di Stefano Montes
Partire, evadere, significa tracciare una linea (Deleuze)È tempo d’estate. È tempo di lasciare andare i concetti in vacanza. È tempo di fare altro. So già all’incirca quanto tempo avrò per la mia vacanza, so bene di quali concetti potrò liberarmi, più facilmente, nell’ozio isolano, nella quiete che fa seguito ai ferventi preparativi. Per quanto riguarda l’agentività, se non dovessi farcela a parlarne come voglio, coniugando stili e contenuti diversi con una scrittura in fuga – «una fuga è una specie di delirio. Delirare significa esattamente uscire dal solco» (Deleuze 1998: 45) – ho sempre una scappatoia per uscire dal solco: posso sempre dichiarare che l’agentività è andata in vacanza e mi ha piantato in asso. In vacanza, per l’appunto. Ma dico ugualmente a me stesso, adesso, ritualmente, per cercare di fermare l’attimo propizio: «Una vacanza, per quanto tempo? E come si attua l’agentività in vacanza?». Mi piace rispondere, a voce alta, con l’usuale frasetta scaramantica: «Per un minuto frammento di secondo immobilizzato nell’eternità dell’improvvisa epifania». Instauro così un dialogo con me stesso: quello che Lotman definirebbe una comunicazione io-io.
Per distogliermi, mi metto allora in cerca di una ‘vera meta’ che tenga all’erta il mio desiderio di fuga dall’ordinario, di evasione dalla vita cittadina. Come al solito, come ogni anno, anticipo la sospensione della vacanza, tuffandomi nei libri che ne parlano. Ne conosco ormai le ragioni. Combatto con cognizione di causa la preavvertita eccedenza del felice vivere in vacanza, circondandomi a più non posso di libri che ne smorzano il valore di iperbole concesso dallo straordinario, il valore di fuga straripante dall’ordinario. Mi concedo all’alterità, ne smorzo tuttavia la valenza. Desidero partire, ma esito pure a sganciarmi dal mio leggero zampillo di vita routinaria al quale sono tutto sommato affezionato. Rimane il fatto che, ogni volta, parto già con l’immaginazione, prima ancora che con tutto me stesso.
Per incominciare, come al solito, mi lascio ogni volta stupire dalla varietà di senso che acquisisce l’autentico per i viaggiatori, per me stesso, per il mio movimento di fuga esistenziale. Per quanto culturalmente costruito, infatti, l’autentico è attribuzione di significato decisiva nella vita ordinaria e straordinaria di un individuo. Il viaggio è, tra le altre cose, proiezione nell’immaginazione mossa dalla quête dell’autentico. Non è sorprendente allora che Lindholm dedichi un intero capitolo, nel suo volume Culture and authenticity, alla ricerca dell’autenticità messa in moto dai viaggiatori. È un tema praticato in antropologia del turismo, ma a me non spiace il suo appello per una antropologia dell’autenticità – dei suoi variegati sensi – visto che, come egli scrive, questa ‘esperienza’ si fonda più che altro sul valore dell’immaginazione: «Le immaginazioni delle persone all’interno di qualsiasi mondo sociale non sono mai esaurite dalle possibilità offerte. Gli individui sognano sovente di qualcosa di più, resistono sempre a ciò che è, fantasticano su ciò che potrebbe essere, cercano sempre il miracolo incarnato dall’estasi al fine di rigettare i limiti dell’ordinario» (Lindholm 2008: 144). In fondo, è quello che sto facendo io, in questo momento, alle prese con la mia immaginazione ‘in carne e ossa’ e con l’immaginazione ‘simulata’ provvista da libri e guide (ce ne sono tante di immaginazioni!).
La situazione è la seguente: sto per partire altrove; sono nel pieno fermento dell’immaginazione che mi ancora allo spazio reale del qui. Per scherzare, rincarando la dose, dico ai miei amici che sono un agente desiderante – dotato, come ogni buon antropologo, di agentività motivata dal desiderio di vivere nell’alterità – il cui pensiero dell’esserci è rimasto un po’ indietro rispetto alle modalità offerte dall’immaginazione già lanciata, da sé, in avanti, nel futuro prossimo, non ancora realizzato. Diciamo che, in me, la molla è l’immaginazione, l’azione vera e propria segue quindi a ruota, mentre la scelta del luogo dove passare le vacanze è sempre molto esitante. Forse. Non so bene ancora. Sono in movimento. Vedremo comunque meglio nel proseguo della scrittura quando la sua forza agentiva, dispiegandosi nelle sequenze del testo concreto, mi chiarirà ulteriormente le idee. E sì, perché la scrittura non ricade fortunatamente sotto il controllo di una mente che la dirige in toto, dall’inizio alla fine, in modo rigido, come farebbe un calcolatore. Come ricorda Deleuze: «Scrivere vuol dire tracciare delle linee di fuga che […] uno si trova addirittura costretto a seguire, in quanto la scrittura è un ingaggio, un imbarco in realtà» (Deleuze 1998: 48).
Mi imbarco dunque nella realtà per viaggiare, mi imbarco nel viaggio per affrontare la realtà attraverso la scrittura. Comunque sia, ciò che conta, adesso, a mio parere, è che tutto questo insieme (comprensivo della scrittura), variamente amalgamato dai singoli individui, fa già parte integrante della magia del viaggio: il ‘durante’ del viaggiare è una sequenza semantica che si collega infatti strettamente alla sua ‘preparazione’ e persino al ritorno a casa e alla immancabile narrazione che ne facciamo a parenti e amici distratti. In altri termini, il viaggio si può rileggere in chiave di sintassi del piano del contenuto le cui sequenze sintagmatiche acquisiscono valore vario in rapporto al contenuto, ma, anche, in funzione dell’ordine ricombinato delle sequenze stesse. Rileggendo alcuni scrittori, Augé arriva a formulare l’ipotesi secondo cui il viaggio si conclude – e acquisisce senso – nella narrazione, tutta domestica, tutta sociale, che ‘costruiamo’ per chi ci vuole (e spesso ci deve) ascoltare. Si parte per tornare e raccontare: il viaggiatore, per essere pienamente tale, ha bisogno di un pubblico e del riconoscimento di una qualche comunità in partenza e in arrivo. In più, benché sembri strano, il viaggiatore moderno è una sorta di semiotico – talvolta provetto, talvolta in erba – che mette in pratica un principio fondamentale: quello di vivere nei segni e di tradurne, talvolta senza saperlo, le molteplici forme del contenuto e dell’espressione poste da una sostanza all’altra dei diversi linguaggi. Al ritorno del viaggio, non solo narriamo oralmente, il bello è che mostriamo pure video artigianali, infinite serie di foto, inesauribili collezioni di souvenir. Perché, come si direbbe in semiotica, la narrazione non è mai confinata all’oralità o alla scrittura, ma si estende a qualsiasi forma di sostanziazione segnica, persino all’apparente fermo immagine della foto. Non avrebbe tutti i torti allora Urry a insistere sul valore dello sguardo nella costituzione coagulante delle pratiche turistiche (Urry 1990); forse un po’ meno, secondo me, se l’insieme dell’esperienza turistica è riportata – come credo lui faccia – a un carattere fondamentalmente visivo.
Secondo me, oltre lo sguardo e il suo potere certamente fondativo, il viaggio e l’esperienza turistica ci costringono, tra l’altro, a fare qualcosa di centrale che ingenuamente pensiamo sia relegato al solo ambito letterario: tradurre. Dalla realtà alla cartolina che scegliamo, dal paesaggio allo foto che facciamo, dal vissuto esperienziale al racconto orale, nel viaggio non facciamo altro che tradurre, passando da un sistema di segni all’altro, da alcune equivalenze semantiche ad altre. Lo facciamo incessantemente e non solo. La traduzione intersemiotica che mettiamo in atto nel viaggio è inoltre il frutto di una negoziazione, spesso inconsapevole, di luoghi, immagini e vissuti riprodotti in cui l’immaginazione ha un ruolo di rilievo (Cronin 2000). Che si fa prima, durante e dopo il viaggio? Tra le tante altre cose, dunque, si traduce e si mette in moto l’immaginazione. Nell’ipotesi di Lindholm, ad esempio, il viaggio sarebbe più propriamente collegato allo scollamento esistente tra ciò che siamo e alla motivazione ad andare oltre il vissuto del presente.
Naturalmente, l’immaginazione non è un meccanismo totalmente libero da costrizioni come comunemente crediamo. Tutt’altro. Si immagina per lo più sulla base del sapere precostituito e sullo slancio di una conoscenza mediata talvolta ad arte, con artificio. Nel caso del viaggio, immaginiamo grazie – o purtroppo? – alle narrazioni persuasive che ci fanno le agenzie di viaggio, gli slogan pubblicitari in televisione, gli stessi racconti entusiastici dei nostri amici in cerca di novità. Ovviamente, scoperto questo meccanismo subdolamente manipolativo, ci si può ingegnare al meglio per cercare di sfuggire a quella che Jakobson (1966) definisce la funzione conativa del messaggio: l’orientamento verso il ricevente e la forza di efficacia dei suoi contenuti. Il viaggio (la sua comunicazione, preparazione, tragitto e narrazione finale) è dunque un esempio calzante del modo in cui – lo dico parafrasando intenzionalmente Austin (1987) – è possibile «fare cose con le parole».
Con il viaggio e il turismo siamo dunque in pieno nella questione dell’agentività: nell’agire per interagire o reagire, per fare o per far-fare. Le strategie per evitare le mode ne fanno parte integrante in modi molteplici: da parte di scrittori e persone comuni, viaggiatori incalliti e viaggiatori della domenica. Faccio qui l’esempio di un autore che mi è caro: Maupassant. Questo autore fa parte di una schiera di scrittori che consideravano il viaggio in Italia un passaggio necessario in vista di un’istruzione raffinata, parte integrante della formazione individuale: il Grand Tour era un’arte e al contempo un vero rito di passaggio (Brilli 1995). Si potrebbe dire, di più, che se in alcuni secoli il viaggio diventava una vera e propria istituzione culturale, esso è tutt’ora crescita individuale impostata dalle forme culturali di appartenenza. Il viaggio iniziatico del Grand Tour metteva però, già nel passato, mirabilmente in risalto un principio centrale e pervasivo, essendo scandito da piccoli e grandi riti di passaggio istituiti socialmente, così come da una più generale ‘promozione’ dello scambio tra culture. Per partire, i viaggiatori sono costretti a ‘mettere in valigia’ il loro sapere – Jack e Phipps dicono ‘impacchettare’ (Jack, Phipps 2005) – così come sono costretti a ‘confezionare le culture’ rivelandone, a se stessi e agli altri, le componenti essenziali e marginali. In breve, il viaggio rivela le culture, nonché i modi di lasciarsi assorbire dai suoi linguaggi (o, eventualmente, per prenderne le distanze). Ritorniamo a Maupassant – scrittore, sportivo e viaggiatore della seconda metà dell’Ottocento – per capire meglio, con un esempio breve, i meccanismi di cui parlo. I suoi viaggi sono raccolti in un volume in cui una parte viene dedicata alla Sicilia (Maupassant 1998). Se rileggiamo l’incipit con cura, ci rendiamo conto che l’attacco iniziale è in fondo una strategia precisa sulla base della quale costruire una narrazione sulla Sicilia di tipo argomentativo che vorrebbe avere, cioè, un effetto direttivo sul lettore:
«In Francia, si è convinti che la Sicilia sia un paese selvaggio, difficile e persino pericoloso da visitare. Ogni tanto, un viaggiatore, considerato come davvero audace, si avventura fino a Palermo; quando torna, riferisce che si tratta di una città interessantissima. Tutto qui. In che cosa Palermo e l’intera Sicilia possano essere interessanti, da noi nessuno lo sa di preciso. A dire la verità, è soltanto un fatto di moda. Quest’isola, perla del Mediterraneo, non rientra nel novero delle contrade che è d’uso percorrere, che è di buon gusto conoscere, che fanno parte, come l’Italia, del bagaglio culturale (Maupassant 1998: 19).
Maupassant ‘narra le esperienze vissute’ in Sicilia per dare la sua testimonianza diretta di scrittore; al contempo, ancora più importante, egli ‘narra anche per convincere’ gli altri della giustezza delle sue scelte e del suo modo di essere turista. L’incipit è un bell’esempio di questo sottile meccanismo, sperimentato da alcuni scrittori, in cui narrazione e argomentazione si coalizzano per orientare l’ascolto del lettore. Più in generale, l’idea comune, più ingenua, è tuttavia che la narrazione produca dei racconti più o meno veri per adesione al referente esterno; meno accettato il principio che, narrando, si fa pure leva sul destinatario del messaggio, proponendogli una versione del mondo che si vuol far passare per vera: nel primo caso, si tratterebbe di ricorrere a una narrazione per fare riferimento a qualcosa che avrebbe già un suo carattere prestabilito di verità; nel secondo caso, le modalità attraverso cui si costruisce la narrazione sono costitutive del sembrar-vero del messaggio e, in definitiva, del coagulo di verità specifico.
Il viaggio e la sua narrazione non fanno eccezione a questo principio generale, qui illustrato efficacemente da Maupassant: il modo in cui si organizza e veicola il messaggio produce effetti di un certo tipo e orienta con forza la lettura del destinatario. Gli ‘effetti’, com’è noto, fanno parte integrante del dispositivo agentivo, e il viaggio è un operatore convulsivo di agentività. Più semplicemente, per ‘dire’ il viaggio è necessario scegliere, implicitamente o esplicitamente, alcune modalità di argomentazione di ciò che si è visto (esperito, saputo, etc.) che contribuiscono all’ottenimento di un certo tipo di adesione agentiva del destinatario. Questa adesione è in qualche modo il risultato dell’esercizio di una forza del parlare costitutiva dell’agentività di cui sono muniti gli individui (e i testi che enunciano il simulacro della loro operatività e soggettività). Per esempio, riprendendo l’incipit, la premessa del messaggio di Maupassant è che la Sicilia sembrerebbe essere selvaggia, difficile e pericolosa. A questa premessa, segue, nella formulazione dello scrittore, l’avventura di qualche viaggiatore audace a Palermo che riferisce di una città interessantissima. E, infine, il fatto che nessuno sa in cosa consiste questo interesse, essendo soltanto un fatto di moda, non sostenuto da una ‘vera’ volontà di conoscenza. In tre mosse argomentative, Maupassant raggiunge il suo scopo: dice quale è il suo punto di vista su quello che può essere considerato un rito di passaggio e cerca di avere dalla sua il lettore tramite l’espressione di un giudizio negativo sulla moda come fatto passeggero. Tramite questa strategia, Maupassant, lascia inoltre passare, più clandestinamente, una concezione più ‘vera’ (secondo lui) di viaggio: quella che, non passando per la moda, si propone come acquisizione di conoscenza. Il risultato è che Maupassant non rifiuta in toto il viaggio nei suoi tratti iniziatici; piuttosto, distingue tra uno più alla moda e uno più autentico che dovrebbe quindi essere fondato sulla diversificazione degli obiettivi e sulla visita di luoghi meno noti (come la Sicilia di cui lui parla).
In sintesi: se si viaggia, si dovrebbe allora viaggiare per conoscere e non per moda; viaggiare è un modo per combattere le etichette affibbiate a un paese; il bagaglio culturale lo si deve costituire da sé, senza seguire il gusto corrente che tende a trasformarsi in stereotipo. Diciamo che, all’ingrosso, questi principi valgono pure oggi; non senza sorpresa, sono alcuni dei principi di cui si avvalgono agenzie specializzate, pubblicità e messaggi mass-mediatici per ‘convincere’ i turisti ad aderire a un tipo di viaggio o l’altro (e, ovviamente, trarne un vantaggio economico). Che si tratti dunque di un autore di letteratura o di una pubblicità, la narrazione del viaggio tende a fondarsi su strategie di adesione e di costruzione del vero, dell’autentico e dell’essere agenti-attori ‘qui’ e ‘altrove’ (il viaggio viene spesso configurato come un ‘altrove’ che ha comunque un qualche legame con il ‘qui’ dove si vive e si ritorna). In sostanza, ciò che voglio dire è che la funzione argomentativa fa parte integrante dei modi di definire l’agentività: fare significa cercare di ottenere degli effetti sugli altri anche attraverso strategie discorsive e retoriche adatte allo scopo; talvolta, senza nemmeno ricorrere all’azione fisica vera e propria, si ottengono effetti certi grazie all’uso adeguato di linguaggi specialistici (si pensi, in altri campi, al ‘dire’ dello sciamano o alle preghiere del prete). Per quanto riguarda il viaggiatore, è necessario ribadire il fatto che, da parte sua, ha la possibilità di mettere in atto contro-strategie di scelta adeguate al fine di ritagliarsi un suo percorso di spostamento e di narrazione più specifici e personalizzati, meno vincolati ad alcuni aspetti di moda e al consumismo. A una manipolazione può fare seguito una contro-manipolazione; a una ricerca di efficacia può corrisponderne un’altra altrettanto potente e dissuasiva.
Nella mia prospettiva, dunque, per ricapitolare e tornare alla nozione di autenticità tanto importante nel viaggio, bisogna ribadire il fatto che essa è una nozione densa che va ‘aperta’ semanticamente, retoricamente e culturalmente nei suoi vari e compositi aspetti, collegati inoltre ad altre nozioni e aspetti ugualmente teoricamente ragguardevoli a cui ho fatto riferimento: la ritualizzazione spicciola e/o macrosemiotica degli eventi, la sintagmazione stessa del viaggio e della sua narrazione, la cristallizzazione in moda di un percorso spaziale e la stereotipizzazione di alcuni suoi elementi (così come, ovviamente, il suo processo inverso di creazione di presunta originalità), la regolazione costituiva di ordine/disordine ma anche di ordinario/straordinario, la costruzione retorica e autoriale della narrazione-argomentazione, l’operazione di traduzione intersemiotica oltre che interculturale, il processo graduale di attuazione agentiva e cognitiva in atto prima, durante e dopo il viaggio. Se, dunque, rileggiamo il Viaggio in Sicilia sulla base di questi presupposti, siamo più consapevoli del fatto che l’intero testo scritto di Maupassant è una espansione semantica – contenuta, per contrazione, nell’incipit – della sua idea di percorso originale di viaggio fondato sul principio che conoscere significa soprattutto battere i sentieri meno noti e ritualizzati. Si capisce bene, allora, che l’incipit – sovente letto rapidamente e per lo più trascurato nelle riflessioni d’ordine sociologico – svolge invece una funzione antropologica essenziale non solo per la comprensione dei generi discorsivi inventati da una cultura, ma, anche, per la riflessione sui modi attraverso cui la cultura viene rappresentata da un suo nativo particolare (Maupassant è francese, dunque, un nativo del suo paese).
Per quanto mi riguarda, io direi che, in viaggio, sono più propenso, forse per deformazione professionale, a tradurre in testo scritto o fotografico ciò che vado man mano facendo, nel divenire delle azioni e cognizioni. Diciamo che, più che l’originalità di un percorso, mi interessano i modi attraverso cui processi di viaggio più ordinari tendono a diventare meccanismi di accumulazione di saperi culturali – stereotipati o meno che siano – tradotti in linguaggi interrelati. Per quanto mi riguarda, l’indecisione prende avvio prima del viaggio a proposito della scelta del luogo esatto dove recarmi. Anche se, devo ammettere, questa volta, in questo viaggio, le cose sono andate diversamente. Non ho esitato a lungo nella scelta del luogo dove passare le vacanze. Mi sono posto un paio di domande e la risposta è venuta da sé, nell’arco bruciante di qualche frammento di secondo. Come mi riposo dal tempo del lavoro e dalla frenesia dell’attività? Quale luogo è il più adatto a un siffatto, nobile, autentico, benché talvolta malriposto fine? Non ho fatto in tempo a pensarci su un attimo che, immantinente, la risposta già è balenata, in due movimenti, nemmeno poi tanto distinti l’uno dall’altro: tempo d’estate, tempo di mare. Come in musica, la risposta è arrivata in due quarti e due spesse, isolate sensazioni vissute a fior di pelle. Soluzione in vista? Idee a riguardo? Un, due, e via. Vado in vacanza, volo su un’isola, voglio rilassarmi – ho pensato – nel vellutato dolce far niente del sole che ti scalda e dell’acqua di sale che ti rinfresca. Tempo d’estate, tempo di mare, tempo d’isola, e muta il ritmo della mia prosa in ternario. Sono in fuga, sono già al largo, sono ormai estroflessione di intellezione e sensazione. È un privilegio che un antropologo dovrebbe permettersi: per sfuggire a un tipo di agentività prevista e impostarne un’altra, nella scrittura e nella vita.
Così procedo, qui, per enumerazioni talvolta diadiche, talvolta triadiche, cambiando stile e velocità, ritmo del pensiero e ricomposizione in narrazione. Incominciamo però dal luogo: era ora, Marettimo nelle Egadi, a uno schioppo da Trapani. Ci vado: per mare e per terra, mi immergerò nella natura e nella compresenza straniante degli elementi del paesaggio; in fuga dallo smog e dai cattivi pensieri, passeggerò per i viottoli sterrati e le stradine in ciottolato. In fuga. Per il semplice gusto personale di tenere un ritmo dell’andare al tempo richiesto, contrassegnato dallo spazio a me inconsueto, lo farò senz’altro – alla ilare maniera di Don Abbondio nei Promessi Sposi – buttando verso il muro con un piede qualche sasso che mi fa inciampo al passo. Quale natura? In quale contesto? Come scrive Rimbaud in Sensazione, «trasognato sentirò la frescura sotto i piedi/e lascerò che il vento mi bagni il capo nudo./Io non parlerò, non penserò più a nulla:/ma l’amore infinito mi salirà nell’anima,/e me ne andrò lontano, molto lontano come uno zingaro,/nella Natura». E così, tra un frammento rimaneggiato a mio gusto di Manzoni e un verso riportato a mio uso e consumo di Rimbaud, giorno dopo giorno, ho ceduto – cedo – alla tentazione di vivere nell’apparente inazione dell’isola, nell’alleanza della natura, sotto i raggi del sole infuocato di un’estate rosso incandescente. Inazione? Beh, non ho potuto fare a meno – in tre mosse decisive e fatali per la mia brama di inoperosità inconcludente – di prendere appunti sgorbiati dalla fretta, di fare foto in serie ininterrotta, di leggere libri a perdifiato sul tema. A casa e sul posto; prima di partire e nel bel mezzo della vacanza. Si dirà: è pur sempre lavoro, sottomesso all’opera manipolativa del tempo che fugge ma imperturbabile costringe. E allora tempo al tempo: se non puoi possederlo, puoi usarlo.
È risaputo: il tempo vola via senza darci l’occasione di entrare e uscire dalla sua impazienza. Siamo nel flusso. So bene che «soltanto chi sa sciuparlo si approssima all’essenza del Tempo» (Cioran 1997: 82). E dunque? Prima ancora di arrivare sull’isola, ho allora incominciato a prendere taccuini di appunti e scarabocchi. Ho poi iniziato a scattare foto a ripetizione (ovviamente, trattenendo il respiro perché venissero più nitide, sospese nell’attimo epifanico dello scatto.) Mi sono infine accinto con finta sorpresa a leggere tanti bei libri sull’argomento dell’azione/inazione (così come altrettanti ‘fuori luogo’ per il piacere di non capitolare all’istinto dell’antropologo in me – fuor di me – che tutto vorrebbe documentare per lasciare traccia, al fine di cogliere nel segno, mentre quell’altra parte di me, si muove in tutt’altra direzione, prendendo il tempo contromano, facendo il morto a galla, prendendo il fiato grosso, sprecandolo sott’acqua tra mille bollicine trasparenti). Perché ho agito così? Forse, come sottolinea Malinowski negli Argonauti, l’ho fatto per introdurre – un bisogno che va oltre la stessa antropologia e oltre questo saggio-narrazione, e include la vita e la morte, la vacanza e il lavoro – «la legge e l’ordine in ciò che sembrava caotico e bizzarro» (Malinowski 2004: 19).
In questo andazzo della mente e del corpo, una cosa l’ho percepita meno obliquamente e caoticamente, a filo radente col pelo dell’acqua. Io resisto a me stesso con il pretesto dell’antropologia: sono anti-attante di me stesso grazie all’antropologia pervenuta alla funzione di interagente con il ruolo di aiutante. Me lo chiedo, certo, ma non ho la sicurezza del calcolo e il sostegno della ragione. Mi oppongo in definitiva al valore dell’isola in quanto luogo utopico del rilassamento, cerco giustificazioni in me stesso allo spirito che mi muove invece al sacrificio del lavoro? Dopotutto, così facendo, eleggendo ad anti-attante il ‘rilassamento’ e a ‘destinante’ lo spirito, e scomponendo inoltre il mio ‘io’ in tanti rigagnoli in conflitto variegato, seguirei il flusso della buona antropologia di una volta che intravede nelle isole una opportunità per mettere a punto tesi e prospettive. Com’è noto, dopo gli sforzi e le fatiche inenarrabili del fieldwork alle isole Trobriand, Malinowski si trasferisce alle Canarie – ancora isole, altre isole, per quanto più ‘occidentali’ – al fine specifico di riposarsi e trasformare, con la buona atmosfera e il clima adatto, taccuini e annotazioni prese sul campo in volumi sul kula e sullo scambio tra gli indigeni. Sempre di isole si tratta: in alcune isole si lavorerebbe sotto l’egida dell’osservazione-partecipante e con il sudore del corpo che attira le zanzare, in altre si metterebbe in moto il potere modellizzante della scrittura e si farebbe una pausa, dandosi il tempo necessario allo scopo previsto.
Le isole godono comunque – è bene ribadirlo – di uno statuto privilegiato tra gli antropologi del passato e persino tra qualcuno del presente: perché danno l’impressione che si possa ‘lavorare’ su comunità ristrette tagliate fuori dal resto del mondo contaminante, perché il ‘lavoro’ sul campo sembra potersi svolgere nell’arco di un periodo di tempo non eccessivamente lungo, perché il viaggio sradicante non pare esercitare influsso alcuno sui nativi. È effettivamente così anche per me? No, non lo è. Non proprio. È che, in vacanza, a Marettimo, tra un tuffo e l’altro, tra un paio di bracciate stancamente affondate sulla superficie del mare e qualche immersione a mezz’acqua, ho deciso di vivere intensamente la vacanza trasformandola – mutandola, traducendola, alterandola – in alacre rilettura di qualche classico di antropologia, in selettivo approfondimento di sentite questioni relative al viaggio, in riflessione lasca e immancabile annotazione convulsa di tutto ciò che, utile o meno allo scopo, mi passasse per la testa nei momenti più disparati della giornata oziosa e spensierata. A che pro, dunque? Un’alter-azione, quindi, che serve allo scopo di quale precisa alterità in divenire? Domande su domande per provare il brivido che dà il procedere digressivo, anch’esso in divenire. Ebbene sì. E ancora domande, guarda caso, attraversano or ora i meandri assottigliati di neuroni infiacchiti della mia mente in pausa dal chiassoso lavoro cittadino.
Com’è mai possibile che una vacanza sia una pausa dall’attività vera e propria? È accettabile l’idea che sia possibile un non-fare, un indugiare nell’inazione? Ebbene, proprio questa ‘storia dell’inazione’ mi lascia alquanto perplesso. Mi interroga in vacanza, in spiaggia, mentre nuoto. E non posso capacitarmene, per quanto ci provi. Com’è possibile infatti non prodursi in un tipo qualsiasi di attività, lavorativa o meno che sia? Suppongo che siamo tutti noi, benché in misura diversa, dotati di agentività, cioè «la proprietà di quegli enti che 1. hanno un certo grado di controllo sulle loro azioni, 2. le cui azioni hanno un effetto su altri enti (e a volte su se stessi) e 3. le cui azioni sono oggetto di valutazione» (Duranti 2007: 89). Per quanto talvolta potenziali, siamo tutti agenti: dalla potenza all’atto il passo è breve. Mi chiedo però: sarebbe mai viceversa concepibile un grado zero dell’agentività in cui si annullano tutte le più minute mansioni da portare a compimento addirittura nell’apparentemente inconsistente quotidiano? Niente più effetti su altri (e su stessi), nessuna fissazione sull’ancoraggio valutativo, una assenza totale di un qualsiasi esercizio del controllo. Forse, se non ci imponessimo ossessivamente compiti da portare obbligatoriamente e smaniosamente a termine, se ne potrebbe allora conseguire il benefico dileguarsi di effetti da ottenere a tutti i costi, la scomparsa di un severo dovere volto alla valutazione, l’eclissi della politica del controllo sottoposto alla ragione calcolatrice più che ai sensi e all’interazione nella sua complessità. Magari in una storia zen. Magari, se fosse possibile, mi piacerebbe pensare un’agentività in potenza dalla cui esecuzione ci si potrebbe facilmente astenere: rimanendo in sospensione in un nulla beato, in un non-passaggio all’atto che è comunque una forma di divenire senza le pretese di mettere un punto finale. Devo pensarci bene, sarei felice se fosse così.
Benché pure in vacanza o nel rapimento del viaggio, a ben vedere, si presentano incombenze di cui sbarazzarsi è difficile. Qualcosa la si deve pur fare per quanto inconsapevolmente. L’azione, quale che essa sia, infima o meno, è ineludibile, persino in vacanza, nel tempo delle cose da fare. E se, invece, la questione fosse affrontata da un altro punto di vista? Se il tempo non esistesse in sé e fosse, più che altro, una dimensione della narrazione che lo recupera in quanto traccia enunciata – un inevitabile débrayage oggettivante – delle esperienze collettive e/o personali? Potrei allora dire, alla stregua di Malinowski (2004: 23), che racconto «questo pezzetto della mia storia semplicemente per mostrare che quanto si è detto fino a ora non è soltanto un vuoto programma, ma il risultato di esperienze personali» che si costituiscono in sequenza libera man mano che esperisco e narro. Vivo un’esperienza e la narro; grazie alla narrazione recupero in seguito una ipotetica dimensione temporale sotto forma di enunciazione enunciata attraverso le cui tracce potrei cercare di risalire a un simulacro di enunciazione originaria, tutto sommato volatile e incoglibile in sé. I testi aiutano proprio in questo: a rendere l’incoglibile meno incoglibile.
Il fatto è che, a Marettimo, in vacanza, la lenta pianificazione del fare e la frenetica esperienza personale vissuta al momento sono ambedue compresenti e si scambiano di posto senza interruzione. Non è forse questo il bello della vacanza? L’agentività tende a prendere le sembianze, sempre più apertamente, di interagentività definita nello scambio e nell’interrelazione: tra gli individui e gli oggetti, tra i tipi di pianificazione e i vissuti volatili, tra me stesso e i miei pensieri in fuga. In Collezione di sabbia, Calvino deve essersi posto un problema simile allorché, raccontando in qualche pagina le sue passeggiate per i musei di Tokyo e Kyoto, finisce poi col riportare una storia zen molto significativa a riguardo (di un’accezione giapponese) di inazione. Si tratta essenzialmente di un maestro di spada che viene sfidato dal suo discepolo alquanto saccente e sicuro della sua forza. In fondo, non è strano. Cos’altro vorrebbe fare un discepolo, se non mostrare che ha imparato bene la lezione impartita dal maestro? Cosa sarebbe più logico, se non vedere il discepolo che supera il maestro e ne ha assimilato il modello di vita? Così, il discepolo immerge la spada nel ruscello tagliando le foglie trascinate dalla corrente: la spada in realtà non si muove, sono le foglie che fanno tutto da sole, tagliandosi in due. La dimostrazione di bravura del discepolo riposerebbe sull’evidenza che, persino nell’inazione del presupposto agente, un’azione si può rivelare efficace. Il contrasto tra la spada e le foglie è risolto con il minimo sforzo: il discepolo, dopo aver immerso la spada, non fa altro che aspettare il passaggio delle foglie. Non agisce più di tanto, e l’azione di fatto si concretizza in un’attesa. E così gli basta immergere la spada: non è necessario accompagnarla con un’azione appropriata (con un colpo) perché essa possa tagliare ed espletare così il suo fine. Andiamo ora al maestro. Alla lettura dell’aneddoto, il fatto inaspettato risulta essere che il maestro non ha nemmeno bisogno di fare incontrare/scontrare la spada e le foglie: immerge la spada e le foglie corrono via. Chi, dei due, è più efficace dunque? Quali delle due inazioni è più performativa: quella del discepolo che rimane in attesa (ma ha comunque bisogno del contrasto) oppure quella del maestro che rifugge persino il fine prefisso, consistente nel tagliare (ma ne instaura un altro ancora più straniante qual è la fuga delle foglie)? L’elemento che conta nell’inazione del maestro è che, con la sua stessa non marcatura della meta preposta (tagliare), capovolge il sistema stesso di valore insito figurativamente nell’oggetto in questione: la spada. Non più oggetto da opporre a un altro (le foglie), la spada si trasforma in funzione dell’agente che «la usa senza usarla», con la competenza che gli compete: in mano al maestro, infatti la spada acquisisce, proprio in virtù del capovolgimento di valori inizialmente assegnati, una qualità ‘altra’ (mettere in fuga le foglie). Che insegnamento ne traiamo, noi occidentali, da tutto questo?
Dal punto di vista dell’agentività, si sa quanto centrale è la nozione di efficacia nell’ideologia occidentale: non c’è agentività senza performatività e il fare deve avere come corrispettivo uno scopo realizzato, altrimenti viene visto come fallimentare. Nel caso del discepolo, siamo in qualche modo più vicini a una concezione occidentale di agentività poiché, comunque, le foglie sono tagliate in due: si mette semmai in risalto la bravura dell’agente che ottiene il suo effetto con il minimo sforzo. Nello zen giapponese rappresentato dal maestro, invece, il valore agentivo non risiede tanto nell’azione (efficace in quanto supererebbe brillantemente l’ostacolo), quanto nell’inazione (efficace in quanto ha un effetto sull’eventuale ostacolo senza nemmeno misurarsi con la sua forza antiattanziale). Nell’apologo zen basato sul sistema di valori del maestro, l’inazione annulla beneficamente il conflitto; lo scontro in sé si rivela inutile, benché altrettanto efficace a un altro livello. In Occidente, siamo abituati a pensare il risultato dell’azione (e dell’azione efficace) in quanto effetto di uno sforzo di un soggetto che tende a realizzare, nonostante gli ostacoli, un programma preliminarmente concepito. Nell’apologo zen, al contrario, l’importanza dello sforzo soggettivo è sminuita e il contrasto con gli ostacoli che si frapporrebbero alla spada sembra svanire quasi del tutto. Benché non sia possibile farlo qui, il primo punto da discutere in lungo e largo, in questo senso, riguarderebbe proprio la diversa concezione dell’esistenza. Inoltre, si dovrebbero discutere le ricadute che queste diverse concezioni dell’esistere hanno sulla nozione di agentività. Se torniamo per un momento alla definizione di agentività data da Duranti, ci rendiamo infatti conto di alcune differenze di rilievo. Nell’apologo zen, l’agentività non è ‘proprietà’ esclusiva di un ente che la possederebbe in sé, ma delle stesse interazioni in corso avvenute in una situazione i cui effetti sono commisurati al capovolgimento di un sistema di valori precedentemente stabilito (il sistema di valori del discepolo riproposto tale e quale e quello in divenire e mutevole del maestro). In altri termini, se si volesse seguire l’apologo zen per ridefinire l’agentività, non si dovrebbe parlare di proprietà posseduta da enti, ma di co-costituzione – interagentività – reciproca dell’agire efficace i cui valori non sono dati in partenza, ma dal contesto in atto, dalla configurazione complessiva della scena.
Ciò che conta, sempre seguendo i dettami impliciti dell’apologo, non è tanto il raggiungimento dell’effetto designato (e forse nemmeno di un effetto tout court), quanto l’affermazione di un principio altro, più innovativo, rispetto a quello previsto all’origine. In sostanza, nell’aneddoto si elogia il mutamento e la sorpresa insieme alla pronta disaffezione per una posizione precedentemente stabilita. Bisogna ricordare – elemento qui non irrilevante – che Calvino riporta questo aneddoto zen nel testo che raccoglie i suoi viaggi in giro per il mondo. E, ancora più importante, lo fa dopo aver messo in parallelo due suoi modi di agire: la passeggiata frenetica in un museo di Tokyo e quella più rilassante in un museo di Kyoto. Le due passeggiate sono, ovviamente, due modi diversi di fruire lo spazio e, inoltre, due modi più generali di pensarsi viaggiatore-agente: proprio come le due maniere di affrontare la realtà da parte del discepolo e del maestro sono due modi possibili di rappresentare forme di agentività, rifiutate o accettate. Tra le tante cose che si possono dedurre da queste comparazioni messe in opera da Calvino, c’è il richiamo all’intreccio tra il sapere che precede il viaggio e il sapere che deriva dall’esperienza sul campo. Per Calvino, come d’altronde per me, sono interrelati e sovrapposti, nonché in continuo divenire. Ma un altro elemento emerge con forza dalle comparazioni di Calvino, così come spero qui dalle mie comparazioni esplicite (sul viaggio e sul tempo) e implicite (tra un modello più oggettivato e uno più soggettivante di ‘riflettere’ su agentività e narrazione): la distinzione tra azione e inazione non è così netta come sembrerebbe essere di primo acchito.
E il viaggio? Almeno quello mio, incoraggia alla fuga dalla cristallizzazione dell’essere. Sebbene in modo meno frontale rispetto alla storiella zen, credo che il viaggio sia un modo per metterci al cospetto – in chiave auto-etnografica e in versione più oggettivante (le due forme di débrayage che ho utilizzato qui, mescolandole) – del principio che difendo: l’azione si definisce meglio grazie alla presa in carico dell’inazione e in rapporto all’interagentività. In questo senso, sarebbe utile riflettere su una ridefinizione dell’agentività (in favore dell’interagentività) che tenga conto di questa ambivalenza, così come delle altre correlate di cui ho parlato e che ho cercato di ‘insinuare’ in commistione (vedere e tradurre, evadere e resistere, immaginare e manipolare, narrare e argomentare, iniziare e pianificare), man mano che viaggiavo e scrivevo, grazie al fare/non-fare del viaggio
(Marettimo, 28 luglio-2 agosto 2015)
Dialoghi Mediterranei, n.15 settembre 2015
Riferimenti bibliografici
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Stefano Montes, ha insegnato Letteratura francese, Antropologia Culturale e Semiotica nelle Università di Parigi, Catania, Tartu, Tallinn, Palermo e Agrigento. Al di là delle etichette disciplinari, s’interessa ai modi molteplici secondo cui dinamiche culturali organizzano forme testuali (letterarie ed etnografiche). Nelle sue ricerche, ha privilegiato le analisi delle narrazioni di vita, lo studio delle modalità di produzione della cultura in alcuni testi esemplari, l’enunciazione della soggettività nelle teorie e pratiche antropologiche. Da alcuni anni i suoi campi di interesse scientifico vertono sulle strategie di conversione religiosa e sull’esperienza turistica.
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