di Claudio Rosati
Si vuole che se Tolstoj stesse di fronte a casa nostra converrebbe rileggere Guerra e Pace, ma non cercare di conoscerlo. Il detto sapienziale sintetizza il significato del valore dell’autonomia o della preminenza dell’opera rispetto alla biografia dell’autore. Ma come tutti i motti ha una verità parziale. Nel mio caso il libro da rileggere sarebbe Oggetti, segni, musei (anche se l’ho già fatto) e l’autore da cui rimanere distante Alberto Mario Cirese [1]. Non ho frequentato lo studioso ma l’ho incrociato nel corso degli anni in modi diversi. Mi sembra di non imbattermi nei parametri della volgarità in cui sarebbe incorso per Nabokov chi si fosse immischiato «nelle vite preziose dei grandi scrittori», se ripercorro questi incontri. Parlano in qualche modo del rapporto tra biografia e opera.
Il primo appuntamento a distanza con Cirese è per un incidente giornalistico che, nel ripensarlo ora, mi rendo conto di averlo del tutto rimosso. Agli inizi degli anni ’80, una rivista di divulgazione culturale e di turismo che si vuole, se non colto, diverso da quello corrente, mi chiede un articolo sui musei etnografici in Italia. L’articolo viene pubblicato, ma togliendo le virgolette a una citazione diretta di Cirese. A Lèvi- Strauss, la redazione ha voluto aggiungere “antropologo”. Ormai il danno è fatto e a poco servirebbe prendersela con l’insipienza dei redattori che così facendo hanno pensato di semplificare, facendo un cattivo servizio alla divulgazione che già non gode di buona fama. Scrivo a Cirese, che naturalmente non mi conosce e che difficilmente comunque avrebbe potuto leggere l’articolo, spiegando che cosa è successo e chiedendo scusa. «Gesti come i suoi sono rari come una stella alpina», mi risponde con una cartolina postale.
Poco dopo, questa volta è nel 1983, mi trovo nuovamente a scrivere a Cirese. Dirigo “Farestoria”, la rivista dell’Istituto Storico Provinciale della Resistenza di Pistoia, che ha deciso di dedicare un numero all’Appennino Pistoiese. Per i pistoiesi l’Appennino è un misto di cattiva coscienza e di esotico in casa, nonostante che la montagna abbia sempre costretto la pianura a guardare verso di lei e non viceversa. Si è previsto, oltre a quello di Cirese, il contributo di un demografo, di uno storico modernista e di una linguista. A Cirese chiediamo un intervento su Niccolò Tommaseo e la Gita nel Pistojese. Pubblicato nel 1832 sull’Antologia di Gian Pietro Vieusseux, il testo, per opinione dello stesso Cirese, si può considerare il «primo diario italiano di rilevazione sul campo», ma anche la fonte che ha dato il via al mito, ancora prolifico, di Beatrice Bugelli. La pastora analfabeta di Pian degli Ontani ha alimentato una singolare lunga durata di un romanticismo con moderni rivoli folk e neoruralistici [2]. In questo senso andava il nostro interesse alla Gita. Cirese risponde positivamente e, sinceramente, non ce l’aspettavamo per gli impegni che potevamo presumere avesse. Il nostro era partito come un tentativo. Ma l’autore corregge il nostro spettro, lo amplia e ci porta a guardare dove non pensavamo.
«Quando ci si occupa di Tommaseo come studioso di poesia popolare italiana, – esordisce – l’attenzione spesso si limita ai Canti toscani del 1841. Restano invece in ombra i precedenti approcci tommaseiani, dei quali in genere si giudica solo per ciò che Tommaseo stesso ne dice, più o meno fedelmente, nella prefazione del 1841. A meglio cogliere il senso delle manifestazioni maggiori sembra viceversa opportuno volgere innanzi tutto l’attenzione agli episodi e agli scritti popolaristici che risalgono agli anni 1830-32. Ed è quanto qui appresso si tenta» [3]. Ci consegna così un saggio generoso quanto imprevisto.
Una generosità accompagnata da un’impuntatura, ricordo, nella correzione della bozza perché le note a piè di pagina, secondo la forma scelta dalla rivista, non gli sono gradite. Cirese conclude il saggio segnalando la necessità di un più attento esame di «quanto e come e con quali risultati le modalità costruttive dell’immagine del popolo e della poesia popolare proposte e attuate da Tommaseo abbiano agito o si siano atteggiate lungo la storia dei nostri studi demologici, fino al primo volume dei Canti popolari del Molise di Eugenio Cirese (1953) o al Canzoniere italiano (1955) di Pier Paolo Pasolini» [4].
«Ne potrà derivare – aggiunge – anche una più esatta (e meno agiografica) collocazione storica dell’opera popolaristica di Tommaseo: di una personalità e di un’ideologia che hanno lungamente agito nei nostri studi demologici, ora aprendo e stimolando, più spesso chiudendo e frenando, con quella stessa ambiguità che attrae e respinge anche in tutto il resto della produzione tommaseiana» [5]. Di Beatrice di Pian degli Ontani, che di fatto aveva mosso in qualche modo la nostra richiesta per la pregnanza territoriale che ha la poetessa pastora, l’autore riprende e fa proprie le riserve con cui Michele Barbi «ridimensionò mezzo secolo di ulteriori entusiasmi (…) indotti e propagati da quelli tommaseiani» [6].
Lo incontro poi, ma a distanza, il 22 febbraio 2003 a Terranuova Bracciolini – «la capitale toscana degli studi demologici», la definisce in quella occasione Pietro Clemente – per la presentazione di un libro di Dante Priore nel quadro di una società che ha radicato lo scambio oralità e letteratura per secoli e dove l’analfabetismo non ha fatto strame dello scritto. Pasolini guardò con fastidio la poesia popolare toscana perché troppo vicina alla tradizione rinascimentale. Cirese parla ampiamente nel dopocena. Sembra di trovarsi a suo completo agio in quella periferia dove, da anni, Dante Priore, insegnante di lettere in pensione, ricerca e raccoglie testi della tradizione orale.
Rivedrò Cirese a Pistoia quando tornerà sull’ argomento tommaseiano con la lectio magistralis che terrà nella Sala Maggiore del Palazzo Comunale di Pistoia in occasione dell’inaugurazione del festival Tradizioni e oltre che si apre nel 2003 e declina, per mancanza di risorse, pochi anni dopo, ma anticipando in qualche modo il più robusto e glamour Dialoghi sull’uomo. Festival dell’antropologia. Voluto e interamente sostenuto dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia, la manifestazione dei Dialoghi si inserisce, con un sapiente dosaggio di personaggi noti al grande pubblico e di testi appena usciti, nel fenomeno dei festival che si sviluppa a seguito del successo di quello della letteratura a Mantova.
Nella cena, che segue la lezione al ristorante Lottini, insieme a Giovanni Capecchi, assessore agli Istituti Culturali nel Comune di Pistoia, Cirese si concede volentieri alla conversazione. Si parla di politica e di musei e spiazza su entrambi i campi. Per la politica sono le delusioni dei partiti della sinistra storica a tenere banco, ma è sul museo che si trova un Cirese inaspettato. Quello dei musei etnografici è un tema ancora caldo. In Toscana, in quel periodo (2000-2004), in un’epoca abbastanza distante dalla fine della mezzadria, ne nascono diciannove [7]. Il caso specifico è, invece, quello di un museo alle prese con la difficile relazione tra il sapere e le estetiche comunitarie e il sapere del museologo. Il teorico del metalinguaggio e degli obiettivi analitici del museo non ha dubbi nel rispetto della cifra nativa. È il periodo del primo saggio espositivo permanente del museo Alfredo Majorano che Cirese ha seguito nella lunga gestazione fino a diventarne direttore. Si avverte la pressione della vicenda umana sull’avventura museografica.
Sempre di quel periodo è l’incontro di Cirese, insieme a Pietro Clemente e Gianfranco Molteni, con il Museo della Mezzadria Senese a Buonconvento. «Il museo locale deve (…) ricostruire il tessuto in cui gli oggetti si connettono gli uni con gli altri e con il resto della vita familiare e sociale. Non gli importa la categorialità degli oggetti, i vasi con i vasi e le zappe con le zappe (…). Parrà forse che qui dica cosa in contrasto con quanto sostenni nel 1967, nel saggio iniziale della mia esperienza museografica, e cioè che il museo demologico non deve rifare il verso alla vita» [8]. Lo spiazzamento di quella serata pistoiese era dato da un mio limite. Invece di guardare alla persona lì presente con cui avevo conversato fino ad allora di musei, guardavo solo ai suoi libri. Di fatto essenzializzavo il suo pensiero facendone qualcosa di immobile. Allo stesso tempo dimenticavo quello che aveva scritto della museografia spontanea come riflesso dei prezzi pagati nel passaggio a condizioni di vita migliori e dimenticavo il dibattito con Pietro Clemente sul razionalismo museografico [9]. «La visita di oggi – aggiungeva Cirese, a proposito di Buonconvento – mi porta a chiarire meglio questo punto del rapporto con la vita: no a ‘rifarle il verso’ (…) e sì invece al rappresentarla»[10]. Resta comunque fondata l’impressione ricevuta, in quella serata primaverile, nell’ascoltare le parole di Cirese a proposito di una vetrina messa insieme da un collezionista contadino. Mi sembra che il caso fosse questo.
«I musei nascono dall’intelletto, ma non se manca il cuore ad animarli», dirà nel 2004 nel ricevere il premio “Museofrontiera” assegnatogli dalla Società italiana per la museografia e i beni demoetnoantropologici.
Dialoghi Mediterranei, n. 50, luglio 2021
Note
[1] A. M. Cirese, Oggetti, segni, musei. Sulle tradizioni contadine, Torino, Einaudi editore, 1977.
[2] A. M. Cirese, Dall’Arno alla Lima. Tommaseo e la poesia popolare tra il 1830 e il 1832, in “Farestoria”, 1984, n.2: 12. In nota pubblica questa postilla sull’origine del saggio: «Appunti di lavoro fin qui solo poligrafati (1981: 122-149) nei quali riprendo con liberi adattamenti – ma senza i pur necessari supplementi di indagini storiche e bibliografiche – quanto ebbi a scrivere in un ciclostilato che accompagnò un corso di lezioni a Cagliari (1960-61), e quanto mi risulta da appunti e schede che ritrovo tra i materiali che servirono alla realizzazione del quasi inedito Repertorio Tommaseo, ed alla non realizzata Edizione Nazionale dei quattro volumi dei Canti popolari toscani corsi illirici e greci. Utilizzo anche una nota del 1976». In bibliografia il riferimento al testo del 1981 è: Mondo culto e mondo popolare dal ‘400 all’800, corso 1981-82 a c. di S. Puccini, Univ. di Roma, Fac. di Lettere e Filosofia, aa. 1981-82.
[3] A. M. Cirese, Dall’Arno alla Lima (…), cit: 3.
[4] Idem: 18.
[5] Ibidem.
[6] Idem: 14. Per il riferimento a Barbi, Cirese cita M. Barbi (1895): Poesia popolare pistoiese, Nozze Bacci – Del Lungo, Firenze, 1895. In nota rileva come le stesse riserve sulla poetessa fossero state espresse da D’Ancona: D’Ancona, A. (1878), La poesia popolare italiana: Studj, Livorno, 1878. Su Beatrice di Pian degli Ontani si veda, anche per la bibliografia aggiornata alla data, C. Rosati, Beatrice Bugelli di Pian degli Ontani, Pistoia, Brigata del Leoncino, 2001.
[7] Il dato è tratto dalla banca dati della Regione Toscana: www.regione.toscana.it/-/musei-della-toscana Sul fenomeno dello sviluppo dei musei demoetnoantropologici si veda C. Rosati, Musei, cose, persone, in Musei Dea. Pratiche e metodologie, Giornata di studi dedicata a Carlo Poni, Atti del Convegno, 22 giugno 2019, Bentivoglio, Museo della Civiltà Contadina, 2020: 28-36.
[8] A. M. Cirese, In limine, P. Clemente, G. Molteni, Alberto Mario Cirese. Beni volatili, stili, musei. Diciotto altri scritti si oggetti e segni, Prato, Gli Ori, 2007: 10-11.
[9] Si veda i beni demologici in Italia e la loro museografia, in P. Clemente, G. Molteni, Alberto Mario Cirese. Beni volatili, stili, musei (…), cit.: 67-78.
[10] Idem: 11.
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Claudio Rosati, autore di musei, saggista e docente di Antropologia museale e Comunicazione dei Beni Culturali in corsi universitari. Presiede il collegio dei probiviri dell’International Concil of Museum-Comitato italiano ed è socio fondatore della Società Italiana per la museografia e i Beni Demoetnoantropologici. Ha diretto il settore Musei della Regione Toscana. Ha pubblicato recentemente presso i tipi di Edifir, Amico Museo. Per una museologia dell’accoglienza.
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