Il codice iconografico della tradizione siciliana, sia nel registro figurativo sia in quello di pura astrazione, si offre come un comodo “sentiero guida” per giungere ad inaspettati, avvolgenti e coinvolgenti “incontri ravvicinati” con la potente sfera dell’immaginario e con modelli ideologici, da sempre necessari alla cultura popolare, nelle sue diverse declinazioni individuali e collettive, per elaborare processi di “senso” e forme culturali. Strategie relazionali necessarie a riaffermare la propria identità e appartenenza ad un storia e destino comune, fronteggiando così, o tentando di farlo, altre e più aggressive e voraci categorie socio-culturali “adiacenti”.
Molto meglio della parola, che semplifica e riduce, pur nell’ampio spettro semantico concesso dalle parlate siciliane, l’immagine rappresenta in maniera totale l’uomo e il suo mondo, magari fra visibile ed invisibile, certo, spesso, con infingimenti, inganni “ottici” e omissioni, svelando, tuttavia, quale idea ha l’ominide rispetto al suo “cammino terreno”, dentro una cornice storica, culturale, sociale ed economica, in perpetuo movimento, prima lento, e ora, vorticosamente veloce, e, dunque, sfuggente e cangiante.
L’immagine, poi, spesso si rifugia nei simboli e nei segni, indecifrabili e misteriosi, perché poste in quelle zone oscure dell’essere, a stretto contatto con gli interrogativi originari e irrisolvibili dell’universo, unendo le cose di “quaggiù” con le cose di “lassù” in un stretto e fatale abbraccio.
Volgere, dunque, lo sguardo sui cartelloni dell’Opera dei Pupi è molto di più del confrontarsi con scene epico-cavalleresche mirabolanti, magari frettolosamente e semplicisticamente rubricate come belle, attraenti, e magari tipiche e pittoresche.
Si tratta, è vero, tipologicamente, di manifesti pubblicitari di grande formato “ante-litteram”, realizzati su carta da imballaggio, effimeri per natura e funzioni, ostinatamente riciclati e rappezzati, intimamente legati ai sequel dell’Opera dei Pupi, nel nostro caso, a quelli dell’asse Catania-Acireale-Messina. Ma al di là del “sex-appeal figurativo”, che indubbiamente trasmettono, grazie all’impianto “coloristico-energetico” e allo stile di arte popolare originale, prorompente e fortemente fiabesco ed emozionale, finalizzato ad un racconto breve, attestato anche da telegrafiche sinossi, di immediata e attraente prima comunicazione, i cartelloni ci dicono molto di più.
Intanto, per restare al primo approccio visivo, per così dire retinico, quindici cartelloni proposti, peraltro in prima assoluta, nella mostra Imago Pugnatores allestita qualche settimana fa nel castello di Bauso, a Villafranca Tirrena, datati prima metà Novecento, firmati in gran parte da Francesco Vasta e Vincenzo Astuto, provenienti dalla preziosa e rara collezione dello storico del territorio Franz Riccobono, offrono generosamente exempla mirabili della lista degli ingredienti base, che hanno fatto la fortuna dell’Opera dei Pupi al suo apparire all’alba dell’Ottocento a Palermo.
Ci riferiamo, intanto alla materia narrativa principale affidata alle gesta dei paladini e dei mori, in quello eterno confronto anche sanguinario fra cristiani e infedeli, che irrompe drammaticamente anche nella nostra convulsa e indecifrabile contem- poraneità, che si alimenta, in quella singola forma di teatro di figura popolare siciliana, direttamente alla letteratura romantica epico-cavalleresca, che a sua volta riprende l’universo cavalleresco quattro-cinquecentesco “alto” del Boiardo, Tasso e Ariosto, che a sua volta mette le mani sull’antica e mai dimenticata lezione della Chanson de Roland e de Gest, e dei mitici paladini di Carlo Magno.
A questo principale motore generativo e narrativo si aggiunge il registro di tradizione popolare affidato ai cuntastorie, da cui molto si attinge, fino ad arrivare alle riscritture libere e creative dei bardi ottocenteschi, tra i quali primeggia Giusto Lodico. E proprio a questi oscuri scrittori si deve l’entrata in scena di altri emblematici elementi culturali tirati fuori dai giacimenti popolari (maghi, diavoli, angeli, draghi e mostri e santi), e di eroi paladini siciliani, protagonisti di storie mai narrate prima, polarizzando e interpretando così fino in fondo umori, speranze e ideali, del ceto popolare urbano.
E dunque, oltre la superficie visiva, ci pare proprio questa una possibile chiave di lettura dei cartelloni, “riabilitandoli”, per comprendere appieno le ragioni che hanno decretato la fortuna dell’Opera dei Pupi per tutto l’Ottocento, per poi declinare nel secolo breve, fino a diventare simulacro di sé stessa, fino ai nostri giorni.
L’Opera dei Pupi, nelle sue due diverse lezioni, quella palermitana e quella catanese, diventa, pertanto “Opera totale”, mi si consenta il prestito wagneriano, ovvero vera e propria icona della cultura popolare siciliana ottocentesca, riflettendo a tutto tondo, come in uno “specchio magico”, le aspirazioni dei ceti subalterni, sullo sfondo degli sconvolgimenti risorgimentali e della controversa “Unità Italiana”, desiderosi di un futuro migliore per sè e per i propri figli, fino al punto di varcare in massa l’Oceano.
Per portarla su un versante di lettura psicanalitica, con l’Opera dei Pupi, in grado di fondere mirabilmente parola drammaturgica, immagine, gesti rituali, suoni, colto e popolare, alto e basso, si attiva tra scena e platea un transfert di forte identificazione ideologica e comportamentale con i personaggi che agiscono nelle mirabolanti storie dalle tinte favolose, a tratti fosche, spesso con battaglie sanguinarie e risolutive, grazie a forze soprannaturali.
E così lo spettacolo si trasfigura in un rito collettivo di identificazione e di catarsi individuale, che rifonda e rafforza valori condivisi e gli ideali di riscatto ed emancipazione. Ed è anche per questo, ovvero per la esclusiva funzione rituale e immaginifica affidata, che sulla scena dell’Opera dei Pupi troveranno posto le celebrazioni del Natale, del Mortorio della Settimana Santa, del brigante Bruno e perfino del mito Garibaldi.
E il contagio figurativo dei temi ideologici e valoriali unici e irripetibili, veicolati dall’Opera dei Pupi, si espande negli ambiti di lavoro, consegnando ai carretti, istoriati con scene epico-cavalleresche, ma anche con quelle tratte dal ciclo omerico e mitologico e da Cavalleria Rusticana – anch’essa di dirit- to assunta nell’universo dell’immaginario popolare siciliano –, il compito di attestare la fedeltà e l’adesione a quei modelli di vita, fatti di eroismo, di generosità, di onore e di tradimenti, di interventi divini e magici, di forze oscure contrapposte, nel perenne scontro senza fine fra il bene e il male, un mondo che si irradia appunto mirabilmente dalle scene rutilanti dell’Opra. Davvero un unicum nella storia dello spettacolo popolare siciliano, fino a diventare icona turistica, l’Opera dei Pupi è stata capace di riplasmare “alto” e “basso”, “colto” e “popolare”, prima dell’avvento del rivoluzionario cinematografo e dell’epoca della riproduzione seriale di “suono, immagine e arte” del Novecento e del suo consumo onnivoro e planetario, destinato ad azzerare fatalmente ogni diversità e tipicità culturale di tradizione.
Dialoghi Mediterranei, n.26, luglio 2017
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Mario Sarica, formatosi alla scuola etnomusicologica di Roberto Leydi all’Università di Bologna, dove ha conseguito la laurea in discipline delle Arti, Musica e Spettacolo, è fondatore e curatore scientifico del Museo di Cultura e Musica Popolare dei Peloritani di villaggio Gesso-Messina. È attivo dagli anni ’80 nell’ambito della ricerca etnomusicologica soprattutto nella Sicilia nord-orientale, con un interesse specifico agli strumenti musicali popolari, e agli aerofoni pastorali in particolare; al canto di tradizione, monodico e polivocale, in ambito di lavoro e di festa. Numerosi e originali i suoi contributi di studio, fra i quali segnaliamo Il principe e l’Orso. il Carnevale di Saponara (1993), Strumenti musicali popolari in Sicilia (1994), Canti e devozione in tonnara (1997).
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