di Flavia Schiavo
Al civico 22 di West 24th Street, a Manhattan, a due passi da Madison Square Park e dal Flatiron Building, uno tra i più significativi “ombelichi urbani”, appena completato (nel 1902), Stanford White, tra i maggiori architetti newyorchesi, possedeva, siamo tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, un appartamento, all’interno di un piccolo immobile, crollato nel 2007.
Dove oggi vi è un lotto non costruito, utilizzato come deposito di auto, esisteva l’edificio dove White aveva il proprio segreto rifugio. Modesto, non troppo vistoso esternamente – limitrofo a una costruzione più elevata, con un basamento in ghisa e un semplice cornicione di coronamento – il fabbricato celava una fastosa garçonnière dove il famoso architetto si intratteneva con donne affascinanti, alcune di esse minorenni.
Brendan Gill, giornalista, critico, scrittore, descrisse in seguito White come un concentrato di ambigue virtù: «big, bluff, open, lovable man of superb talent, and the predatory… satyr». White, infatti, membro dell’importante studio McKim, Mead & White, aveva due passioni: l’architettura e le donne. Tra esse una, Evelyn Nesbit, una bellissima ragazza che divenne la sua amante, quando era solo un’adolescente.
Florence Evelyn Nesbit, nata a Tarentum, in Pennsylvania, nel 1884 e stabilitasi con l’intera famiglia a Pittsburgh, si trasferì con la madre e il fratello Howard, prima a Philadelphia e poi a NYC. Tale spostamento si rese necessario nel 1895, dopo la morte del padre, Mr. Winfield Scott Nesbit che, pur essendo un marito e genitore amorevole e pur esercitando la professione di avvocato, lasciò la famiglia in precarie condizioni economiche, per i numerosi debiti accumulati. Dopo aver ricevuto modesti aiuti da parte di alcuni tra amici e parenti più generosi, la vedova si trasferì a Philadelphia dove, sebbene fosse un’abile sarta, trovò a fatica lavoro come commessa presso il John Wanamaker Department Store (uno tra i primi grandi magazzini in America, poi riedificato nel 1902, e progettato da Thompson, Starrett Co. e Daniel H. Burnham). Entrambi i ragazzi, Evelyn appena quattordicenne e il fratellino, di due anni più piccolo, furono assunti nello stesso grande magazzino, lavorando, come la loro madre e in assenza di leggi che limitassero o quanto meno regolamentassero il lavoro minorile, dodici ore al giorno, sei giorni la settimana.
Durante la Rivoluzione Industriale aumentò, e di molto, il numero dei bambini impiegati nei processi di produzione. Essi, in condizioni di rischio sul posto di lavoro, erano tra gli operai prediletti dal Capitale perché facili da controllare, perché sapevano muoversi in luoghi di ridotte dimensioni e perché pagati meno degli altri occupati. Costretti a sostenere le famiglie, rinunciavano a un’istruzione malgrado l’impegno dei reformers che, attivi anche a NYC, miravano a limitare il lavoro minorile e puntavano a mobilitare l’opinione pubblica. Questa rispose assai poco e attivamente solo durante la Great Depression del ’29, quando un gran numero di americani spinse affinché i posti disponibili andassero agli adulti e non certo per ragioni etiche.
Presente sin dalla fase iniziale dello sviluppo dell’America del nord, il lavoro minorile era insito nell’organizzazione produttiva, agricola, artigianale e industriale. Il boom economico nella seconda parte del XIX secolo costituì ulteriore motivo d’incremento del lavoro dei più giovani e questi, prima impiegati principalmente nel settore tessile, si spostarono in altri campi produttivi. Per comprendere il fenomeno, alcune cifre generali: nel 1900 il 18% dei lavoratori in America era al di sotto dei sedici anni, molti di essi al di sotto dei quindici e la metà addirittura al di sotto dei dodici anni.
In quella fase critica i riformatori agirono con maggiore forza per la diffusione dell’istruzione primaria e per fissare soglie accettabili per i salari minimi; molti Stati vararono normative orientate in tal senso, ma si trattava di leggi deboli, dotate di escamotage, mentre già il flusso enorme dei migranti forniva un consistente bacino di lavoratori in “servizio” anche al di sotto dei quindici anni, a fronte di una altissima domanda connessa allo sviluppo, determinando un feroce contesto che metteva i bimbi, oltre alle loro famiglie, in condizioni insostenibili.
Il National Child Labor Committee attivo dal 1904 (qualche anno prima che si toccasse l’apice degli arrivi dei migranti a Ellis Island) agì per mitigare e risolvere le condizioni dei più “giovani” lavoratori, insieme a gruppi organizzati di reformers e a parte della base dei workers che, soprattutto dal 1902 al 1915, si mosse per sollecitare un’azione legislativa statale, anch’essa decisamente poco incisiva: in quegli anni furono approvate dal Congresso due leggi, ma immediatamente dopo le stesse vennero dichiarate incostituzionali. Un primo e più efficace risultato fu ottenuto solo con il Fair Labor Standards Act del 1938, collegato alla riforma del New Deal, che per la prima volta fissava le retribuzioni minime e dei limiti per l’impiego del lavoro minorile: al di sotto dei sedici anni i ragazzi non potevano essere impiegati né in alcuni settori di produzione, né nell’estrazione mineraria.
La vita di Evelyn e della sua famiglia, in quel contesto sociale “duro” ed estremamente competitivo, ebbe una svolta sostanziale quando un’artista, visitando lo Store di Philadelphia, notando la grande e inusuale bellezza della ragazza, propose a Mrs. Nesbit che Evelyn posasse per un ritratto. La somma ricevuta per la posa fece comprendere, soprattutto alla madre, quanto, con questo nuovo impegno, la ragazza avrebbe potuto guadagnare, molto di più che come semplice lavorante in un Mall: grazie all’aiuto della signora che l’aveva ritratta, e alla sua straordinaria bellezza, la fanciulla rapidamente divenne la modella preferita di fotografi e pittori.
Nel 1900 la famiglia si trasferì a New York, metropoli in piena esplosione, dove la concorrenza era alle stelle e dove Mrs. Nesbit stentò a trovare lavoro. I primi tempi la famiglia fu costretta a dividere una singola stanza in un traballante edificio sito a Manhattan, nella 22nd Street, vivendo come molti tra quegli uomini, donne e bambini originari del Vecchio Mondo e dell’Asia e appartenenti alla working class.
New York stava in quegli anni consolidando il proprio ruolo egemone: aveva surclassato le metropoli della costa atlantica come Philadelphia e Boston e aveva superato persino Chicago che, sino a qualche anno prima, era stata centro di economie fiorenti legate al mercato della carne e agli allevamenti nelle praterie prossime ed esterne alla capitale dell’Illinois.
Già a partire dal 1825 – l’apertura dell’Erie Canal (il lungo asse fluviale di trasporto che aveva come terminali l’Ontario e NYC, efficiente prima che venisse costruita la rete ferroviaria, di poco successiva) mise in connessione la porzione più a nord-ovest dell’America occidentale con NYC – la città iniziò a registrare un sistema di convergenze che ne incrementarono lo sviluppo. Le condizioni geografiche e quelle storiche la condussero verso una rapida espansione ed essa diventò un magnete di forze, di economie, un grande “snodo” e un polo di produzione culturale.
Il 1900, il passaggio di secolo, fu un anno in cui si registrò un incremento straordinario della popolazione: nel 1890 2.507.414 abitanti, nel 1900 3.437.202 abitanti, nel 1910 4.766.883 abitanti. Le ragioni di tale accrescimento furono molte, tra esse la costituzione, nel 1898, della Greater New York, in una fase in cui i cinque Distretti (Bronx, Manhattan, Brooklyn, Queens, Staten Island), già fortemente urbanizzati, furono unificati in un’unica grande metropoli. Chiusasi la vicenda della Civil War, liberati gli schiavi, e trasformati essi in membri della working class, si favorì ancor più all’inizio del XX secolo l’impennata del Capitale. In questo clima il consolidamento del 1898 fu tra le cause dell’intensificarsi della costruzione di infrastrutture, di edifici rappresentativi, molti progettati dalla firm McKim, Mead & White, di edifici pubblici e residenziali (dai tenements dove abitavano i migranti, alle row houses dove risiedeva la middle class e parte della upper class), di ponti (1883, Brooklyn Bridge; 1909, Manhattan Bridge; 1903, Williamsburg Bridge; 1909, Queensboro Bridge; e tra il 1899 e il 1910, una decina di connessioni in Uptown, tra Harlem e il Bronx, oltre al Washington Bridge del 1888), di una rete di trasporto attiva già dalla prima metà del XIX secolo che comprendeva le prime linee della metropolitana e alcuni tubes come l’Hudson Tube del 1908.
Tali “costituenti” urbani – distribuiti nei 5 Distretti e localizzati soprattutto a Manhattan che iniziò ad assumere un ruolo specifico anche se non dichiaratamente egemone nella struttura complessiva – cambiarono il paesaggio umano e quello urbano e richiesero un’enorme forza lavoro: i fiumi di migranti che confluirono a NYC, soprattutto tra il 1910 e il 1920, via Ellis Island, una delle “porte” d’America.
La madre di Evelyn, ormai cittadina della Greater New York, grazie al suggerimento della generosa mentore conosciuta a Philly, prese contatto con un noto pittore newyorchese, James Carrol Beckwith. Questi, attento alla pittura europea, formatosi a Parigi, era interno alla società più danarosa e godeva, peraltro, della stima e del patrocinio di John Jacob Astor, un uomo ricchissimo, appartenente a una solida dinastia di imprenditori che avevano costruito il proprio immenso capitale in gran parte investendo nel real estate. Gli Astor compresero che lo sviluppo urbano sarebbe stato un affare remunerativo e capitalizzarono nell’acquisto di grandi appezzamenti di terreno concentrandosi esclusivamente sulla costruzione di immobili a Manhattan. Inoltre prevedendo la rapida crescita a nord acquistarono terreni edificabili, lottizzati dal Grid del 1811, anche al di là dei limiti già urbanizzati in quella fase. Gli Astor, oltre che limitarsi a costruire, adottarono il criterio del real estate londinese, fondato sul leasing e sull’affitto dei terreni.
L’appoggio di Beckwith, la mercuriale New York e soprattutto lo splendore della giovanissima Nesbit fecero di lei, in brevissimo tempo, la modella preferita dei maggiori artisti newyorchesi. Nel 1901 proprio Beckwith, cui si deve, tra l’altro, un espressivo ritratto di Mark Twain datato 1890, la consacrò in un dipinto a olio su tela (di medie dimensioni, oggi patrimonio di una collezione privata) restituendone la conturbante bellezza: Evelyn, infatti, esibita e avvolta solo in parte da un mantello, divenne non solo una tra le modelle più richieste ma si trasformò in una icona erotica, non solo per la bellezza del corpo e del volto, ma per lo “spirito” non comune che promanava dalla sua persona, spirito non convenzionale messo in grande risalto dalla fotografie e dai ritratti che enfatizzavano e in parte strumentalizzavano sia le caratteristiche della ragazza, sia lo sguardo, profondo e intenso che, in ognuno delle immagini che la vedono protagonista, emerge con forza: un fotografo che l’aveva ripresa affermò che «the soul of beauty trapped behind big melancholy eyes».
In un certo senso, come avviene a volte per un innovativo monumento all’interno di una città che cambia totalmente la sua’essenza, Evelyn Nesbit delineava una frattura nella rappresentazione muliebre: in bilico tra la geisha sottomessa e la sfrontata ragazza americana del Novecento, Evelyn incarnava una porzione di quel “salto” comportamentale delle donne del primo Novecento. Esse, da un lato, assumevano una maggiore libertà e combattevano per i propri diritti, in ambito lavorativo e sociale, dall’altro restavano prede maschili, oggettivate dallo sguardo e dal desiderio degli uomini. Le immagini che ritraevano Evelyn e il ruolo che lei rivestì, mettevano in luce questa scissione, evidenziando quanto quella rappresentazione fosse ancora legata a una concezione maschile che concepiva la donna come un oggetto erotico plasmabile. Evelyn manifestava pienamente questo stigma: bella, discinta e accessibile e, solo apparentemente, libera.
In breve, oltre a diventare modella e pin up girl, Evelyn divenne il “volto” più popolare sui Women’s Magazines in voga in quella “stagione” di significative trasformazioni, sia urbane, che culturali, sia relative ai costumi. Fotografata su Vanity Fair, Harper’s Bazaar, The Delineator, Women’s Home Companion, Ladies’ Home Journal, Cosmopolitan, il suo viso comparve su numerose e innovative pubblicità (fu la prima Coca Cola Girl), e soprattutto fu l’ispiratrice di un nuovo modello di bellezza e di emancipazione, quando fu ritratta da Charles Dana Gibson, l’inventore della Gibson Girl, la nascente ragazza americana del secolo, di cui Evelyn fu indiscussa musa.
Tale immagine, veicolata dalle riviste che avevano un’alta diffusione non solo nelle classi medio-alte, rappresentava una figura di donna più evoluta, più libera, più padrona di sé e del proprio tempo e abile socialmente. Tale “prototipo” ebbe un certo peso nella trasformazione concreta del mercato del lavoro, influenzando l’ingresso della donna in alcune professioni prima precluse, mentre venivano condotte battaglie per il diritto di voto, portate avanti dal Women’s suffrage movement, dal 1848 sino al 1917 quando il suffragio venne legalizzato nello Stato di New York.
Evelyn, acclamata interprete di Florodora – di O. Hall e L. Stuart (rispettivamente, testo e musiche), la commedia musicale debuttò a Londra nel 1899, fu rappresentata a NYC nel novembre del 1900 e al Casino Theatre a Broadway il 25 gennaio 1901 – come di ulteriori spettacoli, tenuti nei teatri di Broadway, tra cui The Wild Rose dove interpretava il ruolo di una gitana, si avviava verso una carriera che la vedeva esposta e desiderata da molti uomini. Tra essi il miliardario Harry Kendall Thaw che la chiese ripetutamente in moglie e la sposò quando la giovane aveva venti anni, nonostante lei avesse confessato il proprio passato, e negasse inizialmente il proprio consenso al matrimonio. Evelyn, infatti, prima di Thaw, oltre alla torbida e tragica liaison con Stanford White, ebbe una storia con James “Monty” Waterbury, un noto giocatore di polo, con il giovane e brillante editore Robert J. Collier, con John Barrymore.
Ciò nonostante, le nozze con Thaw furono celebrate il 4 aprile 1905, dopo un viaggio che Harry ed Evelyn avevano fatto insieme in Europa. Ma Thaw, nativo di Pittsburgh, il cui padre aveva costruito un enorme capitale con carbone e ferrovie, era cocainomane, affetto da turbe mentali e violento: combattuto e scisso tra atteggiamenti paranoici e un amore tossico, un desiderio possessivo e assoluto per Evelyn, le inflisse torture psicologiche e fisiche, arrivando persino a frustarla e obbligandola a sposarsi in “nero”. Evelyn ebbe da lui un figlio, Russell William Thaw, nato a Berlino nel 1910 divenne un abile pilota durante la II Guerra Mondiale.
Fu, però, nella fase iniziale della sua permanenza a NYC che Evelyn entrò in “collisione”, era l’agosto del 1901, con Stanford White, “Stanny”. Questi, maturo quarantaseienne, colpito dall’avvenenza e dalla giovinezza, la invitò a pranzo, insieme a pochi amici, tra cui Edna Goodrich, attrice e compagna di scena di Evelyn. Dopo un raffinato lunch, cibo lussuoso e champagne, il gruppo, attraverso le scale dell’appartamento segreto di White, raggiunse una stanza, decorata e sontuosa dove era sospesa un’altalena di velluto rosso che incantò la giovane. L’altalena, un oggetto dal forte carattere evocativo, veniva proposto come gioco erotizzante alle numerose “prede” di Stanford il quale le osservava, spesso svestite, dondolare, in una atmosfera gravida di sensualità.
Stanford quella volta fu un ospite perfetto ma, tutt’altro che disinteressato, iniziò ad aiutare la famiglia, con denaro e doni (per il compleanno Evelyn ricevette una collana di perle e un anello con tre diamanti), facendo sì che persino il giovane Howard Nesbit entrasse alla Chester Military Academy di Philly o provvedendo alla sistemazione della famiglia presso una suite del Wellington Hotel, di cui l’architetto aveva curato la decorazione.
Per l’indiscussa identità carismatica, per il ruolo sociale di White e per l’opportunità di cambiare vita, superando così gli iniziali stenti, la madre di Evelyn, non troppo attenta e dal comportamento instabile, “consegnò” a “Stanny” la giovane, suggerendo alla figliola di «obey everything Mr. White says». Questa, a propria volta, subì il fascino di quel maturo, avvenente e affermato professionista, noto non solo a New York, autore di numerose e pregevoli opere che, in quegli anni, stavano disegnando il nuovo volto della nascente metropoli, tra essi alcune iconiche strutture come Pennsylvania Station, il Washington Square Arch, il Municipal Building, Madison Square Garden II, alcuni edifici all’interno del Prospect Park a Brooklyn, la Morgan Library e Museo, il Former New York Life Insurance Company Building, il Brooklyn Museum, e una porzione significativa del campus della Columbia University.
White convinse la madre del suo “oggetto di desiderio” a partire senza la figlia per una breve vacanza a Pittsburgh e una sera invitò Evelyn, questa volta per un tête-à-tête, nel suo pied-à-terre. Adornata da un costoso kimono giallo che Stanny le aveva donato e pregato di indossare, dopo averle versato abbondanti coppe di champagne la condusse nella “Mirror Room”, Evelyn, che ricordò solo di essersi svegliata nuda nel letto accanto a White, moltiplicata dal gioco del riflesso degli specchi, descrisse con poche parole quanto fosse accaduto: «entered that room a virgin, but did not come out as one».
Iniziò così la loro relazione infedele e complicata e White, grande architetto e raffinato manipolatore (due indiscussi talenti), malgrado fosse sposato con Bessie Springs Smith, divenne l’amante di Evelyn. Dominatore e geloso giunse a ostacolare la relazione che la giovane ebbe con John Barrymore, l’attore capostipite dell’omonima dinastia, conosciuto durante l’opera teatrale The Wild Rose, in cui entrambi recitavano.
Ma la vera tragedia si compì la sera del 25 giugno 1906 – oramai Evelyn era una donna sposata e la relazione con l’architetto pressoché chiusa, malgrado il legame sentimentale continuasse (Evelyn confessò più volte che Stanny fosse stato l’unico uomo da lei veramente amato) – quando Stanford White fu brutalmente assassinato da Harry Kendall Thaw, proprio al Madison Square Garden, una tra le costruzioni più significative progettate dallo studio McKim, Meade e White, una grande arena, coronata in cima da una statua di Diana, opera del noto sculture Augustus Saint-Gaudens.
Thaw patologicamente innamorato e quasi ossessionato dalla giovane moglie e dal suo passato manifestò la gelosia in forma morbosa, convinto, peraltro a ragione, che la moglie fosse ancora legata all’architetto da un sentimento profondo. In preda a una crisi violenta, quella sera di fine giugno, l’instabile e tormentato marito di Evelyn sparò, uccidendo all’istante White, mentre esclamava: «You’ll never go out with that woman again».
Quella sera maledetta, White aveva deciso d’improvviso la sua visita al teatro sul roof del “suo” Madison Square Garden: egli si sarebbe dovuto recare a Philadelphia per un impegno di lavoro. Il viaggio fu rimandato quando suo figlio Lawrence giunse inaspettato a New York. In compagnia di Lawrence e di un’altra eminente figura della “società” newyorchese, James Clinch Smith – cognato di White e anch’esso di passaggio a NYC – pranzarono al Martin, un noto ristorante vicino al Madison, dove anche Harry e sua moglie Evelyn avevano trascorso la prima parte della serata. Al Madison, una tra le “creature” di White, si teneva una “prima” (Mam’zelle Champagne, una musical comedy), alla fine dello spettacolo, mentre le inquietanti parole, date le circostanze, della canzone “I Could Love A Million Girls” echeggiavano nell’arena, esplosero i tre colpi, andati a segno: due sul volto e uno sulla spalla dell’architetto. Il viso di Stanny fu dilaniato e, dopo una prima reazione di ilarità della folla, che fraintese pensando fosse stato uno scherzo, seguì una scena di isteria collettiva. Lo stesso James Clinch Smith, cognato di Stanny, nella deposizione al primo processo mise in evidenza lo spaesamento che derivò: dopo aver conversato amabilmente di futili cose con l’architetto (i viaggi, gli affari, i progetti per la estate) Smith, immediatamente dopo i colpi di pistola, non ebbe coscienza che l’uomo a terra con il volto sfigurato fosse il grande Stanford White, ormai estinto.
La fama dell’architetto, della famiglia dell’omicida, la notorietà di Evelyn e la natura pubblica dell’assassinio che riguardava la buona società newyorchese, portarono i giornali del tempo a darne notizia in modo dettagliato e scandalistico, definendo l’assassinio come “Il crimine del secolo”.
L’evento mise in luce non solo uno spaccato antropologico della New York cosmopolita e frenetica dei primi del Novecento, ma rese pubblici alcuni scioccanti dettagli, rivelati nell’aula di tribunale dove si svolsero le udienze contro Thaw, esponendo le perversioni sessuali e morali di alcuni tra i cittadini più notabili della città. L’altra metà del cielo, in forza della condizione economica, negava l’etica e il decoro comportamentale che erano insiti nella rigida morale protestante, di cui la cultura americana nascente era comunque intrisa.
I giornali fin dal giorno successivo all’omicidio restituirono lo “scoop” con reportage sensazionalistici: era difatti il periodo d’oro del muckraking journalism. La falange dei reporters più intransigenti era sostenuta da un contingente femminile, noto come “Sob Sisters” o “Pity Patrol”, che puntava a enfatizzare gli aspetti emotivi e melodrammatici. In definitiva White, post mortem, non fu affatto tutelato, anzi fu investito da invettive che sminuirono persino il suo enorme talento come architetto. Sull’«Evening Standard» si scrisse che Stanny fosse «more of an artist than architect», affermando che persino dal suo lavoro emergesse una “social dissolution”. White venne demonizzato e solo pochi amici lo sostennero, con contributi significativi.
In un articolo, datato 8 agosto 1906, che apparve su un magazine, «Collier», edito dai Collier (Robert J. Collier era stato uno dei fidanzati di Evelyn), egli venne difeso, post e durante quella campagna di demolizione, dove era descritto come un dissoluto. Tale risposta – che giunse da Richard Harding Davis, un giornalista, scrittore e corrispondente di guerra, noto anche per essere considerato il modello per Gibson Man, corrispettivo maschile della Gibson Girl – tendeva a porre in luce le qualità, umane e professionali di White, evidenziando quanto l’ammirazione per le belle donne fosse da porre sullo stesso piano del suo amore per le bellezze del Creato.
L’autopsia sul corpo dell’architetto rivelò che questi fosse gravemente malato: nefrite, tubercolosi incipiente e gravi problemi epatici. Ci furono, dopo l’omicidio, due processi, nel primo la Giuria non si accordò sul verdetto; durante il secondo la madre di Thaw convinse Evelyn a testimoniare in favore del figlio, affermando di essere ancora l’amante dell’architetto al momento del crimine, in cambio le promise il divorzio e un milione di dollari. Per tale ammissione di “colpa” da parte di Evelyn la Giuria avrebbe avuto diversa considerazione per l’omicida che avrebbe, con quei tre colpi, vendicato il proprio onore, secondo un modello comportamentale ancora accreditato.
Grazie a Evelyn, Thaw evitò dunque la condanna a morte (la sedia elettrica; il New York State non applica la pena capitale dal 1976), fu giudicato infermo mentalmente e rinchiuso in un manicomio criminale. La detenzione non fu però affatto dura, la famiglia Thaw era influente ed estremamente danarosa e venne, infatti, consentita varie volte l’uscita dell’omicida dal manicomio: Harry avrebbe potuto in tal modo presenziare ad alcuni dei sontuosi ricevimenti che i Thaw frequentemente organizzavano. Ciò nonostante nel 1913 l’assassino evase e cercò di raggiungere il Canada, dove venne arrestato e ricondotto al Matteawan State Hospital for the Criminally Insane di Beacon, dove era precedentemente detenuto. Nel 1917 fu dichiarato sano di mente e rimesso in libertà, poi di nuovo arrestato e definitivamente liberato nel ‘24.
Evelyn, che aveva avuto il divorzio nel 1915, non ricevette mai nemmeno un cent del milione di dollari che le era stato promesso dalla madre dell’assassino in cambio della testimonianza resa al processo. Inoltre le venne contestata la paternità del figlio che Evelyn dichiarò essere un Thaw, affermando fosse stato concepito durante la fase di detenzione di Harry nel manicomio criminale.
Le pagine dei giornali del tempo, subito dopo l’omicidio, diedero ampia notizia della vicenda: un grosso scandalo che investiva quella “New Yorker High Society” oscillante tra la morale europea, quella luterana e la libertà di comportamento, che originava dall’arroganza del Capitale come pure dalla formazione sociale newyorchese, ambito della tolleranza, della rapidità, dell’attitudine alla trasformazione, e dal melting pot fatto di innumerevoli etnie.
Numerose fonti tentarono di ricostruire la storia che fu, per molti, estremamente dolorosa. Tra queste due film: The Girl in the Red Velvet Swing e Ragtime. Il primo è del 1955, e per esso Evelyn fornì un apporto mirato alla ricostruzione dei fatti. Con Joan Collins nei panni della protagonista, The Girl in the Red Velvet Swing espone in chiave narrativa e sufficientemente affine alla realtà, sebbene in modo didascalico, l’incontro, il love affair tra White e Nesbit, la caduta e la terribile tragedia.
Il secondo, Ragtime, è del 1981. Tratto da un pregevole romanzo del 1974, da cui il film prese il nome, dello scrittore statunitense Edgar L. Doctorow – pur non essendo tra i capolavori di Miloš Forman – ha il pregio di restituire, complice la colonna sonora evocativa, un contesto estremamente veritiero relativo alla New York del periodo narrato. La vicenda inquadra una fase, compresa tra il 1906 e il 1914, in cui si intrecciano eventi personali e pubblici. La storia e la catastrofe di Evelyn (una bellissima Elizabeth McGovern, simbolicamente vestita di bianco, eccetto in un caso), l’uccisione di White e la follia di Thaw, quasi in background, infatti, si interconnettono allo scoppio della Ia Guerra mondiale, alla questione relativa alla discriminazione dei black people e alle disuguaglianze sociali legate sia alla “razza”, che alla condizione economica.
Il film di Forman mostra, come del resto l’omonimo romanzo, i luoghi del potere (economico e culturale) dei “bianchi”, la J. P. Morgan Library tra gli altri; i soggetti del potere, il Capo della Polizia, interpretato dal monumentale James Cagney; i protagonisti della “lotta” contro il razzismo, come Booker T. Washington; e racconta anche la “strada”, scegliendo come locations, Lower East Side (dove vivevano i migranti), Coney Island (dove ci si divertiva, spensierati); alcuni luoghi della New York borghese e facoltosa; qualche clubs dove si suonava Jazz.
Il film del regista ceco naturalizzato americano, include, in questo caso fedele al libro di Doctorow, molti degli uomini e delle donne che in quella stagione vivevano e orbitavano a New York, ne restituisce il carattere vitale ed esplosivo, ci racconta come la città battesse davvero, essa stessa, un ragtime: multipla, intrisa di regole e spregiudicatezza, frammentata, polimorfa; ci fa, inoltre, vedere quanto fosse caotica, corrotta, competitiva, contraddittoria e, nel contempo umana e progressista, narrandoci come molti e molte si spendessero con passione, compatti, per i diritti civili dei neri, in una fase in cui vigeva la Jim Crow Law varata nel 1876, che mantenne e favorì la segregazione razziale.
Ragtime di Forman – che vede tra i suoi protagonisti, oltre a Evelyn, Stanny e Harry, personaggi come Houdini, Emma Goldman, Robert Peary, James Sherman, Pierpont Morgan, narra di Henry Ford, dell’arciduca Francesco Ferdinando e della moglie Sofia, di Sigmund Freud con Jung e Ferenczi, cita lo scrittore Theodore Dreiser e il fotografo e reporter Jacob Riis – non dice tutto dell’atroce vicenda che fu definita “il crimine del secolo”, ma dice tanto della città in quel cruciale decennio.
Il libro di Doctorow, più coinvolgente del film, e figlio della migliore tradizione narrativa americana – vi riecheggiano numerosi autori statunitensi, uno per tutti il prodigioso Mark Twain delle Adventures of Huckleberry Finn (singolarmente pubblicato in United Kingdom, nel dicembre del 1884, mese e anno di nascita di Evelyn) – trascina più intensamente dentro a quel boato di luci intermittenti che fu ed è New York. Decisamente non paragonabile al film, che pur è interessante, il libro è una esperienza peculiare, trasformando l’enorme e accuratissima ricerca filologica, visibilmente sottesa alla trama, in un vortice narrativo forte e leggero, insieme. Per chi abbia studiato NYC, soprattutto nella fase della sua esplosione, il libro è fonte di eccitazione continua, sia per la cifra ritmica e frammentata del linguaggio, una cifra discontinua, spezzata, vulcanica, innovativa e a tratti poetica, sia per la storia. Emozione ed empatia, per le vicende e per tutti i protagonisti, pari a quella che si prova davanti a un grandissimo affresco corale dove uomini, donne e bambini vivano un quotidiano complanare e simultaneo. Poco importa se si tratti di assoluta realtà, o di verità imperfetta. Come la Storia che avvince, mai del tutto vera, mai del tutto integrale, quel libro cambia e rende più nitida l’idea che anche il più scrupoloso studioso possa aver partorito su New York.
Evelyn che morì a Santa Monica il 17 gennaio del 1967, forse, nella vita reale, non si riebbe mai, nonostante cercasse di ricostruire la sua esistenza segnata da un episodio tanto cruento: ebbe lunghi periodi di dipendenza dall’alcol, pur lavorando ancora in teatro e nel cinema; una volta ottenuto il divorzio si risposò con uno dei suoi partners – Jack Clifford – che, però, dopo soli due anni di matrimonio, la abbandonò.
Le immagini successive alla tragedia del 25 giugno 1906, rendono l’umana débâcle, restituendo una Evelyn sempre magnifica, ma segnata da una sconfitta personale, visibile dalla perdita di quella luce intensa che era non solo nel corpo e nel suo volto, ma nella sua anima e nel suo sguardo che era stato negli anni d’oro, se pur malinconico, malizioso e seduttivo.