di Anna Fici
A mia mi piaci u silenzio chi c’è a ‘stura/ I cristiani s’arricampano a’ casa/ I fammigghi s’assettano pi manciari/ E quanno i strati su vacanti,/ io arrestu finalmente sula/ Ma nuautri un semu suli figghiu mio.
Sono queste le parole d’esordio del personaggio di Mariannina, interpretato da una bravissima Serena Barone. Parole che, pronunciate intorno al quindicesimo minuto dall’inizio del film, rappresentano una sorta di manifesto, attraverso cui gli sceneggiatori (Giuseppe Carleo e Carlo Cannella) ci presentano il nocciolo esistenzialista di questa storia. Intorno ad esso gravitano tutti i personaggi chiamati a vivere, letteralmente sulla propria pelle, una contraddizione bruciante tra l’anelito all’amore degli altri e la lotta durissima contro l’invasione che l’altro opera ai nostri danni.
Si tratta di un tema sartriano, innestato all’interno di una storia in cui, apparentemente, prevale la vita rurale siciliana del secondo dopoguerra, con la sua forza e le sue ingenue, arcaiche superstizioni e credenze. Queste ultime, ben ricostruite attraverso le ricerche di Elsa Guggino e ben restituite dalla scrittura di Giuseppe Carleo e Carlo Cannella, possono essere interpretate sia in una chiave realistica e sia in una chiave metaforica.
È soprattutto la chiave metaforica a dare forza a questo primo lungometraggio di Giuseppe Carleo regista, La bocca dell’anima. Ostico per l’uso del dialetto e, ad una prima impressione, per l’uso di tempi sospesi e dilatati, questo film disseppellisce, fastidiosamente, le carogne sepolte dentro tutti noi: passioni irrazionali, irriducibili e indomabili che agiscono sotterraneamente come una lava che ci fonde da dentro, che scioglie la buona volontà, la fede, la creanza, rendendoci tutti come dei fantocci su cui qualcuno – il Potere impalpabile di chi ti offre da bere e, uscendo platealmente, dice: “Qualunque cosa prendi, pago io” – può piantare i suoi chiodi.
Inchiodati alla nostra sudditanza, legati dai nostri legami, persino da quelli ereditati, come i debiti del proprio padre nel caso di Giovanni, il protagonista del film, veniamo poi ciclicamente salvati dal pianto assordante dei nostri figli. È il pianto dei nostri figli o del ricordo di noi stessi quando siamo stati figli, a ridare senso all’amore, alla ricerca di integrazione e di umana compagnia, anche se sappiamo che ci legheranno ancora.
La bocca dell’anima, disegnata da Za’ Mariannina, la maga del paese, sulla pelle di Giovanni, appena ritornato dalla guerra, rappresenta una esemplificazione del pensiero magico. Le mani della donna sovrascrivono su quell’uomo ancora sofferente e spaurito, una nuova identità: quella di “invaso” e, in quanto tale, detentore di un dono: la capacità di sentire e guarire. È una nuova identità che ne ridisegna il ruolo all’interno della comunità. Assume cioè quello di Salvatore che, come tutti i Salvatori viene contestualmente destinato alla Croce. L’invasore, acclamato Santo dallo stesso Giovanni e dai suoi compaesani, è Enrico Marchese, suo compagno d’avventure, morto a Pantelleria. Il suo personaggio resta solo un ambiguo pretesto per il racconto.
L’antropologia e la sociologia a cavallo tra il XIX e il XX secolo, hanno descritto perfettamente come il ruolo dei totem e dei capri espiatori sia sostanzialmente identico, ovvero sia quello di incrementare e rafforzare la solidarietà sociale. Così ecco che il povero Giovanni, prima cercato e osannato per il suo dono di guaritore che gli è stato dato dal Marchese invasore, diviene poi capro espiatorio a cui vengono imputati tutti i mali della comunità.
Si arrocca così dentro la propria diversità che butta arrogantemente in faccia a Padre Pino (l’appena scomparso Maurizio Bologna) che è solo un’altra, più istituzionalizzata soluzione alla paura della gente.
L’altra faccia dell’amore, di quel richiamo familiare costituito dal pianto del figlio di Giovanni e, ancora una volta dalla magia di za’ Mariannina, che impasta il sangue mestruale della sua giovane moglie con la farina per realizzare un pane che lo faccia tornare a casa, è la paura. Sangue e farina, nutrimento e ferita, , non possono che essere la stessa cosa, lo stesso pane.
La morte di za’ Mariannina, con cui Giovanni aveva instaurato un legame profondo, non lo libera dal Marchese. Sotto la superfice di una vita rientrata alla normalità, egli continua a nuotare nei mari azzurrissimi di Pantelleria con il suo giovane compagno: un sogno o un ricordo che gli impedisce di accettare la realtà come destino.
Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024
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Anna Fici, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi per i Corsi di Laurea di Scienze della Comunicazione presso l’Università di Palermo, ha coltivato parallelamente alla carriera accademica la pratica fotografica, che l’ha portata a vincere nel 2002 l’Internazionale di Fotografia di Solighetto (Tv), con il lavoro «Facce di Ballarò». A partire da quell’anno ha ricevuto numerosi riconoscimenti e ha svolto diverse mostre personali, prevalentemente nell’ambito dei Festival della Fotografia italiani. Oggi coordina dei laboratori di Fotogiornalismo per i corsi di Scienze della Comunicazione. È inoltre Direttore artistico di Collettivof – http://collettivof.com – un collettivo di fotografi di recente costituzione. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Nella giostra della Social Photography, Mondadori (2018); La linea spezzata. Una ricostruzione critica dell’attuale deficit di coerenza, Libreriauniversitaria.it Editrice (2021).
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