Il primo libro di teoria dell’immagine (Einaudi, 2024) di Andrea Pinotti inizia con un dittico: una Cena in Emmaus, finto Vermeer, realizzato dall’abile falsario Han van Meegeren, ed una delle fotografie più famose e discusse della storia: Il miliziano di Robert Capa. Cosa è vero e cosa è falso?
Se facciamo riferimento alla fotografia, si tratta della raffigurazione di un evento reale o di un’immagine accuratamente messa in scena? Difficile rispondere in maniera definitiva. Nel tempo, il dubbio si è trasformato in uno scontro: chi mira alla verità dell’informazione, mettendo in prima linea il valore indiziale del mezzo e l’intimità del suo rapporto con la realtà; lo stesso Capa affermava se le tue foto non sono abbastanza buone, vuol dire che non sei abbastanza vicino.
E chi dà precedenza alla creazione di un messaggio, ovvero che la causa, in questo caso la guerra civile spagnola, è più importante della fotografia. Per Pinotti è l’occasione di illustrare il pensiero di Charles Sanders Peirce secondo cui la fotografia è impronta, poiché è immagine diretta del referente, non solo “iconica”, cioè legata per analogia a ciò che rappresenta, ma, anche “indicale”, cioè basata su un rapporto fisico, di contatto, che l’ha resa strumento al servizio della verità.
Se dunque una fotografia, come dice Barthes, è un messaggio senza codice, ovvero un messaggio che per passare dal reale alla sua fotografia non necessita di essere scomposto in segni che differiscono dall’oggetto che essi offrono in lettura, le rappresentazioni che produce possono essere fortemente codificate: stampa, arte, moda, porno, scienza. Per quanto possa essere considerata inseparabile dalla sua situazione referenziale, la “verità” della fotografia varia a seconda dei rapporti di potere da cui è investita, dipende dalle istituzioni o da chi se ne appropria, e garantisce l’autorità delle sue narrazioni. La tesi che da anni Joan Fontcuberta va sostenendo contro la dottrina del ça-a-été di Barthes, è quella della natura ambigua, se non addirittura menzognera, della fotografia, «la verità può essere costruita solo fino al 50% (l’altro 50%, l’altra metà, è finzione, interpretazione e apparenza), e che metà della verità è costruita da chi invia il messaggio (il fotografo) e l’altra metà da chi lo riceve (l’osservatore)».
Per questo la correttezza della testimonianza, legata al valore documentale e probatorio della fotografia, esige un accurato lavoro costruttivo e una meticolosa verifica delle condizioni di attendibilità. Si è soliti affermare che le immagini parlano da sole, ma questo è, ovviamente, falso. Le immagini parlano quando chi osserva le fa parlare, verificando le fonti, ricostruendo il contesto e decifrando il messaggio. Un’interrogazione continua da opporre alla manipolazione delle informazioni, alla post-verità, per cui i fatti oggettivi sono meno influenti degli appelli all’emozione e alle convinzioni personali, e alla diffusione di fake news attraverso i social media.
È ciò che Pinotti cerca di dimostrare attraverso l’analisi delle fotografie dei campi di concentramento, indagate da Georges Didi-Huberman nel suo Immagini malgrado tutto. Nel 1944 alcuni prigionieri appartenenti al Sonderkommando di Auschwitz-Birkenau riuscirono rocambolescamente a scattare quattro fotografie e a farle uscire dal campo. «Bisognava a ogni costo dare forma a questo inimmaginabile (…). La semplice emissione di un’immagine o di un’informazione – una mappa, delle cifre, dei nomi – divenne la cosa più urgente, uno degli ultimi gesti d’umanità». È dunque fondamentale continuare a rafforzare la veridicità di quei pochi fotogrammi, per dimostrare che lo sterminio perpetrato dai nazisti può essere narrato attraverso le parole e mostrato con delle immagini, che non è né indicibile né inimmaginabile, come vorrebbe chi lo relega in una dimensione mistica.
Pinotti confronta quelle quattro fotografie con altre foto scattate da un punto di vista diametralmente opposto, ovvero da un aereo ricognitore americano, inviato per acquisire documentazione fotografica su alcuni impianti industriali. I tedeschi non si accorgono di essere fotografati e gli americani non si rendono conto di aver fotografato un campo di sterminio. Nel 1977 due analisti della CIA, Dino Brugioni e Robert Poirier, studiando quelle immagini, individuano le camere a gas; in seguito alcune di quelle fotografie vengono incluse nel film Images of the World and the Inscription of War (1988) di Harun Farocki e interpellate nel 2000, in occasione di un processo davanti all’Alta Corte britannica.
Lo studioso non si limita a considerare le fotografie, ma chiama in causa altri media, fra cui i disegni realizzati dagli internati, le riprese dei cineasti e la produzione cinematografica successiva, una dimensione intermediale, «che ci metta in grado di far giocare l’uno con l’altro e l’uno contro l’altro i differenti media al fine di illuminarne criticamente le reciproche parzialità», (…) e la capacità di testimoniare il reale. Un approccio all’immagine che ricorda un aspetto della visione a 360 gradi dell’antico panorama, un enorme quadro circolare che offriva un approccio immersivo e una vista a campo lunghissimo, oggi resa possibile ricorrendo alla funzione “panoramica” di un qualsiasi smartphone. Ma soprattutto un dispositivo ottico che coglie la totalità della scena, liberandosi dalla parzialità dell’inquadratura, allo stesso tempo “sentimento dello spazio” e visione del mondo.
Se dunque il timore è che le immagini vincerebbero perché troppo disponibili a trasformarsi in feticci, una libertà che se da un lato ha esasperato l’incontenibile pulsione voyeuristica connessa alle possibilità dell’obiettivo fotografico, alla sua presunta capacità di rappresentare la flagranza del reale e di condividerla online, la teoria costringe a una fruizione più lenta, meditata, speculativa. È un antidoto per curare ciò che Pinotti in un altro saggio chiama narcosi mediale, cioè la difficoltà di distinguere fra la realtà e la sua rappresentazione, che secondo alcuni ci allontanerebbe dalla verità.
Il libro si chiude con un interrogativo che riguarda la produzione delle immagini algoritmiche, e investe lo statuto dell’immagine in generale, «in che misura la cosiddetta computer vision o machine vision performata dalla macchina, (…) può ancora dirsi davvero una forma di «visione» se le sue procedure si dispiegano a un livello non coglibile dall’occhio umano?». E ancora, questi plessi di byte possono dirsi in senso proprio «immagini», visto che «il modo di esistenza di tali enti iconici appartiene al regime di invisibilità più che a quello della visibilità, dal momento che essi trascorrono la stragrande maggioranza del loro tempo sepolti nel buio profondo dei nostri dispositivi, privi di relazione con l’occhio umano?».
Pinotti si rivolge agli studenti universitari e agli specialisti, ma anche a chi desidera approssimarsi all’iconosfera, in particolare alle immagini fisse, disegni, dipinti, fotografie analogiche e digitali, figure prodotte dall’intelligenza artificiale. Leggere questo libro è anche un modo per ripercorrere la storia dell’arte attraverso alcune celebri opere, mettendo alla prova le varie ipotesi interpretative per evitare inesattezze e interpretazioni errate. Per esempio il ritratto di Madame Cézanne sulla sedia gialla seduta con le mani intrecciate in grembo e lo sguardo rivolto a qualcosa fuori dal quadro, in apparenza immobile e quasi inespressivo, grazie alle teorie della Gestalt, si rivela un campo di forze in procinto di esplodere, una convergenza di tranquillità esteriore e di forte tensione potenziale, la definisce Rudolf Arnheim, una carica di energia in attesa di manifestarsi lungo la direzione segnata dal suo sguardo.
L’atarassia felina di Madame Cézanne si “scontra” con l’eros e thanatos di Salomè e Giuditta. Come si distinguono quelle figure femminili, se osservando due quadri diversi, Giuditta di Artemisia Gentileschi e Salomè di Charles Mellin, entrambe sembrano protagoniste della stessa storia in due momenti distinti? Una fanciulla, assistita da una serva, brandisce una lama affilata e decapita l’uomo, facendo schizzare dalla giugulare ampi fiotti di sangue, poi sopraggiunge il momento della vendetta, e la testa mozzata viene esposta su un piatto da portata. Sin dal titolo del paragrafo, Cacciatrici di teste, si è presi da una irresistibile curiosità, un coinvolgimento difficile da dominare. Ma è proprio nel momento in cui si è consapevoli di questa vulnerabilità, della propria ingenua iconofilia, che l’emozione lascia spazio alla teoria. Saremmo stati più cauti a «farci quel film» (…), se avessimo prima letto Erwin Panofsky (…). L’attrazione per il macabro non avrebbe reso frettoloso il nostro giudizio se avessimo distinto uno strato oggettivo primario, relativo all’esperienza immediata dell’opera d’arte, da uno strato oggettivo secondario, propriamente iconografico, che pertiene al sapere aggiunto proveniente dalla cultura.
Dalla gravitas di Giuditta-Salomè si passa alla leggerezza dell’ancella che incede dal limite destro dell’affresco e reca sul capo un cesto di frutta, nella Nascita di San Giovanni Battista di Domenico Ghirlandaio. Il panneggio mosso dal vento che sembra agitarsi solo attorno a lei, il velo che si gonfia alle sue spalle, i capelli ondeggianti, e il piede sinistro piegato ad angolo retto rispetto al piano del pavimento, donano alla figura un’impressione di movimento. È una delle ninfe di Aby Warburg, Pathosformel, immagine feticcio che rappresenta la rinascita dell’antico, il dinamismo sensuale proprio della Grecia arcaica.
Oltre a questi esempi, nei quattordici capitoli del libro sono descritte e riassunte altre modalità interpretative, fra cui l’ontologia, la fenomenologia, la psicoanalisi, la neuroestetica, il formalismo.
Il primo libro di teoria dell’immagine è un breviario, non tanto da intendersi come breve e abbreviato, ma un compendio che può essere sempre tenuto a portata di mano. Un libro da sottolineare e annotare, che ci dà anche la possibilità di leggerlo, scegliendo tra le autorevoli voci, il suono che sentiamo più vicino.
Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024
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Silvia Mazzucchelli, laureata in Scienze umanistiche, ha conseguito un master in Culture moderne comparate e un dottorato in Teoria e analisi del testo presso l’Università di Bergamo. Per Einaudi ha curato Un intenso sentimento di stupore (2023) della fotografa Giulia Niccolai. È autrice di due saggi dedicati alla fotografa e scrittrice Claude pubblicati da Johan & Levi. Di Claude Cahun ha curato anche Les paris sont ouverts (Wunderkammer, 2018) e scritto il saggio introduttivo per la traduzione in italiano del pamphlet. Ha curato la voce “Inge Morath” per il catalogo “A-Z Steinberg”. Scrive di fotografia per numerose riviste e fa parte della redazione della rivista on line Doppiozero. Sulla fotografa Giulia Niccolai, della quale conserva l’archivio, sta completando uno studio per cui è prevista una monografia. Di prossima pubblicazione sono anche un volume di recensioni a venti donne fotografe vissute a cavallo del secolo scorso e un volume di interviste a dodici protagoniste e protagonisti della fotografia.
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