CIP
di Michela Buonvino, Daria De Grazia ed Elisa Rondini [*]
Patrimoni immateriali e comunità patrimoniali alla prova del campo
Lo scorso 7 settembre 2024, nella cornice della VI edizione del Festival di Antropologia e Storia delle Religioni “Nella Terra di Diana”, evento promosso dal Museo delle Religioni “Raffaele Pettazzoni” diretto da Igor Baglioni, con il patrocinio dei comuni di Genzano di Roma e Velletri [1], si è tenuta, nella splendida location di Palazzo Sforza-Cesarini, una tavola rotonda (da me curata e coordinata) di giovani ricercatori e ricercatrici, dal titolo “Associazionismo, comunità patrimoniali e patrimoni culturali immateriali. Il ruolo dell’antropologia tra comunità locali e governance”.
La questione, come è noto, è ormai da tempo al centro di un animatissimo dibattito che ha dato vita a non poche idiosincrasie intellettuali (Di Pasquale, Dei 2023: XI), e che ha visto molti/e studiosi/e di dinamiche relative in particolare ai processi di patrimonializzazione confrontarsi sulla nozione di “comunità patrimoniali”, nonché sul ruolo di antropologhe e antropologi che, anche attraverso il dialogo con esperte ed esperti di altre aree disciplinari, sono in misura sempre maggiore esortate/i a riflettere sul loro coinvolgimento nella declinazione di specifiche misure di governance e nei disegni di sviluppo, che possono innescare determinati processi di empowerment delle comunità e degli attori locali e, più in generale, a ragionare criticamente sulle forme di inclusione, di trasparenza e di democratizzazione dell’accesso ai contenuti culturali, sulle dinamiche relative alla presa in carico dei patrimoni culturali e, soprattutto, sulle plurime frizioni incontrate in questo stesso processo di co-costruzione di conoscenze.
Occorre, tra l’altro, porre l’accento sull’agency comunitaria, sulle diverse posture patrimoniali (Iuso 2022) acquisite nei processi di valorizzazione e salvaguardia dei patrimoni culturali, prestando attenzione all’attuale tendenza a muoversi nella direzione di una responsabilizzazione dei soggetti appartenenti alle “comunità patrimoniali” (Padiglione, Broccolini 2016; Clemente 2016), custodi, portatrici, protagoniste dei processi di definizione, declinazione e, chiaramente, valorizzazione di specifici patrimoni culturali, per loro natura negoziali.
Lo scopo ultimo della tavola rotonda era quello di contribuire ad affinare la riflessione teorica e metodologica relativa al lavoro degli antropologi e delle antropologhe a fianco ai soggetti e ai gruppi protagonisti di processi di valorizzazione e di patrimonializzazione culturale, focalizzando l’attenzione sulla dimensione performativa, come anche esperienziale, dei patrimoni e delle patrimonializzazioni, giacché i ricercatori e le ricercatrici si relazionano, di fatto, con la produzione di metacommenti che soggetti e gruppi costruiscono e articolano, a volte in maniere conflittuali, a vari livelli, con l’intento manifesto di mostrarsi pubblicamente e di affermare, ribadire o ottenere un riconoscimento. Oltre a ciò, la globalizzazione delle gerarchie dei valori delle cornici patrimoniali (Herzfeld 2004; Palumbo 2010) condiziona, nella forma e nella sostanza, le modalità di pubblicizzazione dei contenuti condivisi dal gruppo come anche quelle della loro selezione – contenuti che spesso poi si ritrovano al centro di multisituati processi di mercificazione culturale; a questo ultimo riguardo, da diversi anni, ormai, l’antropologia critica italiana si interroga sulla connessione tra iconicizzazione delle “cose patrimoniali” e delle identità, e la loro mercificazione.
Inoltre, queste manifestazioni sono spesso caratterizzate dal coinvolgimento emotivo e organizzativo di una molteplicità di gruppi che elaborano pubblicamente rappresentazioni delle “indicatività” sociali, politiche, culturali ed economiche locali, quando non nazionali, finanche globali. Tali processi sono segnati dall’intensificazione delle attività di codificazione (o classificazione) culturale; con questa espressione ci si riferisce al meccanismo di parcelling out (Handelman 1990: 9), ossia al loro operare delle distinzioni qualitative tra una serie di elementi di vario genere attribuendo pubblicamente e collettivamente valore. Le relazioni presentate mettono in discussione una visione di patrimonio e di comunità fondata su un’edenica condivisione di una visione del mondo, visione ancorata a un’idea di cultura e di società come un insieme di complessi integrati che tendono al mantenimento dell’ordine e della coesione sociali, e a un’immagine archetipica di comunità fondata, in ultimo, sulla continuità strutturale. Si sottolinea, invece, il carattere simbolico e rappresentazionale dei rapporti tra patrimonio e comunità. Il riconoscimento patrimoniale mette in connessione “locale” e “globale” e, al contempo, rafforza mediante nuove modalità il rapporto con le pratiche e i saperi tradizionali. Nuovi attori appaiono sulla scena e le dicotomie “tradizionale/moderno”, “autentico/inautentico” si dimostrano una volta per tutte inadeguate alla definizione e alla comprensione di questi fenomeni, quasi sempre connessi a processi di deterritorializzazione e riterritorializzazione, di oggettivazione culturale e di essenzializzazione identitaria.
A partire dalla considerazione delle diverse posture assunte dai soggetti coinvolti e dai limiti che emergono nella cornice di interventi di cooperazione di una pluralità di attori che co-partecipano ai processi di valorizzazione culturale, e/o di sviluppo territoriale, abbiamo tentato di soffermarci sulle complesse dinamiche relative alla produzione condivisa di conoscenze quando antropologi e antropologhe entrano in contatto con la pluralità di soggetti, di gruppi e di mondi che popolano la scena patrimoniale. Tali gruppi spesso si dotano di uno statuto giuridico; in molti casi, l’associazionismo ricopre un ruolo cruciale, ad esempio in quel processo di (ri)creazione dei legami comunitari, in cui memorie individuali e collettive, ritualità laica e ritualità religiosa, si (ri)costruiscono nella loro convergenza indivisibile.
La riflessione intorno a questi temi ha in parte provocato un ripensamento a volte sostanziale delle stesse categorie di analisi, dei concetti di patrimonio, identità, tradizione, rito, festa, locale, globale ecc. Durante i lavori sono state presentate dai partecipanti esperienze di ricerca assai diversificate che hanno suggerito piste analitiche stimolanti, mettendo in risalto l’incredibile molteplicità degli attori coinvolti in questi processi, consentendoci di apprendere dalle loro vive voci, ragionando, in ultimo, sulla possibilità (nonché sulla necessità sempre più urgente) di mettere a punto definizioni accademiche e/o istituzionali stipulative, inclusive, condivise, plastiche, capaci di avvicinare anziché allontanare la ricchissima pluralità di mondi con cui abbiamo a che fare (cfr. Clemente 2011). È altrettanto necessario esercitare la consapevolezza dell’attitudine delle nostre discipline a convivere con i «processi politico-culturali di immaginazione del passato e di fabbricazione dell’“identità”» (Pizza 2015: 62; Palumbo 2010).
Dagli interventi presentati emerge una forte attenzione alle sfide non soltanto epistemologiche ma anche applicative connesse alla condivisione/distribuzione di saperi, di pratiche, di narrazioni, di competenze, nella cornice dell’incontro/scontro tra diversi “modelli” interpretativi, evidenziando, ancora una volta, il bisogno di superare una concezione piatta e unidirezionale delle invece vivaci e alle volte imprevedibili dinamiche che gravitano attorno alla patrimonializzazione, da intendersi in quanto sofisticata forma di valorizzazione culturale, che sempre dovrebbe essere il frutto dell’incrocio, potremmo dire, di tante diverse “valorizzazioni intersoggettive del mondo e della vita”; il tentativo di accoglierne e esplorarne la complessità è ciò che caratterizza e tiene insieme le diverse relazioni esposte durante i lavori.
In un articolo apparso su Lares nel 2006, Alessandro Simonicca si interrogava sull’utilità della categoria di “rituale”, mostrandone l’ampia varietà semantica e d’uso. A sua detta, un esame della storia degli studi antropologici rivelava l’esistenza di «dicotomie irriflesse e irrisolte, cariche di cesure storiche e categoriali» (Simonicca 2006: 585). In quelle stesse pagine, Simonicca rifletteva intorno all’estensione della nozione di rituale, il quale arrivava allora a includere una larga varietà di occasioni anche diversissime tra loro, sul recupero all’interno del rituale della dimensione ludica e, più in generale, sulla necessità di perseguire una epistemologia processuale del rituale. Credo che le stesse considerazioni si possano svolgere in relazione alle categorie di “patrimonio” e di “comunità”.
Tra le diverse esperienze di ricerca presentate nel quadro di questa tavola rotonda, figurano quelle di Daria De Grazia e Elisa Rondini, autrici rispettivamente del secondo e del terzo paragrafo di questo contributo [2]. Daria De Grazia descrive un’esperienza di ricerca etnografica condotta con i membri dell’Associazione culturale religiosa “Virgen de Cocharcas” di Fonte Nuova (RM), composta da circa 150 membri peruviani stabilitisi in Italia tra gli anni ‘90 e i primi anni 2000. De Grazia esplora il processo ininterrotto di negoziazione e di scambio di significati che prende vita tra il ricercatore e i membri dell’Associazione, soffermandosi sulle dinamiche di riscrittura condivisa e partecipata di una storia che è il frutto dell’incontro di una molteplicità di sguardi, una storia che accetta di venire a patti con la sua situazionalità e che anzi, proprio da questa trae la sua efficacia e la sua utilità, rivelandosi, proprio per questo, rappresentativa, nonché fonte di ispirazione per l’elaborazione di nuove autorappresentazioni identitarie da parte del consiglio direttivo dell’Associazione.
Elisa Rondini ci racconta la storia di Orlando Zoppitelli, un artigiano che lavora la “cannina” palustre sulle sponde del Lago Trasimeno, a San Savino. Questa pratica che trae origine da un sapere tradizionale, a sua volta profondamente radicato nella cultura locale, rischia di scomparire a causa di politiche ambientali che ne minano alla base le possibilità di (r)esistenza, impedendo l’accesso alle risorse naturali locali. Rondini si focalizza sulla frattura tra le normative moderne e la conoscenza locale (che considera il lago come un ecosistema integrato e complesso). L’autrice dimostra come le politiche di tutela del paesaggio, pur mirate alla conservazione, possono rivelarsi esclusive nei confronti di chi ha vissuto e curato quei territori per generazioni, privandolo di diritti e visibilità. Questa storia diventa un esempio di resistenza culturale e sociale, sollecitando una riflessione più ampia sul ruolo delle comunità locali nei processi di decision making e di definizione delle misure di governance relative ai loro territori.
Mi sembra che queste due indagini siano accomunate, anzitutto, dall’attenzione riservata alla pratica stessa del raccontare “una storia”, mettendone in evidenza sia l’assoluta non neutralità sia l’irrimediabile posizionalità e parzialità. Tale riflessione si ricollega direttamente a un approccio orizzontale e dialogico, adoperato da entrambe le ricercatrici, incline all’ascolto e all’accompagnamento di processi di presa in cura dei patrimoni culturali, di volta in volta attivando un paziente e costante processo di negoziazione con gli interlocutori, al fine di suggerire un nuovo direzionamento delle policies di valorizzazione culturale e/o di sviluppo territoriale, anche mediante una esplorazione critica dei quadri di governance e delle politiche culturali, interrogandosi, in altre parole, sulle «interazioni tra comunità locali, regimi patrimoniali e processi partecipativi» (Bindi 2019: 274).
«Guardare (e agire) insieme» [3]: sui possibili esiti di un incontro etnografico tra condivisioni e negoziazioni di senso
In questa sede vorrei riflettere su un’esperienza di ricerca etnografica che prosegue, dal 2018 ad oggi, su diversi assi. Si tratta di un lavoro condotto con i membri dell’Associazione culturale religiosa “Virgen de Cocharcas” di Roma, con sede a Fonte Nuova (RM), un comune di circa 30 mila abitanti poco fuori dalla Capitale, costituitasi ufficialmente nel 2008 e che conta oggi una media di 150 iscritti, tutti originari del Perù, e stabilitisi in Italia tra gli anni ’90 del secolo scorso e i primi anni del 2000, seguendo reti migratorie familiari ed amicali.
Sono sostanzialmente due gli aspetti rilevanti su cui credo sia interessante riflettere all’interno della cornice tematica proposta. Il primo è connesso alle modalità attraverso cui la forma dell’associazionismo, in questo caso religioso, ricopra ed abbia ricoperto un ruolo cruciale nelle dinamiche di domesticazione e appropriazione degli spazi urbani nel luogo di arrivo (cfr. Parbuono 2016), offrendo ai soggetti le risorse per interpretare l’esperienza migratoria, come anche la propria presenza in territorio italiano e soprattutto la relazione qui/lì (Ceschi 2011), consentendo la creazione di legami comunitari e la costruzione di autorappresentazioni identitarie. Infatti, le pratiche festive e devozionali performate, permettono di re-immaginare continuamente una “tradizione” attorno alla quale si delineano i tratti di un’identità peruviana immaginata (Anderson 2001; Gupta, Ferguson 2001; Berg 2015) [4].
Il secondo aspetto, quello di cui tratterò brevemente in questa sede, riguarda le diverse modulazioni dei posizionamenti in campo assunte dai diversi attori coinvolti durante gli anni della ricerca, ossia le diverse traiettorie dell’incontro che si sono incessantemente ridefinite in un complesso processo di negoziazione di significati. Questa ricerca è nata nell’ambito del progetto “Le statue da vestire dell’area metropolitana di Roma”, promosso dalla Soprintendenza ABAP per l’area metropolitana di Roma, la provincia di Viterbo e l’Etruria meridionale. Dal lavoro etnografico, che è ancora in corso, oltre a una tesi di laurea magistrale e alcuni articoli, ho prodotto, insieme a Michela Buonvino, un documentario etnografico dal titolo “Nuestra Señora de los Migrantes” (20’), in stretta collaborazione con i membri della giunta direttiva dell’Associazione. L’utilizzo dei mezzi audiovisivi ha segnato fortemente le modalità di incontro e incrocio di sguardi sul campo, da un lato legittimando la nostra presenza come ricercatrici, dall’altro permettendoci di portare avanti un progetto comune e condiviso negli intenti con l’Associazione. Durante l’etnografia si è fatto sempre uso della videocamera, soprattutto nei primi tre anni della ricerca. La videocamera è da intendersi, pertanto, come «parte integrante del corpo del filmmaker» (Marano 2015: 59), una sorta di protesi, che «diventa elemento dell’ambiente, sensibile al flusso della realtà di cui, più che uno specifico punto di vista, restituisce una esperienza fra le tante possibili» (Ibidem). Il filmmaker, dunque, attraverso un processo di apprendimento situato che Tim Ingold chiama enskillment «impara a osservare, conoscere e filmare in una sorta di conversazione con gli elementi presenti nell’ambiente in cui si muove» (Ivi: 66).
Nei primi due anni della ricerca le complesse relazioni tra gli sguardi in campo sono state mediate dunque dallo strumento della videocamera, che ha favorito la costruzione di uno «spazio d’incontro» (Ballacchino 2015); tale strumento di mediazione ci ha permesso di stringere un patto tacito di collaborazione fondato su un obiettivo collettivo: quello di immaginare e di raccontare una storia. Una storia che fosse sì una narrazione delle vicende e delle pratiche dell’Associazione ma, necessariamente, anche la storia del nostro incontro con l’Associazione e del nostro inserimento in questo gruppo, che è anche storia di un processo conoscitivo.
Durante il processo di selezione, scrittura e montaggio dei materiali, è stato quindi necessario compiere una serie di scelte e di esclusioni. A questo riguardo, la vicinanza emotiva e la condivisione di diversi spazi relazionali intimi con i protagonisti del film ha senz’altro giocato un ruolo rilevante, ad esempio per ciò che concerne la “visibilità” di tutti all’interno del prodotto finale, anche quando questa scelta si è rilevata poco efficace all’interno della narrazione filmica e poco funzionale rispetto alla fruibilità del prodotto. Le aspettative dei nostri interlocutori hanno informato anche la scelta di produrre una riflessione filmica che lasciasse (momentaneamente) da parte le frizioni interne al gruppo, perché considerate irrilevanti e/o sconvenienti nella costruzione di una rappresentazione che voleva a tutti i costi essere mediata, negoziata, condivisa. Quello che è venuto fuori rimane, necessariamente, un’interpretazione parziale, un collage di nessi, connessioni, voci, che forse soltanto in parte restituiscono delle rappresentazioni da tutti condivisibili. Più probabilmente però, queste rappresentazioni suggeriscono di intendere il nostro lavoro non tanto nei termini della restituzione quanto nei termini di una continua ricostruzione che prende forma in un processo contrappuntistico che intreccia e ridefinisce le narrazioni in campo, in quello spazio che Crapanzano (1980:11) ha definito «limbo di interscambio».
In altre parole, mi sono interrogata su quali spazi immaginativi vengono prodotti durante e in seguito al lavoro delle antropologhe: in che modo le narrazioni “eticamente” proposte si intrecciano con le autorappresentazioni “emiche” dei soggetti implicati nella ricerca?
Inoltre, da circa un anno, l’Associazione, in seguito a un’apertura della junta directiva (organo direttivo della Associazione) alle seconde generazioni, ha iniziato a fare un cospicuo uso a fini autopromozionali dei materiali che noi ricercatrici abbiamo prodotto e condiviso negli anni. Attraverso un processo di selezione, appropriazione creativa e rielaborazione di questo materiale, il gruppo sta letteralmente riscrivendo la storia dell’Associazione, sta ridefinendo i confini identitari della “peruvianità” che vi si esprime, sta reimmaginando e risignificando collettivamente quella che viene sentita e vissuta come una “tradizione”. Si tratta di un interessante processo creativo di messa in valore del proprio patrimonio, un «farsi comunità patrimoniale» (Padiglione, Broccolini 2016) che utilizza lo storytelling antropologico per acquisire una maggiore legittimazione nello spazio pubblico, nonché nello scenario delle associazioni territoriali di “competitor” (ma non solo).
Credo sia importante sottolineare che questa nuova postura che si è generata con e attraverso il lavoro di ricerca antropologico risponde soprattutto al presentarsi di nuovi bisogni interni all’Associazione ed è necessario inquadrarla, pertanto, in un’ottica sociale più ampia. Infatti, la presa del cargo da parte delle seconde generazioni, giovani che hanno vissuto la maggior parte della propria vita in Italia, sfuma e rimodula necessariamente quelle che erano fino a poco tempo fa le prerogative dei membri immigrati di prima generazione (cfr. Buonvino 2021; De Grazia 2024) e permette, anche per via di una maggiore distanza emotiva e di una diversa percezione dell’esperienza migratoria e del vivere transnazionale, nuove pratiche comunitarie e devozionali e nuove narrazioni che re-interpretano la memoria del gruppo, patrimonializzando un passato doloroso che prima risultava “troppo presente”, attraverso nuovi sguardi, inedite prospettive e modalità di abitare lo spazio eterogeneo dell’associazionismo. A suggerirci una prima rimodulazione prospettica è la presenza, durante la festa in onore della Virgen De Cocharcas dell’8 settembre 2024, di una bandiera italiana che accompagna la bandiera peruviana e lo stendardo dell’Associazione. In questo senso, la percezione in termini patrimoniali di queste pratiche festive e devozionali, si inserisce in un processo di tessitura culturale rappresentata da tutto quell’insieme di azioni transnazionali che si configurano come un «gioco delle appartenenze» (Ceschi 2011:147) che, con il passare degli anni acquisisce una forma sempre più definita attraverso il ricordo e la (ri)costruzione della memoria delle pratiche migratorie delle prime generazioni.
Forme di resistenza ai margini del vincolo: Orlando e la “cannina” del Trasimeno
Quella che propongo è un’esperienza etnografica che interessa da vicino la storia di un artigiano attivo nel territorio del Trasimeno; è infatti a San Savino, frazione del comune di Magione (Perugia), che Orlando Zoppitelli lavora da tutta la vita la “cannina” palustre, assai diffusa sulle sponde del Lago sin dai tempi antichi. La storia di Orlando è una delle tante nascoste tra la rete a maglie fitte che configura il quotidiano di chi abita luoghi marginali, qui intesi come contesti di vita periferici e di piccole dimensioni, densi al tempo stesso di possibilità performative, generative e trasformative [5]. Attraversare, etnograficamente, questi margini consente di osservare pratiche minute di vita sociale ed espressioni culturali creative, esito di relazioni di consuetudine con l’ambiente e di processi di “presa in cura” territoriale di lungo corso.
Il sapere artigianale di Orlando è infatti ben ricompreso tra quei “saperi tradizionali” (Traditional Knowledges) che, seguendo Alessandra Broccolini,
«rappresentano un vero universo di valore perché costituiscono un ambito della cultura che è il frutto di pratiche di lunga durata, sedimentate nel tempo e continuamente agite e interpretate localmente. Essi non sono appresi attraverso percorsi formali o scolastici, ma sono trasmessi oralmente, con l’esperienza e vivono profondamente radicati dentro pratiche sociali essendo il risultato di una conoscenza approfondita da parte delle comunità degli ambienti naturali, agricoli, del mondo animale e vegetale» (Broccolini 2023: 1685).
Nonostante la profondità del loro radicamento, vi sono saperi e pratiche artigianali, come quelli di Orlando appunto, che rischiano di scomparire, sotto la spinta delle condizioni socioculturali ed economiche contemporanee o in quanto, come vedremo, marginalizzati da politiche sganciate dai mondi della vita delle persone; fattori entrambi in grado, potenzialmente, di determinare un’irrimediabile dispersione di memorie e forme culturali locali (Teti 2017).
Orlando Zoppitelli, dicevamo, è l’ultimo testimone della lavorazione della canna palustre del Trasimeno, attività a cui tutta la sua famiglia si è dedicata. Fu infatti il padre che, di ritorno dall’Abissinia, dopo la Seconda guerra mondiale, avviò la piccola impresa di produzione artigiana, ad oggi ancora attiva e nota come Azienda Zoppitelli. È qui che Orlando, ottantaquattro anni il prossimo marzo, trascorre le sue giornate, sulla riva del Lago e a pochi metri dal canneto. Muoversi all’interno del laboratorio artigianale significa individuare “sentieri percorribili” entro uno spazio denso, estremamente “cosificato” poiché interamente arredato con i prodotti derivati dalla lavorazione della canna palustre, siano essi ombrelloni, sedie, piccole poltrone, cappelli, stuoie arrotolate o distese.
Se ad oggi questi prodotti sembrano rientrare nel novero di quelli che Giulio Angioni definisce oggetti «etnico-artistici» (2007: 59), adatti a un consumo circoscritto e richiesti soprattutto da singoli privati, in passato, la canna palustre (Phragmitetum australis) rappresentava una vera e propria risorsa per la comunità locale e per quelle limitrofe, anche e soprattutto in virtù del suo ampio utilizzo nel quotidiano. Come lo stesso Orlando racconta a Cinzia Marchesini e Daniele Parbuono, la canna, infatti, è un “prodotto completo”:
«[…] Perché ‘l prodotto de la canna è stato un prodotto che è completo, nasce la canna, la canna fa ‘n fiore, quel fiore se chiama scopetta e lu’ ha detto che gliel’ho regalata [Indicando Parbuono] c’è anche lì, la scopetta serviva per far le scope la plastica n’ c’era… […] Poi da la… dal fogliame de la canna i foraggi non è che c’erano tanti, però le stalle c’erono e le usavano, […] Poi laa… pulitura de le canne serviva per impajicciare le, le stalle… si è tutto un prodotto… poi la fine de settembre la cannina butta fori sempre, sempre… prima a agosto esce ‘na scopetta che serve pe’ le scope, a settembre la stessa scopetta diventa piuma, piuma e ce se facevano i materazzi i vecchi materazzi quindi se vogliamo prende la canna è completa da la nascita era ‘na risorsa per noi dell’epoca…» [6].
La canna intrecciata era inoltre largamente impiegata nell’edilizia tradizionale, nelle attività vivaistiche, per la fabbricazione di utensili per la cucina e per l’essiccazione del pescato (Parbuono, Rondini 2024b), oltre ad essere tuttora utilizzata, anche se non al Trasimeno, come biomassa per la produzione di energia e in bioedilizia (Marchesini 2021).
Nonostante le trasformazioni intercorse nel tempo relativamente all’uso e al consumo dei prodotti derivati dalla lavorazione della canna, è chiaro come quest’ultima si configuri ancora come una pratica dotata di indubbie qualità ecologiche. Una buona pratica, dunque, che tuttavia non viene riconosciuta, né pertanto ricompresa, dalle politiche paesaggistiche attive su questo territorio, reso oggetto, a partire dal 2004, di rigide disposizioni per quanto riguarda l’uso dei suoli e delle risorse ambientali. Secondo l’articolo 142 del “Codice dei Beni culturali e del paesaggio” (d. Lgs. 42/2004) [7], in continuità con la precedente Legge Galasso (L. 431/85), per 300 metri dalla costa del Lago siamo infatti in presenza di «aree tutelate per legge». Le severe limitazioni imposte da questa normativa ben dialogano con quelle riconducibili alla Legge regionale che, nel marzo 1995, ha istituito il parco del Lago Trasimeno, individuandolo quale area naturale da tutelare «al fine di conservare, difendere e ripristinare il paesaggio e l’ambiente, di assicurare il corretto uso del territorio per scopi ricreativi, culturali, sociali, didattici e scientifici e per la qualificazione e valorizzazione delle risorse e dell’economia locale» (Art. 4, comma 2) [8]. Su questa scia di normative si inserisce infine il Rapporto ambientale del Parco del Lago Trasimeno (2015), redatto dalla Regione Umbria, che riconosce il valore della canna palustre come risorsa ambientale, impedendo l’accesso al canneto. È chiaro come le disposizioni appena tratteggiate marginalizzino Orlando e la sua attività, interamente basata sull’utilizzo di una materia prima diventata indisponibile, pur essendo ampiamente presente a pochi metri dal suo luogo di lavoro. Ora, Orlando si trova costretto ad acquistare la canna dal Bangladesh: da qui, il materiale arriva a Bari, dove viene sdoganato e trasportato a San Savino.
La sua perdita di diritti non ha tuttavia solo a che fare con il negato accesso alla risorsa necessaria alla sua attività produttiva, ma chiama in causa un più ampio processo di trasformazione delle relazioni con il proprio ambiente di vita: quello del Lago, appunto. Un ecosistema senza dubbio complesso, ma per Orlando spazio intimo, «abitato e incorporato» (Parbuono, Rondini 2024b: 80); il suo modo di viverlo e raccontarlo tratteggia un paesaggio che può essere compreso facendo riferimento a un «modello dialogico di patrimonio» (Harrison 2020: 194), entro cui coesistono specialismi diversi, ma che le normative tendono a separare. L’impressione prevalente è che quest’ultime interpretino il Lago come qualcosa di concettualmente e spazialmente isolabile, all’interno dell’ambiente, umano e non umano (cfr. Latour 2005, Lai 2020), circostante; quella di Orlando è invece visione pienamente integrata, non scomponibile, del territorio in cui vive, delle sue risorse e dei loro destini, esito di un’”ego-ecologia” [9] sviluppata nel corso del tempo.
Egli è dunque, a tutti gli effetti, un coautore del paesaggio che abita, ma non è riconosciuto come tale dalle pianificazioni che agiscono su questo stesso paesaggio, al fine dichiarato di tutelarlo. Lo stesso discorso può essere esteso alla comunità locale che storicamente si è presa cura di questo habitat, in modo continuativo e capillare, attraverso pratiche necessarie a mantenere il canneto sano, come la pulizia dei canali o il taglio dei culmi [10] secchi. Si trattava (e si tratterebbe tuttora) di operazioni necessarie, visto che le canne, se non tagliate ogni anno, marciscono, contribuendo a generare una condizione insalubre rispetto all’equilibrio complessivo del sistema ambientale lacustre.
Il punto di rottura è evidente: da un lato, l’orizzonte normativo precedentemente descritto mette a punto un nuovo lago, un paesaggio uniforme e cristallizzato su cui agiscono rigide forme di tutela di contesti e risorse; dall’altro, le ricadute procedurali di questi strumenti sottraggono visibilità ai mondi locali e alle esperienze situate di chi quei luoghi li abita da tutta la vita, con le proprie memorie, i propri saperi, le proprie letture, arrivando persino a escluderli. Il rischio è quello che si finisca per produrre “comunità di carta” [11], esito di prassi istituzionali e politiche di pianificazione caratterizzati da processi oggettivanti e scarsamente differenziati, in grado di generare vere e proprie contraddizioni su un piano ecosistemico.
Entro la cornice fin qui descritta, l’oblio a cui sembrano andare irrimediabilmente andare incontro le pratiche minute e situate di Orlando denuncia il rischio di una “perdita di senso”:
«diventa un margine da cui guardare ai processi di tutela prendendo atto della distanza tra la retorica dei progetti di pianificazione e di “gestione partecipata” delle cosiddette diversità culturali – soggetto privilegiato, peraltro, dei quadri normativi di tutela internazionali – e quanto realmente accade. Per seguire il flusso del “reale” i procedimenti di tutela dovrebbero configurarsi come strumenti temporanei, non definitivi, aperti allo stesso cambiamento che caratterizza paesaggi e luoghi, collaborativi poiché parte di un processo di interazione e pure di costruzione dei molteplici immaginari delle identità» (Parbuono, Rondini 2024b: 82-83).
Ma quella di Orlando è anche una storia di resistenza; pur nell’impossibilità di prendersi cura del canneto e, più in generale, dell’ambiente in cui ha trascorso tutta la vita, egli mette in atto strategie che permettono al suo sapere di adattarsi e riprogettarsi, all’interno di politiche paesaggistiche che non lo riconoscono.
Questa sua capacità di resistere ci esorta, in quanto antropologi, ad essere ascoltatori attivi e partecipi; ad assumere, dunque, una postura che sia in grado di favorire processi di cura dei patrimoni immateriali e delle comunità che ne sono portatrici, valorizzando i molteplici, spesso contrastanti, punti di vista delle diverse parti in causa. Ciò al fine di orientare progettualità e azioni verso «una politica democratica dei beni culturali» (Seppilli 2008b: 193), immaginando futuri possibili entro cui le comunità locali risultino coautrici dei processi decisionali che riguardano i loro ambienti di vita.
Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024
[*] Il primo paragrafo è stato scritto da Michela Buonvino, il secondo da Daria De Grazia e il terzo da Elisa Rondini.
Note
[1] Hanno collaborato all’organizzazione dell’iniziativa l’Associazione “Antico e Moderno” e l’ISMEO – Associazione Internazionale di Studi sul Mediterraneo. I seguenti enti culturali hanno conferito il loro patrocinio: Associazione Italiana di Sociologia – Sezione di Sociologia della Religione, Centro Studi su Heritage e Territorio dell’Università Europea di Roma, Consulta Universitaria per la Storia del Cristianesimo e delle Chiese, Fondazione “Ignazio Buttitta”, ICSOR – International Center for the Sociology of Religion, Scuola di Specializzazione in Beni Demoetnoantropologici dell’Università degli Studi di Perugia, SIAC – Società Italiana di Antropologia Culturale, Simbdea – Società italiana per la Museografia e i Beni Demoetoantropologici, SISR – Società Italiana di Storia delle Religioni.
[2] Hanno partecipato alla tavola rotonda Mara Bernardini e Erika Grancagnolo, autrici di un altro contributo pubblicato in questo numero di Dialoghi Mediterranei, intitolato “Dalle Pro Loco al real fantasy: forme di patrimonializzazione e costruzione identitaria”, Emanuele di Paolo, autore di un articolo pubblicato in questo stesso numero, dal titolo “Il Carnevale di Tricarico. Una riflessione sul cambiamento culturale di una comunità patrimonializzata”, e Jacopo Trivisonno.
[3] Recupero questa espressione da un testo di Alessandra Broccolini (2020: 28).
[4] Su queste tematiche si veda De Grazia 2024.
[5] Il presente lavoro si colloca nell’ambito del Prin “Abitare i margini, oggi. Etnografie di paesi in Italia” (PI – Daniele Parbuono – 2020EXKCY7), progetto finalizzato a comprendere strategie innovative e di avanguardia dell’abitare prodotte in luoghi marginali, intesi come spazi dove esplorare il presente e i possibili scenari futuri (Cfr. Parbuono, Rondini 2024a). Per maggiori informazioni si rimanda al sito dedicato, raggiungibile attraverso il seguente link: https://abitare.fissuf. unipg.it (consultato in data 27 settembre 2024). La ricerca qui discussa è anche parte della collaborazione attivata nel 2022 tra la Scuola di specializzazione in Beni demoetnoantropologici dell’Università degli Studi di Perugia (in convenzione con le Università della Basilicata, di Firenze, di Siena e di Torino, sede di Castiglione del Lago, Pg) e l’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale del Ministero della cultura per la realizzazione del progetto “Tutela e salvaguardia dei saperi e pratiche patrimoniali tradizionali di testimoni viventi a rischio di scomparsa”. Per approfondimenti su questo tema si rimanda a: Marchesini 2021, Parbuono, Rondini 2024b.
[6] Intervista a Orlando Zoppitelli, realizzata da Cinzia Marchesini e Daniele Parbuono il 17 agosto 2020 a San Savino (Cfr. Marchesini 2021).
[7] Per il testo integrale del decreto si rimanda al seguente link: https://www.gazzettaufficiale.it/atto/serie_generale/caricaDettaglioAtto/originario?atto.dataPubblicazioneGazzetta=2004-02-24&atto.codiceRedazionale=004G0066 (consultato il 9 ottobre 2024).
[8] Per il testo integrale della legge si rimanda al seguente link: https://leggi.alumbria.it/mostra_atto.php?id=125966&v=FI,SA,TE,IS,VE,RA,MM&m=5&datafine=19950316®olamento=0 (consultato il 5 ottobre 2024).
[9] Il concetto si deve a Cinzia Marchesini, la quale, nel suo percorso dottorale seguito dal tutor Fabio Mugnaini, ha riconosciuto quella di Orlando come un’ecologia personale che lo vede immerso in una fitta rete di relazioni con l’intero sistema naturale lacustre (cfr. Marchesini 2021).
[10] Fusti delle piante non legnificate.
[11] Il concetto è stato proposto da Fabio Mugnaini, Daniele Parbuono ed Emanuela Rossi nel titolo di uno dei panel del Quarto Convegno Nazionale SIAC “Il ritorno del sociale”, Sapienza Università di Roma, 21-23 settembre 2023: “Mondi sociali, comunità di carta. Antropologia e pratiche del patrimonio”. Si veda: https://www.siacantropologia.it/panel-23/ (consultato in data 9 ottobre 2024).
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Michela Buonvino è attualmente assegnista di ricerca presso l’Università degli Studi del Molise e si occupa di patrimoni bioculturali e di rigenerazione territoriale a partire dal lavoro a base culturale. È docente a contratto di antropologia del mondo globale contemporaneo presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia (SIE). È dottoressa di ricerca in M-DEA/01 (Sapienza Università di Roma). Dal 2018 conduce una ricerca sul campo a Sefrou e a Fès (Marocco). La sua tesi di dottorato concerne le relazioni tra performance culturali, politiche dell’identità e processi di formazione di una sfera pubblica islamica nel Marocco contemporaneo. Si occupa, inoltre, di processi di patrimonializzazione, eventi festivi e migrazioni.
Daria De Grazia, antropologa culturale e specializzanda presso la Scuola di specializzazione in Beni Demoetnoantropologici di “Sapienza” Università di Roma, si occupa di patrimoni immateriali, musei DEA, religiosità, migrazioni e antropologia visiva. Dal 2018 conduce una ricerca etnografica con la comunità peruviana di Roma sulle tematiche del festivo e delle migrazioni. Attualmente svolge ricerche etnografiche in Lazio e Campania nell’ambito del progetto PRIN 2020 “Abitare i margini oggi. Etnografie di paesi in Italia” e sta effettuando una ricognizione di musei ed ecomusei di interesse antropologico nell’ambito del progetto PRIN 2022 “Musei ed ecomusei. Spazi patrimoniali di partecipazione attiva”.
Elisa Rondini, Phd in Scienze Umane (curriculum antropologico), è assegnista di ricerca, docente a contratto di Antropologia culturale presso l’Università degli Studi di Perugia e di Etnografia dei patrimoni DEA presso la Scuola di Specializzazione in Beni Demoetnoantropologici (Università degli Studi di Perugia). Ha contribuito a vari progetti e pubblicazioni sui temi dei disturbi del neurosviluppo, della neurodiversità, della qualità di vita e della spiritualità. I suoi interessi di ricerca includono l’antropologia medica, l’etnopsichiatria, la salute mentale di comunità, le reti sociali e le risorse comunitarie, i processi di trasformazione dei territori, le pratiche abitative, i patrimoni e le dinamiche patrimoniali, le teorie e i metodi della ricerca etnografica.
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