cavati dalla cronaca quotidiana. Le loro frustrazioni, come le loro speranze, sono autentiche.
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Rosario M. Atria, dopo la laurea magistrale con lode in Letteratura all’Università “La Sapienza” di Roma, ha conseguito il dottorato di ricerca in Italianistica presso l’Università di Palermo. Dal 2014 è, presso lo stesso ateneo, cultore di Letteratura italiana. Autore di studi sulla poesia italiana del Due-Trecento, sul romanzo storico, sulla lirica leopardiana, sulla narrativa del secondo Novecento e del Duemila, si interessa anche di storia e letteratura archeologica della Sicilia e di questioni mediterranee. Dal 2017 è Presidente della Società Dante Alighieri di Castelvetrano e promotore di molteplici attività culturali. Ha redatto diverse voci per il Dizionario enciclopedico dei pensatori e dei teologi di Sicilia. Dalle origini al sec. XVIII, edito nel 2018 in dodici volumi, a cura di F. Armetta, per i tipi dell’editore Sciascia. Tra il 2018 e il 2020 ha curato, insieme a I.T. Ginevra, per la collana “Gli Introvabili” de I Buoni Cugini Editori, la pubblicazione di diversi romanzi storici. Dal 2019 è direttore per Lithos, insieme a G.L. Bonanno e F.S. Calcara, ed editor-in-chief di «Tρισκελής. Collana mediterranea di storia, letteratura e varia umanistica», progetto editoriale che ha contribuito a fondare.
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