di Ninni Ravazza [*]
“La mia casa era sul porto. I miei sogni in riva al mare”
Un ragazzino di paese dai piedi d’oro che all’odore della gloria calcistica preferisce il profumo delle alghe di mare. È la storia di Giuseppe “Peppiceddo” Barraco nato a San Vito lo Capo il 22 ottobre 1951, figlio e nipote di pescatori, padre di un giovane pescatore, armatore di un moderno peschereccio, che a un certo punto della sua vita sarebbe potuto diventare un calciatore di serie A e invece ha scelto di non abbandonare il mare che da generazioni dava da vivere alla sua famiglia. È una storia bella perché non c’è rimorso per i successi sportivi rifiutati – al massimo un po’ di rimpianto – ma piuttosto l’orgoglio di avere proseguito nella professione che fu del padre e del nonno, e la consapevolezza di avere lasciato un’eredità morale e professionale al suo unico figlio.
A ben guardare è anche un poco la vicenda sociale e umana del paese di San Vito a lungo sospeso fra tradizione e turismo, tra memoria e futuro, dove una squadra di giovanissimi giocava nella piazza triangolare con le dune di sabbia a fare da spalti e ora invece milita nella serie d’Eccellenza, anticamera del calcio semiprofessionistico.
All’inizio degli scorsi anni ‘70 in concomitanza con l’affermarsi del turismo che rivoluzionò l’economia locale almeno quattro giovani sanvitesi hanno militato nelle categorie superiori passando dall’asfalto della piazza Marinella agli stadi con le ampie tribune. Il paese nel frattempo si riempiva di alberghi e ristoranti e le dune venivano spianate per farci una strada parallela al bagnasciuga.
In barca come sul campo di calcio Giuseppe si porta dietro il suo soprannome “Peppiceddo” per la struttura fisica potente e compatta ma non slanciatissima; è una caratteristica di famiglia visto che anche il papà Pietro era chiamato “Petrineddo” [1]. L’affettuoso diminutivo affibbiatogli non impedirà a Giuseppe di diventare uno dei migliori centrocampisti siciliani, conteso dalle squadre isolane e giunto sino alle soglie del calcio nazionale dove avrebbe voluto accompagnarlo un osservatore in vacanza a San Vito.
Il mare e il calcio, i due grandi amori di Peppiceddo. Mi ero sempre chiesto cosa provasse un giovane e promettente atleta che rinuncia alla possibilità di diventare un campione per restare nel suo mondo fatto di sveglie all’alba, duro lavoro e dolci affetti familiari. Una tiepida e luminosa mattina d’inverno è stato bello ascoltarlo a lungo seduto sul bordo della sua moderna barca mentre rammendava le reti strappate dagli scogli.
“Fu una sera di gennaio che mio padre mi portò / su una barca senza vela / che sapeva dove andare …”
Giuseppe inizia a lavorare a mare giovanissimo ma già allora il pallone era parte della sua vita: «Prima che facessi la vita del pescatore giocavo a calcio nella squadra locale che si chiamava Costa Gaia, a San Vito non mi pagavano, non ho mai giocato a San Vito per soldi ma per passione, per il piacere di giocare per il mio paese; nel mentre andavo a scuola, ho fatto la terza media qui a San Vito, poi ho frequentato il primo anno di Ragioneria a Trapani ma per motivi finanziari e anche di poca volontà mia non ho più continuato. Con papà sono andato a lavorare quando ho smesso di studiare, all’inizio andavamo a pescare con lo specchio [2], poi lui divenne troppo anziano e non poté più lavorare per motivi di età e salute e così la sua professione la continuai io, ho imparato, ho fatto lo specchiaiolo con barchette da 20 palmi [3], il motore serviva solo per spostarci da un posto all’altro ma per il tipo di lavoro che facevamo con lo specchio non serviva perché ci muovevamo a remi, io inizialmente mi mettevo ai remi e papà guardava a mare, poi abbiamo preso un altro marinaio e io mi sono messo con lo specchio dalla parte opposta della barca rispetto a papà, così potevo imparare, mi diceva mio padre “guarda bene quello che io sto facendo, solo così puoi imparare il lavoro”. Noi con lo specchio prendevamo tutti i pesci di scoglio, saraghi, ombrine, cernie, occhiate, i fondali di allora secondo l’esperienza che posso avere oggi erano molto più puliti, non c’era questo inquinamento, questi problemi economici che adesso abbiamo non esistevano perché c’erano i pesci e la pesca era un’altra cosa, ci si campava … oggi non più».
Barche e campi di calcio erano il mondo di Peppiceddo, due realtà che lui riusciva a far convivere grazie ad una passione enorme supportata da una condizione fisica straordinaria.
«Quando giocavo col San Vito in Prima categoria alle volte finivo di lavorare a mare giusto in tempo, scendevo dalla barca e andavo direttamente a giocare, ero già iscritto nell’elenco dei calciatori, entravo in squadra subito, non facevo nemmeno il riscaldamento, noi vivevamo un calcio, come posso dire, non professionale, non come oggi che anche in Lega giovanile già sembrano tutti professionisti, una volta questa cosa non esisteva, ci potevamo permettere di giocare senza fare allenamento prima, senza riscaldamento, senza massaggi, senza niente, giocavamo così … per me veniva prima il lavoro e poi il calcio, ma forse era sbagliato perché con le qualità che avevo avrei dovuto pensare prima al calcio».
“Diventavo marinaio, ero pronto per partire …”
Il salto di categoria per il giovanissimo centrocampista sanvitese è arrivato presto, e con esso i primi guadagni.
«Sono venute persone, dirigenti sportivi che mi conoscevano, mi avevano visto giocare col Costa Gaia e mi volevano nelle loro squadre. Prima con l’Alcamo che era in serie D ma lì ci sono stato poco, soprattutto la mia carriera di giocatore si è svolta col Salemi che militava nella Promozione. Allora c’erano Promozione, serie D e serie C, poi la B e la A, non c’erano tutte queste categorie di oggi, quindi la serie D era già davvero quasi per i professionisti, ho giocato anche con la Rappresentativa dei semi professionisti siciliana. Avevo uno stipendio di circa 330.000 lire al mese che in quegli anni era un ottimo stipendio perché lo stipendio di un muratore era di 300.000 lire, 10.000 lire al giorno, però io facevo due professioni, ero calciatore e poi andavo a lavorare a mare con mio babbo. Come conciliavo le due cose? Facevo gli allenamenti di pomeriggio a Salemi e le partite la domenica, prima andavo a lavorare la notte, mi alzavo a mezzanotte e mezzo, l’una, e la mattina tornavo a terra e poi prendevo l’autobus per raggiungere la sede della partita, dormivo sopra il bus per riposare prima di giocare. Capisco che questa era una cosa che non tutti avrebbero potuto fare, ma per me era normale. Giocavo bene, ero molto apprezzato e tanti mi dicevano che avevo qualità superiori ad altri giocatori, insistevano che potevo andare a giocare in altre categorie superiori ma io per motivi di lavoro, per motivi finanziari, non sono mai andato, non ho mai scelto di andare. Questo forse è stato un mio grande errore».
“Poi mi disse figlio mio / questa rete è la tua vita …”
Giuseppe Barraco ha visto passare davanti alla sua casa di San Vito il treno per la serie A, ma non ci è salito. Ricorda quel fatto senza recriminazioni né rimprovero per i genitori che non vollero lasciarlo andare.
«In quei tempi non avevamo il padre o la madre capaci di capire cosa significava andare a fare il calciatore professionista. Un dirigente della Fiorentina in vacanza a San Vito mi ha visto giocare e mi ha invitato ad andare a giocare con i giovanissimi della squadra, si trattava di lasciare il paese e la famiglia, io sono figlio unico, mia madre ha detto no, papà mi diceva “dove devi andare? noi abbiamo solo te”, in buona fede non avevano capito quale futuro potevo avere, probabilmente se invece di vivere a San Vito avessi vissuto a Palermo o comunque in una grande città avrei avuto un grande futuro come giocatore, me l’hanno sempre detto i competenti che avevo le qualità di poter fare un calciatore anche di serie A. Mi ricordo che me lo ripeteva sempre Fulvio Castaldi, ex giocatore professionista del Trapani, insisteva che ero giocatore di categoria superiore, seria B o A. Io in campo avevo caratteristiche mie, tecnicamente ero molto forte e potevo fare un’ora e mezza a correre senza mai fermarmi, diciamo che adesso potrei paragonarmi a livello di fiato a Gennaro “Ringhio” Gattuso, ma con i piedi ancora più buoni. Cosa ho pensato quando i miei genitori non mi hanno lasciato andare a Firenze? Quando noi avevamo 13-14 anni non è come adesso che i ragazzi sono, diciamo, più emancipati, allora nemmeno io avevo capito fino in fondo, non ero mai uscito di casa e quindi non avevo neanche il coraggio di imporre a mia madre la mia volontà, dirle “no, io ci vado” e così ho continuato a giocare qui e ho chiuso la carriera di giocatore a Salemi dove ho giocato da 19 a 24 anni. La squadra era in Promozione, a me piaceva giocare a Salemi perché mi pagavano bene, mi davano uno stipendio più alto degli altri, ero il più pagato, mi erano anche venuti a cercare per giocare in qualche altra squadra ma non avevo la certezza dello stipendio, così sono rimasto col Salemi, squadra per la quale sono stato uno dei migliori giocatori dell’epoca. Io mi sono sposato giovanissimo, avevo 24 anni e mezzo e ancora giocavo a Salemi, mia moglie in un primo tempo era contenta ma col tempo ha visto che essendo semiprofessionista andavo in ritiro, stavo spesso fuori, e cominciò ad avere delle perplessità, poi però superò tutto perché sapeva che quando io giocavo a calcio ero felice e quindi lei era felice anche per me».
“Sulla rotta di Cristoforo Colombo / io volevo andare via …”
Niente Firenze da giovanissimo, ma addirittura l’America da adulto.
«Ho smesso di giocare a calcio e di fare il pescatore, ho abbandonato i miei due mondi perché me ne sono andato in America, a Detroit in Michigan dove non c’è il mare, mia moglie aveva lì una sorella, ho lavorato con mio cognato come muratore, ho cambiato professione. A San Vito papà andava ancora a mare, aveva una sessantina di anni, lavorava sempre. Non sono stato in maniera continuata in America, andavo avanti e indietro, questo per 20 anni dal ‘79 al ‘99, un anno o due di lavoro, poi tornavo, stavo un po’ e me ne andavo nuovamente perché ero figlio unico e mi piaceva stare vicino a mio padre e mia madre. In America è nato mio figlio ma quando ha compiuto cinque anni e mezzo siamo tornati a San Vito. A Detroit mi trovavo bene perché c’era la soddisfazione di guadagnare molto meglio di qua dove pure avevo i due stipendi di pescatore e di calciatore, poi però ho capito che mio babbo incominciava ad essere più grande, poteva avere bisogno di me che ero l’unico figlio. Ho pensato di tornare, qui non c’era il problema di come vivere, il mare era pronto ad accogliermi di nuovo»
“Ogni giorno c’è chi parte verso isole lontane …”
Giuseppe Barraco ha vissuto sulla propria pelle il cambiamento delle due realtà che lo hanno forgiato come uomo e come professionista.
«Ho visto cambiare due mondi, la pesca e il calcio, ho visto cambiare anche il mio paese, ho visto cambiare le persone, ho visto cambiare il modo di vivere … anche adesso che ho una certa età continuo ad andare a mare per dare una mano a mio figlio che pur avendo studiato, si è diplomato, ha voluto continuare la professione che facevo io, gli dicevo di non farlo perché oggi non conviene più mentre prima sì, glielo dicevo per un fattore economico e non per altro perché la mia professione sono orgoglioso di averla fatta, è un lavoro pulito che mi è sempre piaciuto, è onesto. Certo i tempi a mare sono cambiati velocemente. Dopo il gozzo di 20 palmi ho cominciato a prendere barche sempre più grandi, poi è stato mio figlio che si chiama Pietro come mio padre e ha compiuto 40 anni a dirmi “papà ma con queste barche piccole cosa possiamo realizzare?”, pensava che con una barca grande sarebbe stato meglio; in effetti a quel tempo non aveva torto, con le barche grandi prima era meglio ma adesso invece è peggio perché la pesca va sempre a indietreggiare, si pesca di meno e quindi ci sono problemi per le spese di gestione molto maggiori. Comunque mi ha convinto a realizzare questa barca, io ne avevo le possibilità, ho un solo figlio e ho voluto farlo contento facendo costruire dai cantieri trapanesi una barca all’avanguardia, in vetroresina lunga 10 metri e con una velocità di 22 nodi, un motore di quattrocento cavalli: il consumo è notevole però ci sono anche grosse soddisfazioni perché navigando veloci si può andare più lontano, fai prima a raggiungere la zona di pesca, hai più sicurezza a mare, quando scende il cattivo tempo fai in tempo a sfuggirlo, insomma ci sono anche tanti lati positivi. Mio figlio ha imparato a fare il pescatore guardando me, come ho fatto io con mio padre, anche lui ha cominciato ai remi quando io facevo lo specchiaiolo e fu proprio allora che mi ha detto “ma perché fare questa piccola pesca, perché non facciamo una pesca con una barca più grande?”, e così l’ho fatto contento. Anche il calcio non è più come quello di prima, cuore e generosità, adesso secondo me è solo business mentre il calcio una volta era calcio vero, sincero, perché oggi si parla di somme proprio enormi, è impensabile poter dare tanti soldi a un giovane che inizia a fare il professionista, questo è il mio parere e non lo dico certo per invidia perché i guadagni ai miei tempi erano modesti, per me questo è quello che ha rubato l’anima bella al calcio».
“… Negli occhi e nel mio cuore ho le stelle …”
Mari dagli orizzonti infiniti e rettangoli di gioco, l’immensità e i confini disegnati dalle linee bianche, passione e avventura, istanti che restano nella mente e nel cuore.
«Certo ho vissuto episodi belli e brutti sia nel calcio che nella pesca, ma preferisco ricordare solo quelli positivi. Di bello nel calcio … a me non piace tanto raccontarlo perché potrebbero pensare che si tratti di vanagloria … a parte che ero sempre uno dei migliori in campo, mi chiamavano Barraco “la tigre”, tigre perché giocavo proprio con cuore e zelo, ero grintoso, e anche fuori casa, a Palermo, a Monreale, quando facevo delle partite straordinarie, giocate particolari, pure il pubblico locale mi riempiva di applausi e mi veniva a salutare, e tanti mi dicevano “perché continuare sempre a giocare qui, perché non vai fuori in grandi squadre?”. Sono episodi che mi sono rimasti davvero nella in mente. A mare la più grossa soddisfazione è stata quando andavo con lo specchio e ho preso mille chili di ricciole con le reti, una vera lotta, noi contro i pesci, perché loro volevano scappare via e noi volevamo prenderli, per me è stata una soddisfazione enorme, una pescata eccezionale, un po’ come quando facevo i numeri in campo col pallone. In generale la soddisfazione a mare è quando dimostri di essere capace di prendere i pesci, questa è la maggiore soddisfazione che può avere un pescatore, quella di poter vivere dignitosamente, campare una famiglia, essere bravi nel lavoro e nella vita, queste sono le vere soddisfazioni».
“Ogni sera torno a casa / con il sale sulla pelle …”
Una passione infinita scorre negli occhi di Giuseppe Barraco quando ricorda la sua vita, ma oggi Peppiceddo nel cuore si sente più calciatore o pescatore?
«Certamente più pescatore dentro di me … pescatore, uomo di mare, il mare che è stata la fonte di vita per tutta la mia famiglia. Però c’è anche un po’ di rimorso perché sarei potuto diventare un calciatore professionista, la nostalgia per non aver potuto fare il calciatore cosa che mi avrebbe assicurato un guadagno non indifferente. Chissà, magari oggi sarei un allenatore … quando sono tornato dall’America sono venuti in tanti, da Salemi in particolare, volevano che io andassi a fare l’allenatore ma sempre per motivi di lavoro ho rifiutato, a Salemi mi avevano offerto un milione di lire al mese, a fine anni ‘90 non erano pochi. Avevo lasciato un ottimo ricordo sui campi di calcio, tanti giocatori anche di serie D che mi conoscevano mi chiedevano come mai non fossi diventato un giocatore professionista e aggiungevano che loro avevano fatto una carriera migliore della mia pur essendo meno bravi. Ricordo ancora che il giocatore Mariano Gabriele del Trapani che allora militava in serie C diceva sempre che l’unico ragazzo di San Vito che poteva diventare calciatore di serie A era Giuseppe Barraco. Comunque ancora oggi il calcio lo seguo sempre, il Milan è la mia squadra del cuore».
“Mentre invece qui nel porto / io comincio ad invecchiare …”
Giuseppe Barraco è orgoglioso del suo lavoro di pescatore ma nutre forti dubbi sul futuro di questa professione.
«Il pescatore per me non ha un futuro. Io una volta andavo a pescare con mille passi [4] di rete, adesso vado con duemila e pesce ne prendo di meno, che significa? Che la pesca va sempre a indietreggiare, quindi si affrontano costi maggiori per il carburante e il materiale e poi quando vai a vendere il pesce la soddisfazione di guadagnare non c’è più. È cambiato anche il gusto della gente, una volta si campava pescando i bisi [5], le salpe, ora la gente non li vuole più questi pesci, si vede che la gente sta tutta bene economicamente perché il pesce povero non lo vuole nessuno, una volta noi il pesce povero lo mangiavamo o perché non potevamo comprare quello più costoso o perché eravamo abituati così. Oggi invece nessuno vuole più ope [6] né bisi e salpe e ciò comporta che questi pesci è inutile prenderli, e così aumentano i problemi perché mentre una volta si vendeva tutto e si vendeva meglio di adesso, ora si vende di meno e pesce se ne prende di meno, quindi perché fare il pescatore? A mio figlio dico sempre di smettere di fare il pescatore ma lui ancora non mi vuol sentire perché è appassionato, lui crede ancora a questo mestiere anche se con quanto si guadagna è sempre più difficile mantenere una famiglia. Io non lo so cos’è che lo appassiona tanto, io posso dire perché ha appassionato me: intanto perché mio padre faceva il pescatore e io andando con lui ho imparato e più imparavo più mi piaceva, ho iniziato facendo lo specchiaiolo e questo è molto bello perché è come se tu fai la pesca subacquea però anziché farla con la mascherina la facevo con lo specchio da sopra la barca e questo mi coinvolgeva perché vedevo tutto ciò che volevo catturare, inseguivo i pesci, li circondavo, era come essere sul fondale insieme a loro. Certamente è una vita durissima però hai la possibilità di essere autonomo, di fare quello che piace, e io sono caratterialmente uno a cui non piace essere comandato, voglio fare quello che mi piace mentre quando vai a lavorare per gli altri giustamente ti devi attenere a quello che ti dicono di fare. In realtà la pesca a me piace e io sono orgoglioso di essere un pescatore, è una professione autonoma, onesta, pulita. Violenza tra noi pescatori non ce n’è stata mai, magari c’è invidia perché ognuno vuole prendere più degli altri, ma è una questione di orgoglio, deve finire lì».
La risposta al perché Pietro Barraco jr., nipote di Petrineddo, non vuole abbandonare la professione del padre e del nonno la fornisce dunque lo stesso Peppiceddo: «Mio figlio è contento di fare questo lavoro, lui è felicissimo di fare questo lavoro, ha pure voglia, gli piace, è bravo …». Si chiama voglia di libertà, e oggi con la Pescaturismo si sono aperti nuovi orizzonti per i pescatori soprattutto nei borghi marinari coinvolti dai flussi turistici: «La nostra barca, grande moderna e sicura, si presta benissimo, chissà che non sia questa la soluzione alla crisi della pesca».
“E una notte senza stelle ho visto Dio / era ad ovest di Tahiti”
San Vito lo Capo pur essendo un paese di pochi abitanti (cinquemila scarsi) ha sfornato campioni sia a mare – e questo può rientrare nella norma essendo un importante centro peschereccio – sia nel calcio, e questa è davvero una singolarità. Tantissimi sono i giovani locali che hanno calcato i campi da gioco ottenendo ottimi risultati e per tutti mi piace ricordare, oltre a “Peppiceddo” Barraco, anche Santo Graziano, difensore arcigno alla Burgnich, e Diego Ciantro, ala sinistra con notevole velocità, e soprattutto Salvatore “Pelè” Sugameli, un difensore centrale dalla eccezionale struttura fisica che è arrivato in serie C col Trapani alla fine degli anni ‘60.
Pelè Sugameli ricorda sorridendo i suoi inizi da calciatore col Castellammare: «Il premio partita era … una cassatella fritta ripiena di ricotta»; poi arrivarono L’Entello-Erice, il Salemi e la Nissa, già nel semiprofessionismo, e infine l’apoteosi nel Trapani calcio alle porte della serie B. Anche per Salvatore a un certo punto si aprirono le frontiere nordamericane col trasferimento a metà 1970 in Canada dove ha giocato in serie B. Il ritorno a San Vito con la famiglia, il lavoro al Comune, la pensione, l’apertura di attività commerciali per i figli, i ricordi di un calcio bello e genuino. Per lui non c’è stato il trauma della scelta obbligata tra due mondi, ha intrapreso nuovi impegni lavorativi solo dopo aver chiuso col calcio.
“Ogni sera guarda il mare / e non ha niente da dire”
La ex piazza Marinella triangolare, campo di calcio affacciato sulle dune di sabbia sostituite da una strada litoranea bella e inutile, oggi intitolata all’ex sindaco Carlo Barbera che salvò il paese dalla speculazione edilizia affidando l’incarico di redigere il Piano regolatore generale all’architetto bolognese Pier Luigi Cervellati, è divenuta un popolare salotto sovrastato dalle palme dove si giocano appassionate partite di Scacchi giganti (la stessa intitolazione è da più parti criticata non essendo il sindaco Barbera originario di San Vito, dimenticando che la mafia colpita negli interessi speculativi fece saltare la sua villetta con la dinamite); le modeste case in tufo che si vedono nelle fotografie d’epoca sono state sostituite da alberghi, bar, ristoranti e B&B; la locale squadra di calcio che milita in serie di Eccellenza ha nella rosa solo cinque giocatori nativi di San Vito; molti giovani si diplomano ma poi vanno a lavorare per cinque o sei mesi negli alberghi e nei ristoranti, aspettando per il resto dell’anno il sussidio della “Disoccupazione”; la flotta peschereccia è scesa dalle 50 barche degli anni ‘80 alle attuali 30 e i pescatori si sono ridotti da 110 a 47. Una bella squadretta di Calcio a 5 perpetua la tradizione calcistica sanvitese con atleti locali, ma nessuno oggi si sognerebbe mai di premiare i giovani giocatori con una cassatella di ricotta.
Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024
[*] L’intervista a Giuseppe Barraco è stata realizzata il 27 gennaio 2019; ancora oggi “Peppiceddo” aiuta il figlio Pietro nella gestione della barca ed è uno dei personaggi più conosciuti e apprezzati di San Vito lo Capo. Ho riportato fedelmente le sue dichiarazioni capaci di coinvolgere anche emotivamente il lettore. I brani fuori testo sono tratti da Sulla rotta di Cristoforo Colombo di Edoardo De Angelis e Lucio Dalla. Le fotografie d’epoca del calcio sanvitese sono state concesse dal sito Fb “San Vito lo Capo … il calcio” (grazie all’amministratore Santo Graziano); le altre foto sono dell’Autore.
Note
[1] Pietro “Petrineddo” Barraco negli scorsi anni ‘60 fu protagonista di un curioso avvenimento: dopo aver ferito con la fiocina una Foca monaca che gli rubava regolarmente i pesci dalla rete nel mare dell’Impisu a San Vito lo Capo, non poté tornare più a pescare in quella zona perché non appena sentiva il rumore del motore della barca la foca si avvicinava e faceva a pezzi le reti (cfr. N. Ravazza, Sirene di Sicilia, Magenes 2010: 90)
[2] Specchio: cilindro di metallo col fondo di vetro attraverso il quale i pescatori scrutano il fondale; “specchiaiolo” è il capobarca che usa lo “specchio”
[3] Palmo: unità di misura impiegata dai carpentieri navali; in Sicilia corrisponde a circa 25 cm.
[4] Passo: unità di misura impiegata dai pescatori per la profondità e la lunghezza delle reti (altrimenti “braccio”): corrisponde a circa 1,80 mt.
[5] Biso: Auxis thazard (Tombarello), tunnìde di piccole dimensioni (massimo 1,5 kg.) dallo scarso valore economico
[6] Opa: Boops boops (Boga), pesce azzurro della famiglia Sparidi, oggi poco richiesto dal mercato (nel mese di marzo in pieno periodo riproduttivo la sua carne in Sicilia è maggiormente apprezzata); viene impiegato soprattutto nelle zuppe.
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Ninni Ravazza. giornalista e scrittore, è stato sommozzatore delle tonnare siciliane e corallaro. Ha organizzato convegni e mostre fotografiche sulla cultura del mare e i suoi protagonisti. Autore di saggi e romanzi, per l’Editore Magenes ha scritto: Corallari (2004); Diario di tonnara (2005 e 2018); Il sale e il sangue. Storie di uomini e tonni (2007); Il mare e lo specchio. San Vito lo Capo, memorie dal Mediterraneo (2009); Sirene di Sicilia (2010; finalista al “Premio Sanremo Mare” 2011); Il mare era bellissimo. Di uomini, barche, pesci e altre cose (2013); Il Signore delle tonnare. Nino Castiglione (2014); San Vito lo Capo e la sua Tonnara. I Diari del Secco, una lunga storia d’amore (2017); Storie di Corallari (2019); L’occhio in cima all’albero (2022; finalista al Premio letterario “Carlo Marincovich” 2023). Dal libro Diario di tonnara è stato tratto l’omonimo film diretto da Giovanni Zoppeddu, prodotto dall’Istituto Luce Cinecittà, in selezione ufficiale alla Festa del Cinema di Roma 2018, di cui l’Autore è protagonista e voce narrante. Tra gli altri suoi libri dedicati al mare: L’ultima muciara. Storia della tonnara di Bonagia (Trapani, 1999-2000-2004); La terra delle tonnare (Trapani, 2000); Il tonno fatato (Sassari, 2003); Un fiore dagli abissi. Il corallo: pesca, storia, economia, arte, leggenda (San Vito lo Capo, 2006); Pesca, stabilimenti e trasformazione del pescato in provincia di Trapani (Università di Bari, 2006); Epos, eros e thanatos. Il mondo immutabile della tonnara (Venezia, 2010); L’ultimo rais della tonnara Saline. Storia di Agostino Diana (Sassari, 2011); I Suoni del Lavoro. Canti e preghiere dei pescatori siciliani (San Vito lo Capo, 2012); Nicolino il pescatore (Palermo, 2018); I tonni, i cavalier, le feste, gli amori. Storia della tonnara di San Giuliano (Trapani, 2019); Rais. Una storia di mare (Trapani, 2020); Cianchino. L’isola delle illusioni (Roma, 2023). Ha vinto il Premio Nazionale di Giornalismo “Pippo Fava” (1987); il Premio Nazionale “Un video per un Museo” dell’HDS Italia (2001), sezione Mediterraneo, con il video “La tonnara nascosta”; il Premio Internazionale “Orizzonti Mediterranei” 2002 per il sito internet www.cosedimare.com ; nel 2018 per il suo impegno in favore del mare gli è stato conferito il Premio Unesco.
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