Stampa Articolo

Storie di corpi in fiamme: «We Mourn Our Loss»

copertina-le-ultime-cose-dopo-lincendio

Le ultime cose dopo l’incendio

di Flavia Schiavo

In un’agghiacciante immagine d’archivio, in bianco e nero, scattata da un anonimo reporter, tre uomini, vigili del fuoco e agenti di polizia in una strada di Manhattan, tengono tra le mani alcuni cesti di vimini, illuminati da una luce radente. Dentro, solo oggetti appena raccattati: gioielli di poco conto, borse, minuscole scatole per il lunch, alcune monete, qualche dimes, buste paga [1]. Tracce, frammenti di esistenze ormai carbonizzate, cose, quasi prive di valore materiale, forse lacere, forse coperte di nerofumo, briciole da trasportare all’obitorio del molo sulla 26th Street, utili unicamente, oramai, per identificare qualcuno tra i morti senza nome dei 146, in gran parte donne, appena periti nel rogo violento e rovinoso che risparmiò solo pochissimi.

 Poiché l’obitorio della città era troppo piccolo per contenere il gran numero di vittime dell’incendio, l’estremità del molo della stessa strada che ospitava il morgue fu trasformata in obitorio temporaneo. Migliaia di persone si radunarono lì prima ancora dell’arrivo delle ambulanze, aspettando per tutta la notte e durante il giorno successivo, identificando, al termine di un’attesa estenuante e dolorosa, i propri morti, corpi carbonizzati adagiati sul selciato della banchina, prossimi all’East River, riconosciuti grazie a un anello, una calza rammendata, un brandello di abito.

Pochi i superstiti, tra essi Rosenfeld Freedman o una giovane di origine italiana, quasi diciannovenne al momento del disastro: Pasqualina Russo. Imbarcatasi a Napoli, Pasqualina, nata a S. Martino d’Angio e giunta a NYC il 31 ottobre del 1903, sopravvisse saltando dal tetto dell’edificio in fiamme al tetto di quello adiacente e fu tra i pochi in grado di raccontare quell’esperienza tanto orribile e toccante.

Erano le 4.45 di un pomeriggio di inizio primavera, il 25 marzo del 1911. Era un sabato newyorkese, poche ore prima della chiusura della fabbrica, quando un mozzicone di sigaretta – forse gettato tra i resti infiammabili di stoffe e scampoli, residui di produzione sartoriale e tessile – generò una scintilla da cui divampò d’improvviso un fuoco omicida.

La Fabbrica dove scoppiò il terribile incendio era la Triangle Shirtwaist Factory, tra l’ottavo e il decimo piano dell’Asch Building, un “blocco” d’angolo di 10 piani a Manhattan, a Washington Place, prossimo al Greenwich Village, edificato utilizzando materiali ignifughi. L’Asch, ancora esistente, noto come Brown Building, è oggi sede della NYU.

Proprietari della redditizia fabbrica tessile erano Max Blanck e Isaac Harris, noti come i “Kings Shirtwaist” [2], emigrati negli Stati Uniti, provenienti dalla Russia, “padroni” che avevano fatto fortuna producendo camicette nello stile “Gibson girl” (dal nome del suo inventore che aveva creato un “tipo umano” femminile – una sorta di “habitus” weberiano – che influenzò la società degli inizi del XX secolo in America) e incrementando i profitti anche grazie allo sfruttamento del lavoro minorile e a una strenua resistenza alle azioni di Associazioni come l’International Ladies’ Garment Workers’s Union, che puntavano a tutelare i lavoratori e soprattutto le lavoratrici sia con pratiche capillari e continue interne alle fabbriche, sia attraverso alcuni grandi scioperi, come quello tenuto a NYC tra il 22 novembre del 1909 e il 15 febbraio del 1910, in una stagione di lotte di un anno precedente al disastro newyorkese del 1911.

1-lasch-nel-1911

L’Asch nel 1911

Quel lungo sciopero indetto da ventimila camiciaie che rivendicavano e chiedevano differenti orari, migliori condizioni, salario più alto, ebbe una simbolica quanto concreta conclusione in una assemblea di tremila donne che, alla Carnegie Hall, celebrarono la domenica successiva, il 27 febbraio 1910, il secondo Woman Day’s americano. Clara Lemlich, ucraina di origine ed emigrata negli States nel 1903, ebbe, ad appena 23 anni, una posizione preminente nel Women’s Labor Movement. E, specificamente durante lo sciopero delle camiciaie fu in prima linea, affinché la rivolta producesse risultati, finalizzati a una riforma delle inaccettabili condizioni del lavoro industriale.

«I am a working girl», proclamò Lemlich, aggiungendo: «One of those who are on strike against intolerable conditions. I am tired of listening to speakers who talk in general terms. What we are here for is to decide whether we shall strike or shall not strike. I offer a resolution that a general strike be declared now» . Dopo aver ottenuto l’unanime ed entusiasta approvazione delle compagne di lotta, Clara e le altre fecero un giuramento Yiddish che diede un valore quasi “sacro” alla lotta che stavano intraprendendo, affermando all’unisono:

2-lasch-oggi-1

L’Asch oggi

«If I turn traitor to the cause I now pledge, may this hand wither from the arm I now raise». Clara, come moltissimi altri migranti, iniziò a lavorare in fabbrica: 11 ore al giorno, 6 giorni la settimana, con un salario iniziale di 3 dollari alla settimana, condizioni che riducevano, come lei stessa affermava a soli 17 anni, allo stato di macchina. Dopo una breve esperienza lavorativa, Clara si unì all’Executive Board del ILGWU, l’International Ladies’ Garment Workers’ Union, quale perno teorico e quale concreto supporter, in prima linea, in piazza fronteggiando la polizia spesso armata contro i rivoltosi.

Lo sciopero delle 20 mila camiciaie fu seguito da altri momenti determinanti. Tra essi il Cloakmakers’ Strike, la grande rivolta del 7 luglio del 1910 che vide in campo 60 mila lavoratori. La lotta portò ad alcune conquiste, tra esse una settimana lavorativa di 50 ore, retribuzioni straordinarie e ferie. Samuel Gompers, leader della American Federation of Labor, lo definì «più che uno sciopero, una rivoluzione industriale» in quanto per la prima volta il sindacato conquistò una posizione contrattuale, aprendo un dialogo con l’industria tessile, nel determinare i diritti dei lavoratori. Lo stesso Gompers in un comunicato del maggio del 1911 dell’American Federationist, espresse in modo netto quanto l’avidità, la disumanità e la illegalità, malgrado le azioni del Sindacato, allignassero. Gompers si riferì alle condizioni dei lavoratori come «un omicidio lento attuato attraverso la sottomissione». Il sovraffollamento, la cattiva ventilazione rimandavano, secondo l’attivista, a quelle condizioni già raccontate in un volume che aveva fatto scalpore, The Jungle, del 1906, in cui Upton Sinclair aveva descritto le macellerie di Chicago.

5-clara-lemich

Clara Lemich

Erroneamente, dunque, si riconnette e in maniera diretta l’istituzione del giorno della donna, oggi festa globalizzata e celebrata l’8 marzo, alla catastrofe del 25 marzo del 1911. Pur avendo avuto un ruolo, il tragico evento fu solo uno degli episodi che, inseriti in un lungo e faticoso processo sociale e culturale – percorso eminentemente “urbano” perché connesso all’industrializzazione, al fenomeno migratorio, alla differente realtà sociale che le città sperimentavano e alla stessa influenza delle città nella formazione dei Partiti politici, dei Sindacati, delle Associazioni, e alla modificazione dei comportamenti femminili rispetto alla consuetudine atavica – determinarono l’inizio della trasformazione dei rapporti tra il maschile e il femminile e l’istituzione rituale di un giorno tanto importante e densamente paradigmatico, realmente significativo solo se concreta testimonianza di un cambiamento, sia oggi, sia soprattutto in quella fase storica in cui la donna era ancora “pensata” e purtroppo quasi sempre “agita” come co-dipendente e sottomessa al potere maschile, spesso autoconfermativo e sordamente violento. Una lunga battaglia, gravida di nodi irrisolti e costellata da resistenze malgrado la presenza sin dagli albori, di figure come Emmeline Pankhurst, Rosa Luxemburg, Clara Eissner Zetkin o Corinne Brown. Donne che oltre la scrittura e la teoria o la “parola” nelle Assemblee vissero la propria vita quale esempio realizzato delle teorie socialiste.

Già nel 1907, infatti, durante il VII Congresso della II Internazionale Socialista, iniziò ad essere affrontato il nodo appena emerso relativo alla questione femminile fortemente interconnesso con l’estensione del voto alle donne. Durante quel Congresso si votò, unanime, una risoluzione che sancì l’impegno dei partiti socialisti per ottenere il suffragio universale: conta, infatti, chi votando può scegliere partecipando alla costruzione sociale quale processo eminentemente democratico. Nello stesso anno, il 26 e il 27 agosto, fu tenuta una Conferenza Internazionale delle donne socialiste; presenti 58 delegate da 13 Paesi, venne creato un Ufficio di informazione. Fu eletta segretaria la già citata tedesca Clara Eissner Zetkin, direttrice della rivista Die Gleichheit che divenne l’organo di informazione, diffusione e scambio delle donne socialiste.

Il primo Women Day’s, però, fu celebrato il 28 febbraio del 1909, proprio negli Stati Uniti, in onore di un altro grande sciopero operaio tenuto a New York, già in quella fase la città più popolosa d’America: nel 1910, anno in cui giunse una enorme quantità di migranti, la metropoli ospitava 4.766.883 abitanti distribuiti nei 5 Distretti, alcuni dei quali, Brooklyn e i Queens, accoglievano vive e ampie comunità etniche, tra cui moltissimi italiani.

Durante quella stagione di rivendicazioni e in quella città multietnica e progressista molte manifestazioni furono guidate da donne che, senza alcuna paura dello schiacciante potere dei Capitalisti e dei loro modelli sperequativi, esprimevano un esplicito e chiaro dissenso contro le condizioni di lavoro nelle fabbriche, opponendosi al lavoro minorile doppiamente iniquo.

4-max-blanck-isaac-harris-i-_padroni_

Max Black e Isaac Harris, i padroni

La necessità di fissare stabilmente un giorno “per e delle Donne” fu ribadito nel 1910 durante una ulteriore conferenza internazionale a Copenaghen, dalla socialista tedesca Luise Zietz che affermò quanto fosse importante l’istituzione di una ricorrenza annuale dedicata al valore della lotta e all’impegno delle donne di tutto il mondo. Il 19 marzo del 1911 un milione di persone, infatti, firmò un documento, in Austria, Danimarca, Germania e Svizzera, designando quella data come il Women Day’s, esigendo eguali diritti, economici ed educativi, ed esprimendosi contro la discri- minazione di genere. La ricorrenza iniziò ad essere celebrata in numerose parti del mondo industriale, le donne russe scelsero l’ultima domenica di febbraio, nel 1913. E solo dal 1914, con alcune eccezioni, il Women Day’s si tenne l’8 marzo, unicamente perché domenica, infatti nessuna protesta o sciopero ebbe luogo quel giorno.

Il disastro del 25 marzo 1911, allora, oltre ad essere per forza di cose collegato alle lotte femministe o protofemministe, va messo in relazione con le lotte compiute dai lavoratori soprattutto in contesti come quelli americani, sia urbani che non, dove i Sindacati e le Associazioni in difesa e tutela dei diritti dei lavoratori avevano un ruolo meno forte che in altri contesti europei, ad esempio in Gran Bretagna.

L’enorme risonanza si ebbe perché quello del 25 marzo fu il disastro più grave che avesse riguardato sin allora il mondo industriale in tutta l’area del Capitale costituita dall’Europa industrializzata e da quella porzione degli States già fortemente produttiva e perché molti dei morti erano ancora quasi dei bambini. In quel micidiale giorno perirono, nonostante l’intervento dei vigili del fuoco della Ladder Company che giunsero venti minuti dopo l’allarme, 123 donne e 16 uomini, tutti giovanissimi [3]. Molti provenivano dalla Russia (probabilmente perché entrambi i proprietari della fabbrica erano originari della stessa Nazione) [4], altri dall’Italia, dall’Irlanda, dalla Polonia, dalla Germania, dall’Austria e persino dalla Jamaica e, nell’insieme, rappresentavano, per così dire, un emblematico campione delle etnie presenti a NYC in quegli anni, con esclusione degli asiatici. Alcuni di essi, come Max Florin o Morris Bernstein (approdato negli Usa da soli 18 mesi), appartenevano alla comunità ebraica, ma erano nati in Russia; ventitreenne il primo e diciannovenne il secondo, erano entrambi membri del Sindacato, così come Dora Evans, una diciottenne, anch’essa di origine russa, cittadina americana da quattro anni.

Tra le siciliane, due giovanissime, Gaetana Midolo, giunta a NYC nel 1906, si era imbarcata a Napoli, ma era originaria di Noto e Michelina Nicolosi (immatricolata come Michela nel Register dei records di Ellis Island). Michelina era arrivata a NYC solo due anni prima, nemmeno il tempo di respirare davvero l’aria newyorkese, in quegli anni la città esplodeva, o di capire cosa fossero gli Skyscrapers che stavano sorgendo e che rendevano la “sua” New York tanto ma tanto diversa da Bisacquino, la patria così distante. È lecito immaginarla mentre osserva guardinga ed eccitata, occhi al cielo, verso Downtown le punte svettanti, alte più di 200 metri, quasi come una collina di “casa”, che definivano quello skyline che già dal 1908, soli tre anni prima della sua morte, si fregiava di torri scintillanti, dove lei non salì mai: tra queste la Singer Tower del 1908, alta 186 metri, di Ernest Flagg o la Metropolitan Life Tower del 1909, alta 213 metri, di Napoleon LeBrun & Sons, la torre con l’orologio e la cupoletta dorata e scintillante in sommità, così simile a un campanile di una chiesa, in affaccio su Madison Square e quindi molto vicina al luogo dell’incendio.

La più anziana tra le vittime della Triangle Factory, invece, era un’altra italiana di origine, Provvidenza Panno, aveva 43 anni, mentre le più giovani avevano solo 14 anni. Due adolescenti, una, Rosaria detta “Sara”, Maltese, da pochi anni a NYC (arrivata il 3 agosto 1907 con la motonave Francesca) e imbarcata a Palermo per il viaggio intercontinentale, era italiana e nativa di Marsala. Tra le altre giovani, una, Josephine Cammarata aveva solo 17 anni, anch’essa nata in Italia abitava a NYC da due anni e, fidanzata, attendeva di sposarsi; il matrimonio era stato fissato per la Domenica di Pasqua che sarebbe arrivata dopo pochissimi giorni dal disastro, il 16 di aprile.

3-migrante-italiana-worker-del-settore-tessile

Migrante italiana worker del settore tessile

Lei, con la sua vita spezzata, come i suoi “compagni” era costretta a lunghe ore di lavoro, bassissime retribuzioni, oppressa da un lavoro disagevole: oltre ai turni lunghi di produzione con pochissime soste intermedie, anche le condizioni della sala, adibita alla fattura delle ambite e graziose camicette, erano difficili: quella del nono piano, ad esempio, era sovraffollata di operai, circa 240 (ciò accadeva perché non vi erano leggi che limitassero il numero di operai per piano; infatti approssima- tivamente quel giorno erano presenti circa 700 persone nei tre piani, di cui 600 donne). I lavoratori, dunque, seduti lungo stretti e continui tavoli da lavoro che occupavano quasi interamente la stanza, soffrivano per le scarse possibilità di movimento e spostamento.

I due “padroni”, inoltre, adottando una consuetudine alla quale era difficile opporsi, nonostante la incisività delle associazioni in difesa dei workers e a causa della forte sperequazione tra le differenti categorie sociali, avevano chiuso a chiave le porte interne che separavano le varie porzioni dell’edificio, nei tre piani adibiti a fabbrica. Tali porte da un lato avevano il ruolo di fungere da linea taglia fuoco, dall’altro di consentire, qualora fosse risultato necessario, la rapida evacuazione dell’edificio. Ma Max Blanck e Isaac Harris attenti solo al massimo profitto e consapevoli di quanto fossero scarse le sanzioni che avrebbero pagato in caso di “errore”, chiudendo le porte garantivano la diminuzione delle pause che le operaie e gli operai avrebbero potuto prendersi (magari per fumare una sigaretta), durante l’orario di lavoro.

Gli operai, quindi, dovevano fare i conti con una elevata quantità di rischi e una bassissima possibilità di scelta. Lavorare secondo le condizioni imposte era quasi l’unica scelta per sopravvivere. Spesso i pochi soldi guadagnati erano il solo sostentamento per famiglie numerose. Inoltre, se un operaio avesse chiesto anche solo un giorno di permesso per cercare un altro lavoro, il “boss” non avrebbe esitato a licenziarlo tenendolo, così, come tutti i workers in condizioni di ricatto psicologico oltre che di disagio fisico.

Le stanze delle fabbriche erano sovraffollate, scarsa ventilazione, caldo soffocante, freddo glaciale, pochissime latrine. L’Asch come quasi tutti gli edifici adibiti a luoghi di produzione, pur essendo costruito secondo alcune norme dettate dal New York City Fire Department, non rispettava irequisiti minimi. I piani adibiti alla fabbricazione delle bluse erano pieni di oggetti infiammabili, in primo luogo le camicette appese in corde tese sopra le teste dei lavoratori o le balle di stoffa, lino e cotone, sul pavimento. Tutto questo si tradusse, quel 25 marzo, nella rapidissima diffusione del fuoco. La scala antincendio, l’unica, era fuori norma e fragile e non resistette al carico delle persone in fuga cosi tanto numerose, mancavano gli estintori, le trombe delle scale di accesso e distribuzione interna erano poco illuminate e troppo strette.

6-workers-alle-macchine-da-cucire

Workers alle macchine da cucire

Molte le testimonianze [5], tutte straordinariamente toccanti, alcune registrano la vicenda dall’esterno: gente affaccendata per strada, un reporter di passaggio, persone che vivevano nelle vicinanze e che avevano con le operaie un rapporto quotidiano, quelle stesse persone inorridite videro infuriare il rogo, videro i corpi in fiamme precipitare dalle finestre, ascoltarono le urla. Ognuno di quegli uomini e donne bruciati aveva una storia, un futuro, dei progetti, figli piccoli, una casa…. Altre voci, invece, quelle dei sopravvissuti, tra queste una che narra di aver scorto scoccare la scintilla da un cesto sotto uno dei tavoli da lavoro, dove erano stati impilati più di cento strati di tessuto pronti da tagliare. Il fuoco divampò in fretta anche per la carta velina usata per i modelli, non solo fortemente infiammabile, ma leggera. Leggere fluttuanti ali di fiamma che scatenarono la moltiplicazione del fuoco. Gli ascensori per l’alta temperatura si bloccarono, molti operai, ammassati sul pianerottolo stretto, furono schiacciati da altri che cercavano di scendere, forzando le porte chiuse a chiave. I proprietari, Max e Isaac, e le loro famiglie riuscirono a scendere in un ascensore prima che questo si bloccasse per la temperatura. Inoltre quando si tentò di rimandare gli ascensori ai piani alti, il fuoco si era oramai diffuso al nono e all’ottavo piano, il panico e la disperazione spinsero all’irrazionale: e molti dei lavoratori saltarono fuori dalle finestre o nel pozzo dell’ascensore, alcuni perché terrorizzati, altri spinti dalla furia e dal terrore degli altri operai che, imprigionati in quell’Inferno progettato dal Capitale, cercavano una via di scampo.

In quella fabbrica, la Triangle Shirtwaist Factory  – esterna all’area del Garment District sempre a Manhattan, ma più a nord e centro della manifattura di abiti e del read to wear (il prêt-à-porter, il pronto da indossare americano) – si producevano camicette. Camicette bianche, beige, avorio, dai colori pastello, soprattutto, bluse che in quegli anni rappresentavano uno dei must del guardaroba di ogni signora, dalla più giovane alla più âgée, dalla lady della borghesia capitalista newyorchese, alla operaia della working class.

La “Gibson Girl”, infatti, una geniale creazione della “penna” di C. Dana Gibson del 1890, attraverso dei disegni mostrava una bella ragazza disinvolta che, comoda ed elegante, sfoggiava le bluse abbottonate simili a una camicia da uomo, ma molto femminili, inaugurando uno stile soprattutto comportamentale e non solo relativo all’outfit, per le giovani donne, copiato da molte delle ragazze nel corso di un ventennio. La camicetta bianca, indossata proprio dalla Gibson Girl, rappresentava una sorta di divisa di una donna più emancipata che aveva condotto battaglie, come quella del suffragio, legalizzato nel 1917, grazie alle lotte del Women’s suffrage movement, che rivendicava e “sposava” differenti modelli sia estetici che di comportamento (sia in ambienti chiusi – uffici, teatri, grandi magazzini, “salotti”, abitazioni – sia per strada o negli spazi pubblici), veicolati anche dalla Riviste, come «The Century», «Harper’s Bazaar» e «Life», su cui peraltro proprio C. Dana Gibson scriveva. Presente anche nelle narrazioni di importanti scrittrici americane, come Kate Chopin, il “tipo” definiva una donna energica che pur mantenendo un ruolo, fosse in grado di “forzare” le norme restrittive sociali in maniera gentile e persuasiva. Clarisse, ad esempio, tra le protagoniste di At the Cadian Ball, romanzo del 1892 della Chopin, incarna perfettamente la Gibson Girl, libera e intelligente, non soggiacente ad alcuna manipolazione maschile.

7-the-gibson-girls

The Gibson Girls

Se quelle camicette rappresentarono, una evoluzione dell’abbigliamento femminile, una innovazione, essendo modellate sulla classica camicia maschile, furono da quel momento in poi ricordate per il rogo scoppiato in quell’edificio progettato da John Woolley e costruito tra il 1900 e l’anno successivo. Edificio che, oltre ad ospitare la Fabbrica conteneva alcune residenze dove abitavano numerosi migranti, russi, ebrei, italiani, polacchi.

La costruzione è, e proprio dal 25 marzo del 2003, un Landmark; data, quella dell’inclusione nel Registro degli edifici da tutelare, che sottolinea la necessità di mantenere e rinnovare la memoria di un evento tragico che mise molte famiglie in ginocchio, spezzò giovani vite che, malgrado le povere condizioni, erano giunte in America e si nutrivano dell’ambiguità sottile e magnetica dell’American Dream. Sbarcati a Ellis Island ed entrati dalla Golden Door, alimentavano un immaginario fatto di grandi speranze. In quella fase, di intensissimo sviluppo economico e di incremento esponenziale della popolazione, la tragedia frantumò quelle grandi aspettative e mise l’accento sulle inique condizioni di lavoro, contro cui pochi, in fondo, combattevano, condizioni assai gravi anche per quanto atteneva il lavoro minorile.

Il Registro dei passeggeri di Ellis Island, oltre a fornire alcune preziose informazioni in alcuni casi ci mostra come soprattutto i giovani, qualche volta giovanissimi, arrivassero da soli, spesso raggiungendo i parenti o i genitori già sbarcati in America, alcuni anni prima. Si trattava di una modalità diffusa che originava da più circostanze, da un lato le migrazioni familiari o a catena, dall’altro le tecniche di “reclutamento” che garantivano ai padroni una “merce” a bassissimo costo, facilmente rinnovabile: gli operai, tra essi i “bambini” che, appena sbarcati, erano totalmente alla mercé della macchina stritolante del Capitale.

8-la-stanza-dove-scoppio-lincendio

La stanza dove scoppiò l’incendio

La prima legge italiana sull’emigrazione, del 1888, sanciva la possibilità di emigrare privatamente. In quella fase a NYC si rafforzarono il bossismo e alcuni sistemi di gestione e reclutamento del lavoro, tra essi: il redempioner system, un sistema a riscatto, tramite cui i migranti impegnavano la propria opera per pagare le spese di viaggio e il padrone system. Quest’ultimo, un contratto di lavoro utilizzato da gruppi d’immigrati per trovare impiego, soprattutto da italiani, rappresentava un bifido e ambiguo doppio vincolo (da un lato i lavoratori erano tenuti come schiavi; dall’altro si garantiva un iniziale inserimento), un complesso network di affari e relazioni che comprendeva operai specializzati e soprattutto semplici lavoratori, innescando pratiche deleterie che giungevano alla stipula, da parte di alcune famiglie, di contratti che impegnavano giovanissimi legati in un vincolo di servitù a un padrone, al pagamento di una tassa per il tirocinio iniziale e persino a un canone mensile per il mantenimento della posizione lavorativa.

Il lavoro minorile era pagato con salari ancora più bassi di quelli corrisposti agli operai. Irregolare e al di fuori di ogni garanzia e tutela (l’azione della componente riformista fu debole, sebbene presente) [6], il child labor fu funzionale all’espansione delle città americane, specialmente di NYC, dove la popolazione inurbata crebbe con un ritmo frenetico e dove il mondo del lavoro era assai differenziato (domanda di diverse prestazioni d’opera; enorme offerta di manodopera) e dove esisteva una certa mobilità sociale, da un lato punto di forza dell’American Dream, dall’altro strumento d’asservimento di grandi quantità di persone dipendenti dal Capitale altrui, con la convinzione di poter tentare la scalata sociale (in parte possibile).

Segmento costitutivo della cultura americana, tale convinzione si basava su fatti pressoché reali: le migrazioni, radice del popolo americano, ponevano le persone che giungevano in America condizioni analoghe. Con le debite differenze, ma chi si stabiliva negli States partiva, spesso, da condizioni svantaggiate. Un esempio: Andrew Carnegie (uno dei magnati del Capitale americano), scozzese di origine, iniziò a lavorare a 13 anni per 1,20 dollari la settimana. Oltre la retorica del “posso e voglio”, potrebbe dirsi, tale quadro spinge a riflettere su alcuni modelli di comportamento, non generalizzabili, ma sostanzialmente diffusi che riguardavano le giovani generazioni: lasciati a se stessi, e mentre i genitori perseguivano l’unica strada possibile per la sopravvivenza (il lavoro) e in assenza di rendite e posizioni pregresse di privilegio, i ragazzi (spesso giovanissimi lavoratori) acquisivano uno stile assertivo, costruendo una sorta di virile “boy culture” che fu parte della cultura americana. A cavallo tra legalità e illegalità, tale habitus concepiva l’individuo come una sorta di eroe (in grado di compiere una scalata sociale) e si esprimeva anche nella formazione di gang e bande che gestivano in una guerra perenne interi quartieri, ciò dava vita a forme sociali che si estrinsecavano, per esempio, nella relazione tra gruppi etnici o minoranze (i conflitti tra irlandesi; le bande a Little Italy).

9-corpi-sul-selciato-vicino-allobitorio-il-giorno-dellincendio

Corpi sul selciato vicino all’obitorio, il giorno dell’incendio

Ed è proprio in tale quadro di esplosione economica e di frenesia sociale, senza garanzie, aumentò  molto il numero dei bambini impiegati nei processi di produzione. Essi, in condizioni di elevatissimo rischio sul posto di lavoro, erano tra gli operai prediletti dal Capitale perché facili da controllare, perché sapevano muoversi in luoghi di ridotte dimensioni, perché pagati ancora meno degli adulti e meno rivendicativi. Costretti a volte a sostenere le famiglie, rinunciavano a un’istruzione [7] malgrado l’impegno di alcuni riformatori che, attivi anche a NYC, cercavano di limitare il lavoro minorile e puntavano a mobilitare l’opinione pubblica, che rispose assai poco e attivamente solo durante la Great Depression del ’29, quando un gran numero di americani spinse affinché i posti disponibili andassero agli adulti e non per ragioni etiche.

Per comprendere il fenomeno, sono utili alcune cifre generali: nel 1900 il 18% dei lavoratori in America era al di sotto dei 16 anni, molti di essi al di sotto dei 15 e la metà addirittura al di sotto dei 12 anni. In quella fase critica i riformatori agirono con maggiore forza per la diffusione dell’istruzione primaria e per fissare soglie accettabili per i salari minimi; molti Stati vararono leggi orientate in tal senso, leggi deboli, dotate di escamotage, mentre già il flusso enorme dei migranti, tra cui, per esempio, gli irlandesi e, sin dal 1840 circa, i nuclei dall’Europa meridionale e orientale, forniva un consistente bacino di lavoratori anche al di sotto dei 15 anni, a fronte di una altissima domanda connessa allo sviluppo, determinando un feroce contesto che metteva i bimbi, oltre alle loro famiglie, in condizioni insostenibili.

Il National Child Labor Committee attivo dal 1904 (qualche anno prima che si toccasse l’apice degli arrivi dei migranti a Ellis Island) agì per mitigare e risolvere le condizioni dei più “giovani” workers, insieme a gruppi organizzati di reformers e a parte della base dei workers che, soprattutto dal 1902 al 1915, si mosse per sollecitare un’azione legislativa statale, anch’essa decisamente poco incisiva: in quegli anni furono approvate dal Congresso due leggi, immediatamente dopo le stesse vennero dichiarate incostituzionali [8].

10-il-new-york-times-il-resoconto

Prima pagina del New York Times, il resoconto

In assenza di una efficace azione dei Sindacati, e in ambienti di lavoro scarsamente tutelati e rischiosi, i benefici economici non furono solo per i proprietari delle fabbriche. Anche le Assicurazioni, uno dei tre motori economici riconosciuti (FIRE), gestirono e governarono immense quantità di dollari e di persone. Fecero fortunasulle spalle dei lavoratori i quali non beneficiando dialcuna garanzia sul lavoro, e in assenza di leggi o di sistemi di compensazione per gli incidenti pagavano, quando possibile, polizze private che ammortizzassero i rischi.

Tra il 1900 e il 1913 perirono nel complesso circa 28 mila lavoratori e più di 70 mila furono feriti gravemente. L’unica possibilità per un lavoratore era stipulare una polizza privata, con le Insurances, o citare il datore in tribunale, ma il proprietario avrebbe potuto rivalersi, sostenendo che l’incidente fosse stato frutto di negligenza del medesimo lavoratore. Si trattava di cause civili contro potentissime Companies chiamate in quel periodo unholy trinity of defenses (scellerata trinità di difesa). Si giungeva a formalizzare modi paradossali che sgravavano totalmente il “padrone” da ogni responsabilità: dal “concorso di colpa”, all’“assunzione di rischio”. I datori di lavoro spesso formalizzavano tali prassi in contratti denominati, letteralmente, contratti di morte (death contracts) o diritto del lavoratore a morire (worker’s right to die). Documenti come la Fellow Servant Rule, sollevavano il datore da ogni responsabilità e l’indiscussa forza dimostrata in Tribunale dai padroni, spinse questi a frenare ogni legge sulla compensazione.

Caso eclatante nel 1909, quello di Sarah Kinsley, che perse un braccio, e la causa in tribunale indusse il Legislatore a elaborare provvedimenti, inizialmente deboli, che affrontassero il nodo. Entro il 1910 il Maryland, il Massachusetts, il Montana e New York, avevano adottato leggi di risarcimento, dichiarate incostituzionali nel 1911, anno dell’incidente alla Triangle Shirtwaist Factory: le famiglie richiesero, in tribunale, i danni in seguito alla morte delle vittime, conteggiati per la cifra irrisoria di 75 dollari a persona. Paradossalmente per Max e Isaac fu un affare: con un processo che durò dal 4 al 27 dicembre, furono difesi da un principe del Foro newyorchese, Max Steuer, che li fece scagionare con un verdetto di non colpevolezza; inoltre i due ricevettero, dalla propria assicurazione, 400 dollari a persona morta, quale risarcimento.

11-la-folla-per-strada-dopo-il-rogo

La folla per strada dopo il rogo

Il giorno dopo l’incendio, il 26 marzo, una folla afflitta di dolore si radunò sul luogo della tragedia gridando i nomi dei loro cari, chiedendo risposte, fronteggiando lo choc di quella realtà, tanto  forte che mai sarebbe stato dimenticato. Il 5 aprile 1911, durante il funerale, anche le sette vittime non identificate, furono accom- pagnate da una silenziosa processione, da una carrozza carica di fiori trainata da cavalli bianchi. Uomini e donne distribuivano volantini in inglese, yiddish e italiano in cui si chiedeva ai lavoratori di unirsi al tributo finale alle vittime, si invocava giustizia dopo quella catastrofe accaduta perché il Capitale e il profitto avevano, come accadeva nell’intero mondo industriale, cancellato i diritti all’esistenza stessa e le esigenze dei lavoratori, in primo luogo persone oltre che appartenenti a una categoria massificante di matrice economica: come aveva insegnato Marx, i “proletari”.

Quel giorno il corteo di migliaia di persone, i Sindacati, le comunità religiose, i gruppi politici e le organizzazioni per la riforma sociale, avanzarono –  una massa enorme – diretti verso il luogo della tragedia. Un corteo che impiegò alcune ore per raggiungere quelli che già, rispettosamente, sostavano presso la fabbrica, riuniti per piangere coloro che così tragicamente avevano perso la vita e per chiedere reali progressi nella protezione dei lavoratori.

Sotto lo scroscio di una pioggia torrenziale, alcuni membri degli United Hebrew Trades of New York e una rappresentanza del Ladies Waist and Dressmakers Union, portavano striscioni dove era possibile leggere: «We Mourn Our Loss» [9].

Dialoghi Mediterranei, n.30, marzo 2018
 
Note
[1]  La paga, corrisposta ogni due settimane, era stata assegnata quel giorno.
[2]  La produzione delle “Shirtwaist”, letteralmente, camicetta di taglio maschile, rappresentò un capitolo estremamentecompetitivo dell’industria americana, le bluse erano prodotte soprattutto a Philadelphia e New York. Solo a Manhattan erano 450 fabbriche tessili che davano lavoro circa 40 mila workers. Le fabbriche non producendo rumore o emissioni tossiche potevano, infatti, allocarsi anche a Manhattan in edifici come l’Asch, che non avevano affatto requisiti di sicurezza, anche perché, spesso, i padroni corrompevano gli ispettori degli uffici preposti che avrebbero dovuto far applicare le norme esistenti. Durante le riunioni sindacali o dei lavoratori di settore le problematiche, come la mancanza di scale anti incendio, le scale troppo strette, le uscite ostruite, le porte intermedie chiuse a chiave, venivano messe in evidenza e costituivano parte della piattaforma di discussione con i datori di lavoro. Prima dell’incendio, per esempio, erano state ispezionate più di mille fabbriche in città con pessimi risultati
[3] Le vittime e le loro età al momento dell’incendio: Adler Lizzie, 24; Altman Anna, 16; Ardito Annina, 25; Bassino Rose, 31; Benanti Vincenza, 22; Berger Yetta, 18; Bernstein Essie, 19; Bernstein Jacob, 38; Bernstein Morris, 19; Billota Vincenza, 16; Binowitz Abraham, 30; Birman Gussie, 22; Brenman Rosie, 23; Brenman Sarah, 17; Brodsky Ida, 15; Brodsky Sarah, 21; Brooks Ada, 18; Brunetti Laura, 17; Cammarata Josephine, 17; Caputo Francesca, 17; Carlisi Josephine, 31; Caruso Albina, 20; Ciminello Annie, 36; Cirrito Rosina, 18; Cohen Anna, 25; Colletti Annie, 30; Cooper Sarah, 16; Cordiano Michelina, 25; Dashefsky Bessie, 25; Del Castillo Josie, 21; Dockman Clara, 19; Donick Kalman, 24; Eisenberg Celia, 17; Evans Dora, 18; Feibisch Rebecca, 20; Fichtenholtz Yetta, 18; Fitze Daisy Lopez, 26; Floresta Mary, 25; Florin Max, 23; Franco Jenne, 16; Friedman Rose, 18; Gerjuoy Diana, 18; Gerstein Molly, 17; Giannattasio Catherine, 22; Gitlin Celia, 17; Goldstein Esther, 20; Goldstein Lena, 22; Goldstein Mary, 18; Goldstein Yetta, 20, Grasso Rosie, 16; Greb Bertha, 25; Grossman Rachel, 18, Herman Mary, 40; Hochfeld Esther, 21; Hollander Fannie, 18, Horowitz Pauline, 19; Jukofsky Ida, 19; Kanowitz Ida, 18; Kaplan Tessie, 18; Kessler Beckie, 19; Klein Jacob, 23; Koppelman Beckie, 16; Kula Bertha, 19; Kupferschmidt Tillie, 16; Kurtz Benjamin, 19; L’Abbate Annie, 16; Lansner Fannie, 21; Lauletti Maria Giuseppa, 33; Lederman Jennie, 21; Lehrer Max, 18; Lehrer Sam, 19; Leone Kate, 14; Leventhal Mary, 22; Levin Jennie, 19; Levine Pauline, 19; Liebowitz Nettie, 23; Liermark Rose, 19; Maiale Bettina, 18; Maiale Frances, 21; Maltese Catherine, 39; Maltese Lucia, 20; Maltese Rosaria, 14; Manaria Maria, 27; Mankofsky Rose, 22; Mehl Rose, 15; Meyers Yetta, 19; Midolo Gaetana, 16; Miller Annie, 16; Neubauer Beckie, 19; Nicholas Annie, 18; Nicolosi Michelina, 21; Nussbaum Sadie, 18; Oberstein Julia, 19; Oringer Rose, 19; Ostrovsky Beckie, 20; Pack Annie, 18; Panno Provvidenza, 43; Pasqualicchio Antonietta, 16; Pearl Ida, 20; Pildescu Jennie, 18; Pinelli Vincenza, 30; Prato Emilia, 21; Prestifilippo Concetta, 22; Reines Beckie, 18; Rosen (Loeb) Louis, 33; Rosen Fannie, 21; Rosen Israel, 17; Rosen Julia, 35; Rosenbaum Yetta, 22; Rosenberg Jennie, 21; Rosenfeld Gussie, 22; Rosenthal Nettie, 21; Rothstein Emma, 22; Rotner Theodore, 22; Sabasowitz Sarah, 17; Salemi Santina, 24; Saracino Sarafina, 25; Saracino Teresina, 20; Schiffman Gussie, 18; Schmidt Theresa, 32; Schneider Ethel, 20; Schochet Violet, 21; Schpunt Golda, 19; Schwartz Margaret, 24; Seltzer Jacob, 33; Shapiro Rosie, 17; Sklover Ben, 25; Sorkin Rose, 18; Starr Annie, 30; Stein Jennie, 18; Stellino Jennie, 16; Stiglitz Jennie, 22; Taback Sam, 20; Terranova Clotilde, 22; Tortorelli Isabella, 17; Utal Meyer, 23; Uzzo Catherine, 22; Velakofsky Frieda, 20; Viviano Bessie, 15; Weiner Rosie, 20; Weintraub Sarah, 17; Weisner Tessie, 21; Welfowitz Dora, 21; Wendroff Bertha, 18; Wilson Joseph, 22; Wisotsky Sonia, 17.
[4] Tra le vittime settantacinque provenivano dalla Russia, trentotto dall’Italia (molte tra esse erano siciliane), sedici dall’Austria, dieci erano nate in America, cinque dalla Romania, una dall’Ungheria e una dalla Jamaica.
[5] Tra le testimonianze, ne ho scelta una, rilasciata nel 1957, è toccante e terribile, ho preferito non tradurla; restituisce la drammatica condizione di quel giorno, ed è di una delle sopravvissute, Anna Pidone che perse la sorella di appena 25 anni, Mary, che aveva 5 figli; Anna trovò il corpo carbonizzato alle 2 di notte, all’obitorio. Job of Anna: Forelady; she worked at 9th floor; Interview: September 10, 1957.
«Mary Leventhal and I had paid all the people on the 9th floor. We went from machine to machine and gave out the pay envelopes. I went over near the freight elevator where the button was and rang the bell for everybody to stop work at 4:45, that was the end of the day.
 I didn’t know there was a fire and I went to the dressing room. Suddenly someone ran to the dressing room and cried “Fire”. I came out of the dressing room and saw everything was in flames. I ran to the front door and the door was locked. Many people began to go to the windows to jump from the windows.
 My sister was age 25. She worked with me on the 9th floor as an examiner. During the time we were running around to get out I kept hollering for her but I could not find her for even a minute.
 The people began to throw themselves out of the windows. All the machines were bubbling with flames. I had my fur coat and hat with two feathers and a green woolen skirt which I pulled over my hat and my head. I know I ran to the windows but then I backed away. I know I was all wet but it could not have been from the firemen’s hose. I cannot remember whether I wet myself with a pail of water or somebody threw it at me. I ran back toward the freight elevator through the open aisle which was the last aisle after the machines and I went to the back staircase door. I remember there was a big barrel of oil near that door and when I opened the door and ran through and began to go down the staircase I heard a loud bursting noise. Maybe the barrel of oil exploded. The big hat the girls gave me.
When I went to the window I made the sign of the cross and was ready to jump but I didn’t have the courage.
I remember also that one of the persons who came back later that afternoon to get pay and died in the fire was somebody that was supposed to get married on Sunday.
 I went down the staircase, all the way down to the hall downstairs and I didn’t meet a soul, not a single soul. I remember when I went past the 8th floor I looked through the door and all I could see was one mass of fire. The wind was blowing up the staircase and the fire was going the other way. When I got downstairs I was cold and wet and I remember a man who was looking for his sister and gave me his coat.
We lived at 437 E. 12th St. I came out on the Greene St. side stunned and this man who was looking for his sister looked into my face. My face was all black from the smoke of the fire.
I went home in a daze. A man took me home.
On the way going home I met my brother and he began to ask right away “where is Mary” Mary Floresta? He ran back and tried to look for her. They could not find her but later that night some friends identified her. When we had the funeral for the family she lay in her casket and she looked very very pretty but she was a heavy girl and every bone in her body had been broken when she fell down from the fire escape. For months after that I used to begin to shake everytime I heard a fire engine.
There was a lawyer from St. Paul Bldg. – a lawyer O’Neil and he made my case. I was on the stand for 2 1/2 hours. The lawyer Steuer kept trying to catch me. Every once in a while he said how many times did you open the door, and everytime I yelled back at him, I never could open it – it was always locked. Only the back door was open. Then he would ask me again and again when you opened the door, when you saved yourself, did you open it out or did you open it in and one time I screamed back at him, I could not open it at all. Eleven jurors were in my favor but one disagreed. It was a separate case. I sued for $25,000 (Case apparently ended with a hung jury).
Harris & Blank were very nice to me but I lost my sister in that fire and I know the door was locked. When they came out of the court they were surrounded by the cops on all sides.
I think 13 men were killed in the fire. One of them was Jake Klein, an operator who was very handsome. I never knew about the fire escape. We used to use the freight elevator only. I used to help check any bundles that the people would carry out after we rang the bell. I would ask them what was in the package. We generally ate at the machines but there were places to eat on Greene St. The fire danced on the machines.
There were piled up boxes against the door. There were too many in the windows.
I knew about the staircase in the back because I used it for my work as a forelady; sometimes I went to the 8th floor to the cutters for re-cuts of damages. Sometimes I went to the 10th floor for trimmings but the others never used the staircase.
When I looked into the 8th floor, everything was burning. By the time I got to the ground floor I was dizzy and I lost my balance. I kept crying where was my sister.
We found her at 2 o’clock in the morning at the morgue. A week before I got my neighbor a job at Harris & Blank. She had 5 children. She was burned to death»
vi[6]  Lo sviluppo economico, l’elemento prevalente dotato di un forte trascinamento e di un’enorme velocità, la componente riformista assai debole, sebbene declinata e presente in vari ambiti non ebbe un ruolo determinante nella tutela dello sconfinato esercito dei workers.
 [7]  In tal senso sono interessanti i documenti consultabili al Tenement Museum di NYC, il cui Archivio registra le presenze, l’età e l’occupazione degli abitanti dei tenements (i caseggiati dove abitavano i migranti) tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX, fornendo dati relativi anche al livello d’istruzione, bassissimo in quella fascia sociale.
[8]Un primo e più efficace risultato fu ottenuto con il Fair Labor Standards Act del 1938, collegato alla riforma del New Deal, che per la prima volta fissava le retribuzioni minime e dei limiti per l’impiego del lavoro minorile: al di sotto dei 16 anni i ragazzi non potevano essere impiegati né in alcuni settori di produzione, né nell’estrazione mineraria.
 [9]  La ricerca sulla stampa d’epoca è stata fondamentale per ricostruire e soprattutto per leggere le testimonianze dei sopravvissuti; una rassegna tra le fonti consultate: New York Times, March 26, 1911: 1. “141 Men and Girls Die in Waist Factory Fire; Trapped High Up in Washington Place Building; Street Strewn with Bodies; Piles of Dead Inside.”; ChicagoSunday Tribune, March 26, 1911:1. “New York Fire Kills 148.”; New York Times, March 26, 1911: 4. “Stories of Survivors. And Witnesses and Rescuers Outside Tell What They Saw.”; New York Times, March 26, 1911, p. 4. “Lived Amid Flames, But Nearly Drowns.”; New York Times, March 26, 1911: 4. “Crowd At Police Station; Mercer Street is Turned Into an Emergency Hospital”; New York Times, March 26, 1911, p. 4. “Death List Shows Few Identified”; Chicago Sunday Tribune, March 28, 1911: 2. “Thrilling Incidents in Gotham Holocaust That Wiped Out One Hundred and Fifty Lives.”; Ladies’ Garment Worker, April 1911. [notice of the fire]; American Federationist, May 1911, “Hostile Employers See Yourselves as Others Know You”; Ladies’ Garment Worker, September 1911, “Echoes from the Triangle Fire”; Ladies’ Garment Worker, Oct. 1911, “Agitation Among the Ladies’ Waistmakers, Local 25. “Outlook, April 15, 1911. “The Factory Girl’s Danger.”; American Federationist, July 1911 “The Triangle Union Relief”; New York Times, March 28, 1911: 1. “Blame Shifted on All Sides for Fire Horror.”; Outlook, April 22, 1911, “Indictments in the Asch Fire Case”; Outlook, April 29, 1911,”Placing the Responsibility”; Literary Digest, January 1912, “147 Dead, Nobody Guilty”.
__________________________________________________________________________________
Flavia Schiavo, architetto, paesaggista, insegna Fondamenti di urbanistica e della pianificazione territoriale presso l’Università degli Studi di Palermo. Ha pubblicato monografie (Pa­rigi, Barcellona, Firenze: forma e racconto, 2004; Tutti i nomi di Barcellona, 2005), numerosi articoli su riviste nazionali e internazionali e contributi in atti di congressi e convegni. Docente e Visiting professor presso altre sedi universitarie, ha condotto periodi di ricerca, oltre che in Italia (come allo Iuav di Venezia), alla Sorbona di Parigi, alla Universitat Autònoma de Barcelona (UAB) e alla Columbia University di New York. La sua ultima pubblicazione, Piccoli giardini. Percorsi civici a New York City (Castelvecchi 2017), è dedicata all’analisi dei parchi e dei giardini storici e contemporanei della Mega City.

______________________________________________________________

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Migrazioni, Società. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>