di Angelo Cucco
Una foresta di schermi, braccia tese a reggere piccoli dispositivi che catturano immagini. La vista si sdoppia, l’occhio si fa meccanico. Non c’è rito, processione o evento che non sia ormai caratterizzato dall’accendersi di un gran numero di telefoni, fotocamere, tablet: nuove torce, nuovi elementi e parte del rito.
Fermo, al centro di un’aula gremita di devoti, aspetto l’epifania del Santo sull’altare. La tela che lo nasconde, ben illuminata, è il centro focale a cui tutti si volgono. Ogni suo movimento, ogni rumore è frutto di attenzione e di agitazione…potrebbe segnare l’inizio della svelata. La calca attende, è febbrile, carica. Ad un tratto il segno convenzionale: suona la campanella. Ed è qui che il panorama cambia.
Se fino a qualche anno fa, tutte le mani dei presenti si sarebbero impegnate in un sonoro applauso, oggi alzano in trionfo oggetti capaci di catturare e “portare a casa” l’emozione. Nessuno sembra stupirsi. È importante che la foto o il video sia fatto, non importa la qualità dell’immagine o la risoluzione. È importante perché sarà la testimonianza “dell’esserci stato”.
La forza del racconto e del resoconto non basta, la riproduzione esatta e partecipata è più forte, più efficace, più “vera”. Ancora meglio se, nell’incrociarsi di mille scatti, uno colpisce anche te che stai fotografando, così potrai essere “taggato”. Non a caso la moda del “selfie” ha coinvolto anche i riti, auto-fotografarsi nel momento cruciale “e con” il rito in corso è ormai prassi comune. Condividere l’emozione con una “comunità digitale” è importante quanto condividerla con la persona accanto. L’emozione diventa “take away”, può essere motivo di vanto con gli amici, può essere ostentata o, semplicemente, ri-vissuta in un altro tempo e in un altro luogo.
L’opinione si divide tra chi è favorevole a questo “nuovo uso” e chi lo condanna del tutto accusandolo di porre fine alla realtà, al momento da vivere. L’idea che possa esistere una comunità virtuale stride violentemente, secondo alcuni, con la “vita vera e vissuta”, si pensa spesso al virtuale come falso, non-luogo, terreno delle bugie e delle identità nascoste. Recenti ricerche però, hanno riabilitato la visione della comunità digitale, e spingono verso una co-presenza e un ampliamento della rete sociale dell’individuo. Secondo Hampton e Wellman [1], chi gravita e si inserisce in comunità virtuali ha la possibilità di avere molteplici contatti, di ampliare il proprio range, aggiungeremmo, anche in condizioni di svantaggio geografico. Una cosa è comunque certa, tutto ciò che si riporta in una comunità virtuale ha una base “reale” che, per saltare la barriera virtuale, ha bisogno della tecnologia e di qualcuno che ne faccia uso.
Non possiamo dunque non chiederci cosa spinge a cercare, sempre più spesso, di possedere il proprio scatto di un rito o di una festa, cosa induce a voler immortalare il parente che raggiunge un traguardo o l’uscita del simulacro dalla chiesa. Sicuramente le risposte sono tante e tutte complementari: dall’appassionato di fotografia allo studioso, dal devoto al curioso, ognuno ha i suoi buoni motivi per prendere un pezzetto di reale da conservare. Quasi tutti hanno la possibilità di fare da sé, di immortalare ciò che si vuole, di sentirsi autori. Punto fondamentale è, comunque, il riconoscimento personale o (ancor meglio) sociale dell’importanza del momento che si sta vivendo. Non fotografiamo in massa qualcosa che non abbia una sua valenza, più o meno influenzata dal contesto, dalla tradizione o dalle mode [2]. Sembra quasi di trovarsi nella Disneyland di Augé [3], di sentirsi come lui, un po’ dispersi e un po’ affascinati dalla presenza di questi dispositivi…e proprio come lui si inizia a riflettere osservando.
È il modo di vedere, di guardare, di vivere, di partecipare il rito che cambia. L’occhio si concentra su uno schermo, vive il presente come una realtà già virtuale e digitalizzata, una dimensione già altra, lontana nel suo svolgersi. La mente progetta il fine per cui si sta registrando o fotografando: pubblicare su un social network per ricevere “like”, inviare al gruppo di amici, voglia di possedere o di scaricare la tensione.
Il rito si disloca, si moltiplica. Su You Tube ne saranno caricate diverse versioni, registrazioni personali iniziate ed interrotte in un preciso momento, inquadrate ed oggettualizzate secondo propri schemi, svelati a volte dagli hashtag la cui analisi potrebbe aprire mondi sulla percezione e la successiva socializzazione del rito e dello scatto\video. In fondo ci riconosciamo comunità anche in un “#”, una comunità dai confini labili e momentanei che dura il tempo della condivisione e che intreccia identità diverse separate da virgole. Una comunità che, tuttavia, non è anonima proprio per l’identità che mette in gioco.
Amin e Thrift segnalano questo ampliamento delle possibilità di creare legami tra persone che non si sarebbero potute incontrare in altri modi se non in un forum settoriale [4]. È possibile uscire dal virtuale per creare legami nel “reale”? Gli incontri tra appartenenti a gruppi facebook (collezionisti, appassionati di feste, di arte sacra, di fuochi d’artificio sono gli esempi che ho seguito più da vicino) e i legami creati in seguito ad amicizie virtuali durate anche anni, sembrano confermare che il “reale” resta comunque una possibilità messa in campo, ed anzi desiderata, da chi condivide delle passioni. Potersi incontrare di persona cementifica il rapporto creato in rete e partito da un “frammento di identità” che ha messo in gioco la persona.
Le modalità con cui i video e le foto tracimano i confini spaziali, travalicano le mura e, in diretta, approdano in rete sono diverse e variano in corrispondenza alle esigenze degli attori sociali. Spesso comunque si genera quasi una gara “al dito più veloce”, a chi per primo ha postato il Santo svelato, a chi è riuscito a cogliere l’attimo fuggente, a chi ha fatto la foto più stana, a chi ha fotografato meglio la sposa o il laureato. Bisogna cogliere “il momento in cui….”. È proprio la simultaneità ad avere un suo fascino, ad attrarre. Parenti lontani, emigrati, amici che non possono essere presenti fisicamente sono ugualmente coinvolti nel rito: lo vivono (quasi) dal vivo.
Una diretta streaming “fai da te”, personale, in cui entra in gioco anche il rapporto affettivo, in cui il generico “vedere tramite un display” può assumere il sapore della relazione. Non è la tv locale, il cameraman della confraternita o il giornalista a decidere cosa devo guardare, ad inviare le immagini, a rendermi partecipe: è mio figlio, mia madre, il mio amico. Un’esclusività ricreata solo per chi guarda, un’immagine meno asettica.
Mi ritrovo, come la Christine di Augé, a fotografare chi fotografa, ad osservare cosa inquadra, a spiare tablet e cellulari che si alzano come una fitta barriera, a volte un po’ fastidiosa. Il rito, che mi era sembrato restringersi in uno schermo, si allarga e dilaga altrove, conquista spazi che non conosceva. I cento presenti diventano mille. Sebbene il rito si modifichi, gli applausi cedano il posto ai click, i flash accompagnino i fuochi, forse, a pensar bene, non si perde il significato profondo.
Se la festa è aggregazione, tramite i nuovi mezzi la socialità si espande, coinvolge chi, in teoria, è uscito “dalla cerchia” e lo fa con i mezzi di cui la comunità dispone. Se in qualche caso è una fotografia-ritratto a sostituire il parente lontano (ma anche carcerato o addirittura morto) per ricostruire l’unità del gruppo [5], una fotografia del rito può assolvere la stessa funzione [6].
Il tessuto sociale e le consuetudini possono non perdersi ma riformularsi. Lo dimostra il successo di visualizzazioni degli streaming. Se posso ascoltare lo Stabat di Mussomeli, vedere l’annacata du Santu Patre a Trapani, vivere momento per momento la processione di Sant’Agata a Catania, assistere al battesimo di mio nipote o alla proclamazione del mio migliore amico, sto cercando di abbattere un muro: quello della presenza fisica. In questa chiave, guardando a quei dispositivi come strumenti per creare, comprovare, mettere in gioco relazioni, anche il mio sguardo cambia.
Può ancora l’antropologo, il folklorista (o in qualunque modo vogliamo definirlo), osservare il rito solo nel “qui ed ora”? o dovrà curarsi anche di chi, in altri modi e tramite altri canali, partecipa al rito da lontano? Non si tratta più di registrare l’arrivo di donazioni dall’America, dall’Australia o dalla Germania. L’emigrante può farsi presente, ritorna ad essere coinvolto in prima persona, riconosciuto e reinserito negli stessi mondi del rito. E lo stesso studioso, posto dietro una telecamera o una macchina fotografica, vede il reale?
Ben sappiamo che lo sguardo di chi osserva ha poteri oggettualizzanti. Chi guarda definisce il campo, lo limita, lo iscrive in coordinate. Se accettiamo l’idea dei retroscena e della possibilità di osservare chi sta osservando [7], dovremo considerare anche il rapporto tra lo studioso e ciò che documenta (come lo documenta, cosa decide di tralasciare ecc.), nonché tener conto dei limiti delle apparecchiature usate. Tutto ciò può prefigurare una nuova antropologia? L’apparecchiatura tecnologica, la fotografia e il video non sono più semplici corredi strumentali al testo antropologico ma, addirittura, possono sostituirlo. Se durante una ricerca una fotografia, una registrazione o un video possono essere dispositivi importanti per memorizzare o fissare un evento, gli stessi possono divenire “testi non scritti” [8]. Non scritti è vero, ma come dicevano, non meno soggettivi e impregnati della personalità di chi li ha prodotti. La tecnologia, in sempre maggiore evoluzione, può dunque essere uno strumento espressivo dello studioso, un’alternativa alla stesura di un testo? Libri fotografici che ci parlano di riti e popolazioni stringando al minimo il testo e dando spazio alle immagini, video-documentari in cui la voce narrante si riduce per consentire un ascolto diretto (benché mediato!), sembrano orientarsi in questa direzione: dare spazio a nuove forme di raccontare l’antropologia.
Tuttavia, se in parte sono venuti meno i pregiudizi di cui ci scrive Faeta [9], è anche vero che è un processo ancora in itinere. Il terzo occhio tecnologico conserva ancora l’aura ambigua di sostituto-amico dell’uomo. Il fascino artistico del film o dello scatto hanno ( e forse avranno sempre) bisogno di essere chiacchierati, discussi, interpretati, accompagnati cioè dalle parole. Si corre il rischio di pensare ad una nuova neutralizzazione del ricercatore, la cui presenza-assenza deve essere uno dei poli in gioco, anche in un “testo non scritto”. Esattamente come nessuna descrizione può essere assunta come verità assoluta, nessuna fotografia è il reale completo. Se in un’intervista chi la conduce ha un suo peso, perché un ricercatore muto con il suo armamentario tecnologico dovrebbe passare inosservato? Quanto e cosa cambia davanti ad uno strumento di riproduzione?
Forse è proprio la tecnologia, che non è mai presenza neutrale, ad orientare nuovi comportamenti di chi intervista e di chi è intervistato. Tutti ormai siamo coscienti di ciò che vuol dire essere “ripresi”. Tuttavia, spesso, non sono solo gli antropologi, come dicevamo, a pubblicare in rete prodotti di interesse etno- antropologico: video di feste, racconti di anziani, storie di vita o di comunità, racconti, interviste più o meno occasionali, suoni, musiche, spartiti ecc.
La ricerca antropologica, dunque, potrebbe orientarsi anche sugli uploaders? Sul loro modo di rapportarsi alla tecnologia e alla materia antropologica, sul mandare in rete frammenti di cultura? L’appassionante studio dell’etnomusicologo Giuseppe Giordano [10] sembrerebbe aprire proprio queste frontiere, accompagnare l’idea della presenza immediata con una presenza mediata dal web. L’analisi delle pubblicazioni su You Tube, della loro quantità, del corredo informativo e degli uploaders stessi è forse la parte integrante di cui si è finora detto. “L’osservatore per caso”, proprio per il suo ruolo di insider, può essere una fonte anche di “modi di vedere” tramite un cellulare o una macchina fotografica. Può mostrarci ciò che vede-sente senza che qualcuno glielo chieda espressamente…sempre nella consapevolezza, però, che un destinatario esiste ed è il web. Sono temi su cui è necessario riflettere. Intanto, con attenzione, continuo anche io a ricevere “dirette” su whatsapp, immagini che vivo come “solo per me”, in esclusiva.
Dialoghi Mediterranei, n.16, novembre 2015
Note
[1] Cfr. Hampton K., Wellman B, 2000, Examing Community in the digital Neighborhood: Early Results from Canada’s wired Suburb, in T.Ishida, K. Isbister, a cura, Digital Cities: Experiensces, Technologies and Future Perspectives, Heidelberg, Springer Verlag.
[2] Senza voler portare troppo lontano il nostro ragionamento, si pensi ad esempio alla Ice Bucket challenge o alla Charlie challenge che esigono un filmato come prova.
[3] Cfr. Augé Marc, 1999, Disneyland e altri nonluoghi, trad. it a cura di A.Salsano, Bollati Boringhieri, Torino.
[4] Cfr. Amin Ash e Thrift Nigel, 2005, Città. Ripensare la dimensione urbana, Il Mulino, Bologna.
[5] Fotografie si espongono alle finestre al passaggio della processione, si pongono ai piedi dei Santi portati in trionfo, si mettono nel taschino prima di discutere la tesi o il giorno del matrimonio.
[6] Nel caso di persone morte non sono rari i casi di fotografie portate al cimitero, come a far partecipare il defunto della gioia dei vivi.
[7] Cfr. Miceli Silvana, 2005, Orizzonti incrociati, il problema epistemologico in antropologia, Sellerio, Palermo. La studiosa scrive: «Lo sguardo da lontano dell’antropologo è sempre uno sguardo da lontano; egli conoscerà il proprio solo per la restituzione che gliene darà lo sguardo altrui, e cercherà ancora altrove come conoscere quell’altro sguardo».
[8] Come non pensare al viaggio in Lucania di De Martino magistralmente raccontato tramite il filmato già nel 1952.
[9] Cfr. Faeta Francesco, 2003, Strategie dell’Occhio. Saggi di etnografia visiva, Franco Angeli, Milano.
[10] Giordano ha presentato il suo lavoro durante il ciclo di seminari “Etnografie del contemporaneo” tenutosi presso il Museo internazionale delle Marionette Antonio Pasqualino nel 2015. Esplicativo il titolo del suo intervento di lunedì 4 Maggio: Dalla ricerca sul campo a You Tube, tradizioni musicali “in rete”.
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Angelo Cucco, laureato in beni demoetnoantropologici e laureando in Studi storici, antropologici. e geografici, collabora con diversi siti internet e con associazioni locali per diffondere la conoscenza del patrimonio immateriale siciliano (www.isolainfesta.it, www.castelbuono.org, www.terradamare.org). Ha partecipato come relatore a diversi convegni sulla valorizzazione delle feste e delle tradizioni popolari.
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