di Valerio Cappozzo
Come poter esprimere l’inespresso? Con quale musicalità dar vigore a una nuova lingua? E ancora, come poter descrivere quello che c’è oltre la vita, il regno dell’eterno a cui ogni essere umano è destinato?
Dante, intorno ai diciotto anni, cercava una lingua più incisiva che con la realtà avesse in comune l’immediatezza, la trasparenza di forma e contenuto e che allo stesso momento conservasse diversi piani di lettura, stimolando il lettore con parole che potessero delineare la realtà al modo di un dipinto. Come un ritratto che raffigura la persona, pur non potendo mai essere fotograficamente esatto, considera il carattere del soggetto al di là della sua fisionomia.
Al giovane Dante, riflettendo a lungo su questi e altri quesiti, appare a conclusione della Vita Nova una «mirabile visione», un diverso livello di percezione del reale che, una volta compreso, gli permetterà «più degnamente trattare di lei» (XLII, 1) e così di rappresentare il cammino che lo condurrà a Beatrice oltre la vita terrena. Il proposito è quello di «dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna» (XLII, 2), scopo prefissato sin dall’inizio della Vita Nova quando, nove anni dopo il primo incontro, Dante rivede questa «mirabile donna» (III, 1), apparizione che gli induce un sogno, proprio una «meravigliosa visione» (III, 3).
L’immagine notturna verrà descritta nel primo sonetto, A ciascun’alma presa e gentil core, componimento mandato in forma anonima ad altri rimatori affinché ne fossero gli interpreti. Guido Cavalcanti darà l’interpretazione del sogno come profezia della morte della donna, e ogni risposta dei “fedeli d’amore”, coloro che graviteranno intorno al gruppo del dolce stil novo, come Chiaro Davanzati e Ricco da Varlungo, parteciperanno al dibattito intensificato da un altro sonetto visionario mandato da Dante da Maiano. Questi strutturano le loro risposte con un linguaggio mistico, onirico, concordemente al tono dantesco, mentre gli appartenenti alla tradizione guittoniana, i rimatori più anziani, come Guido Orlandi e Ser Cione Baglione, rifiuteranno proprio l’utilizzo del sogno considerato un’argomentazione fatua.
Il dibattito poetico porterà a definire le caratteristiche compositive negli ultimi anni del Duecento, in quel momento in cui la letteratura italiana si sta evolvendo fino a generare nel secolo successivo i testi innovativi della cultura occidentale. E lo fa non solamente grazie alla tematica del sogno, ma più generalmente grazie a un approfondimento della materia letteraria che permetterà al sommo poeta di esplorare l’aldilà, a Petrarca di scandagliare l’animo umano e a Boccaccio di rappresentare la società umana nelle sue diverse sfaccettature.
Nella ricerca della parola pertinente Dante, ora più adulto, compone un trattato di linguistica fondamentale per la formazione dell’idioma italiano, il De vulgari eloquentia, scritto in latino proprio per non usare la lingua che va discutendo, quel volgare di cui si ricerca l’esemplare illustre, o quantomeno la varietà «più decorosa» (I, XI, 1). Dei quattordici dialetti italici, il toscano insieme a ingredienti fonosintattici delle parlate settentrionali, centrali e meridionali, viene stabilita la lingua, così come l’utilizzo che se ne deve fare a seconda dei registri adatti alla materia che si tratta. Avendo Dante in mano la formula linguistica, può avviarsi a scrivere il proprio viaggio che dalle fiamme infernali lo porterà alla luce divina. Ma con quale metrica farlo? È possibile comporre un poema epico con la neonata lingua italiana? Virgilio era riuscito in latino con la metrica quantitativa, basata non sull’accentuazione delle sillabe ma sulla loro durata, la stessa usata dalla poesia greca, attraverso l’esametro dattilico, o esametro eroico, adatto alla narrazione epica. Ma la metrica latina non utilizza la rima, mentre la lingua di Dante dà importanza all’assonanza tra le parole per risaltare la musicalità del verso. Si rimette allora a studiare per definire quale sia la struttura metrica più adatta alla materia che già aveva in mente di raccontare, il viaggio oltre i confini del vissuto.
Così compone il Convivio, trattato dedicato alla filosofia, e lo argomenta attraverso testi poetici inseriti, come già per la Vita Nova, in una cornice discorsiva. La canzone è il componimento lirico che Dante annovera tra i migliori, per la sua natura armonica e la lunghezza che permette di svolgere al meglio un ragionamento. I versi rimano tra loro e variano tra endecasillabi e settenari con un numero indeterminato di stanze o strofe, generalmente cinque o sette. Con il prolungamento della canzone e l’utilizzo della terza rima, Dante trova la forma perfetta per il proprio racconto, un insieme di endecasillabi ritmati regolarmente in cui la rima scandisce il tempo di lettura come il metronomo quello della musica.
Se non dalla letteratura classica, da dove proviene l’esperienza della rima? Dalla poesia francese in lingua d’oc e d’oïl che a sua volta la apprende da quella spagnola che a sua volta si rifà alla poesia araba, formatasi in epoca preislamica nei deserti del Medioriente e poi trasmigrata nell’Europa occidentale. Le diramazioni della lingua latina, in particolare antico francese, provenzale e italiano, intrapresero lo stesso corso a seguito della divisione linguistica:
«La radice primigenia dell’umana propaggine fu piantata nelle terre d’Oriente, e di qui la nostra propaggine si diffuse da una parte e dall’altra moltiplicando a distesa i suoi tralci, per spingersi da ultimo sino ai confini occidentali, fu forse allora per la prima volta che gole di creature razionali bevvero ai fiumi di tutta Europa» (De vulgari eloquentia, I, VIII,1).
Il rapporto tra i rimatori andalusi e i provenzali è essenziale per comprendere la modulazione del verso che nella lingua italiana troverà una significativa espressione di musicalità e la pienezza di significato. La poesia araba nasce intorno alla metà del sesto secolo d.C. tra la Siria e la Mesopotamia con immagini che appartengono alla vita nomade e desertica dei Beduini. La qaṣīda (composizione poetica) – la forma lirica preislamica – contiene generalmente le tematiche del ricordo melanconico dell’incontro con la donna amata, il tentativo vano di rimediare al dolore d’amore dato dalla lontananza. Il metro di questi componimenti, lunghi e monorima, è il rajaz, doppio verso monometrico, lo stesso del ghazal, la poesia della tradizione araba in particolare persiana, incentrata sull’amore inteso come espressione di dolore per la perdita dell’amata e sulla bellezza e valore del sentimento.
Dall’XI secolo la qaṣīda viene modernizzata con una resa formale più elegante ed entra a far parte della vita di corte arrivando in Spagna attraverso il muwaššaḥ, genere più complesso e concettuale basato sulla musicalità dei versi delle cinque stanze di cui solitamente è composto, con l’aggiunta di ritornelli a rima corrente. Questo dà vita al nūbah andaluso, forma poetica in arabo o in mozarabico accompagnata dalla musica [1]. La musicalità del verso, dunque, insieme al tema d’amore e della sua impossibilità, diventa dominante nella poesia cortese provenzale fino a trasferirsi nella corte palermitana dell’imperatore Federico II, dove si sviluppa sia dal punto di vista metrico, con la nascita del sonetto di cui Giacomo da Lentini è considerato l’ideatore, sia dal punto di vista argomentativo con l’idea del sentimento come principio d’elevazione spirituale e morale. Lo stesso notaio originario di Lentini inserisce nella sua canzone più celebre, Meravigliosa-mente, il motivo del ritrarre come fosse un dipinto la persona amata per avere disponibile la sua figura, in questo modo ravvicinare le distanze fisiche e cominciare un percorso interiore così profondo da far sentire il poeta vicino alla sua donna, come ricorderà Dante ai tempi della sua «mirabile visione».
Il corso della metrica araba, che attraverso la poesia spagnola e francese arriva a quella italiana, è stato oggetto di studi già dal 1572. Giovanni Maria Barberi compose l’Arte del rimare (pubblicato per la prima volta da Girolamo Tiraboschi nel 1790 a Modena con il titolo Dell’origine della poesia rimata), un trattato che si propone idealmente di concludere il De vulgari eloquentia rimasto incompiuto. Nel capitolo Propagazion della rima degli Arabi agli Spagnuoli e a’ Provenzali, Barbieri si concentra sulla connessione tra la poesia araba e occitanica sollevando la questione dell’origine della versificazione accentuativa: «né da’ Greci, né da Latini antiqui né da’ più moderni sia originato il modo delle Rime, ma dagli Arabi passando ad altre lingue e nazioni». Successivamente il gesuita Juan Andrés, nel suo Dell’origine, progressi e stato attuale di ogni letteratura (1785), guarda alla poesia cortese araba come ispirazione per quelle francesi e italiane dall’XI secolo in poi. Jean Leonard Simonde de Sismondi, con De la littérature du Midi de l’Europe (1819) e Madame de Staël in De la littérature considérée dans ses rapports avec les institutions sociales (1812), riconducono alla stessa origine la rima e il poetare cortigiano. Italo Pizzi, nella sua Storia della poesia persiana (1894), afferma a tal proposito: «sono molto evidenti certe somiglianze di soggetto, di forma e di concetto», tra i componimenti arabi, francesi e italiani [2].
Questi studi pionieristici daranno il via, tra Otto e Novecento, all’analisi delle fonti orientali, indiane e persiane in Dante [3]. Uscendo dai confini comunali e nazionali si cominciarono a vedere punti di contatto tra la Divina Commedia e la tradizione letteraria islamica del viaggio notturno del profeta Maometto, sia per quanto riguarda la struttura narrativa del racconto, sia per determinati episodi considerati affini dagli studiosi [4].
Una volta stabilita la metrica e il tipo di rima da utilizzare attraverso l’analisi linguistica e filosofico-stilistica, Dante, prima di accingersi alla stesura della sua opera principale, si concentra su quale modo poter descrivere il mondo ultraterreno. I modelli greci o latini gli offrono alcune modalità di viaggio, alcune determinanti atmosfere che ritroveremo nella scenografia infernale o, grazie alla poesia ovidiana, nel cielo del Purgatorio dove i versi di Stazio e ovviamente quelli virgiliani ispirano la materia letteraria e i suoi episodi. La Bibbia non riporta resoconti precisi dal punto di vista topografico del mondo celeste: San Paolo, per esempio, «fu rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunziare» (II Corinzi 12, 4) [5]. L’indicibilità è contraria al progetto dantesco che vuole esprimere il trasumanare, l’elevarsi oltre i limiti dello stesso linguaggio per attingere al divino; per la creazione, in particolare, del secondo regno, di cui Dante è innovatore nell’immaginario basso medievale, s’ispira a leggende di origine irlandese come il Purgatorio di San Patrizio, la Visione di Tnugdalo e la Navigazione di San Brandano [6]. Ma è dal racconto del viaggio notturno del profeta Maometto che sembra provenire l’ispirazione. Sappiamo quanto l’accostare la cultura italiana delle origini a quella musulmana sia argomento delicato e discusso, ma è difficile trovare altre tradizioni così stimolanti e precise come quelle arabo-islamiche che riportano le fasi del viaggio ascensionale del profeta, isrāʾ e miʿrāj [7].
Senza poter ipotizzare una conoscenza diretta da parte del poeta fiorentino di tali narrazioni, ricordiamo il concetto di «interdiscorsività» formulato da Maria Corti per spiegare la familiarità di Dante con il racconto del viaggio profetico, molto probabilmente grazie al maestro Brunetto Latini che nel 1260 si trovava in qualità di ambasciatore fiorentino alla corte castigliana di Alfonso X, mentre Bonaventura da Siena traduceva Il Libro della Scala di Maometto in latino [8].
Per normalizzare l’incontro anche casuale che possono avere differenti religioni o culture, sarebbe bastato a Dante sentir raccontare per le strade di Firenze che in Oriente il profeta dell’Islam aveva dato il via a una tradizione secondo la quale a dorso di una creatura fantastica e con la guida dell’arcangelo Gabriele aveva visitato il Paradiso e l’Inferno constatando il grado di beatitudine o di disgrazia delle anime: alcune salve, altre vittime di una legge divina secondo la quale al vizio perpetrato in vita corrisponde una punizione contraria. Il contrappasso, l’architettura dei gironi infernali e la topografia dei cieli trova riscontro nella tradizione musulmana come nel testo dantesco.
Queste informazioni che possono ipoteticamente essere arrivate a Dante attraverso il maestro Latini, o per i vicoli della sua città, ma meno probabilmente attraverso un riscontro testuale, bastino a persuaderci riguardo a un dibattito che compie ormai centouno anni durante i quali, dalle teorie di Miguel Asín Palacios del 1919 in poi, si è affrontata la questione senza una risoluzione [9]. Forse, guardando alla formazione della musicalità del verso poetico e agli interrogativi su quale lingua e quali passaggi narrativi usare per raffigurare il viaggio ultraterreno, il giovane come il più adulto Dante è arrivato a quel «trasumanar significar per verba» che solamente attraverso la considerazione di elementi diversi fra loro, appartenenti a una o più culture, può esprimere l’inespresso.
Dialoghi Mediterranei, n. 42, marzo 2020
Note
[1] Sulla storia della metrica araba si veda almeno: Oriana Capezio, La metrica araba. Studio della tradizione antica (Venezia: Edizioni Ca’ Foscari, 2013).
[2] In ordine cronologico di pubblicazione: Juan Andrés, Dell’origine, progressi e stato attuale d’ogni letteratura, 8 voll. (Parma: Stamperia Reale, 1785-822); Esteban de Arteaga, Della influenza degli arabi sull’origine della poesia moderna in Europa: dissertazione (Roma: Nella Stamperia Pagliarini, 1791); Giammaria Barbieri, Dell’origine della poesia rimata, a cura di Girolamo Tiraboschi (Modena: Società tipografica, 1790); Jean C.L. Simonde de Sismondi, De la littérature du Midi de l’Europe, 4 vols (Parigi: Treuttel et Wurtz, 1813-1819); Madame de Staël-Holstein, De la littérature considérée dans ses rapports avec les institutions sociales (Parigi: Bibliothèque Charpentier, Eugène Fasquelle, 1800); Italo Pizzi, Storia della poesia persiana, 2 voll. (Torino: Unione Tipografico-editrice, 1894). Contributi importanti sull’argomento sono quelli di: María Rosa Menocal, The Arabic Role in Medieval Literary History: A Forgotten Heritage (Philadelphia: University of Pennsylvania Press, 2004), 71-90; 79-80; Roberto M. Dainotto, ‘On the Arab Origin of Modern Europe: Giammaria Barbieri, Juan Andrés, and the Origin of Rhyme’, Comparative Literature, 58 (2006): 271-292. Entrambi gli studi sono ben analizzati da Elisabetta Benigni, ‘Dante and the Construction of a Mediterranean Literary Space. Revisiting a 20th Century Philological Debate in Southern Europe and in the Arab World’, Philological Encounters, 2 (2017): 111-38.
[3] Giuseppe Gabrieli, Dante e l’Oriente (Bologna: N. Zanichelli, 1921); Arturo Graf, Miti, leggende e superstizioni del Medioevo (Torino: Giovanni Chiantore, 1925); René Guénon, L’ésotérisme de Dante (Parigi: Ch. Bosse, 1925); Leonardo Olschki, ‘Dante e l’Oriente’, Giornale Dantesco, 39 (1936): 65-90; Antoine F. Ozanam, Essai sur la philosophie de Dante (Parigi: Faculté des Lettres, 1838): 197-204; Angelo De Gubernantis, ‘Le type indien de Lucifer chez Dante’, Actes du Xe Congrès des Orientalistes: Dante e l’India, Giornale della Società asiatica italiana, 3 (1889): 3-19; Edgar Blochet, Les sources orientales de la Divine Comédie (Parigi: Maisonneuve & Larose, 1901).
[4] Per studi recenti su Dante ‘orientalista’ si vedano: Andrea Celli, Dante e l’Oriente. Le fonti islamiche nella storiografia novecentesca (Rome: Carocci, 2013); Brenda Deen Schildgen, Dante e l’Oriente (Roma: Salerno Editrice, 2016).
[5] Sui viaggi ultramondani prima di Dante si vedano Visioni dell’aldilà in Occidente. Fonti modelli testi, a cura di Maria Pia Ciccarese (Florence: Nardini, 1987); Eileen Gardiner, Visions of heaven and hell before Dante (New York: Italica Press, 1989); I viaggiatori del Paradiso. Mistici, visionari, sognatori alla ricercar dell’Aldilà prima di Dante, a cura di Giuseppe Tardiola (Firenze: Le Lettere, 1993); Manuele Gragnolati, Experiencing the Afterlife. Soul and Body in Dante and Medieval Culture (Notre Dante, IN: University of Notre Dame Press, 2005); Giuseppe Ledda, ‘Dante e la tradizione delle visioni medievali’, in Letture classensi. Le tre Corone. Modelli e antimodelli della Commedia, a cura di Michelangelo Picone (Ravenna: Longo Editore, 2008):119-142.
[6] Cfr. Jonathan M. Wooding, The Otherworld Voyage in Early Irish Literature. An Anthology of Criticism (Portland, OR: Four Courts Press, 2000).
[7] Cfr. Theodore Silverstein, ‘Dante e la leggenda del Mi’raj. Il problema dell’influsso islamico nella letteratura escatologica cristiana’, Critica del testo, 3 (2001): 582-636; Sanâ’î, Viaggio nel regno del ritorno, a cura di Carlo Saccone (Parma: Luni Editrice, 1999); Il viaggio notturno e l’ascensione del profeta nel racconto di Ibn ‘Abbās, ed. by Ida Zilio-Grandi (Torino: Einaudi, 2010); Carlo Saccone, Viaggi e visioni di re, sufi, profeti (Milano-Trento: Luni Editrice, 1999).
[8] Maria Corti, ‘La “Commedia” di Dante e l’oltretomba islamico’, Belfagor, 50 (1995), 301-314: 301: «Ci sono nella cultura processi di interdiscorsività per cui è impossibile rinvenire la fonte diretta di una notizia o di un dato in quanto ormai quella notizia o quel dato circolano nella cultura, sono patrimonio comune in seguito a una compenetrazione interdiscorsiva».
[9] Per un resoconto degli studi sulle influenze islamiche nella Divina Commedia nel corso del Novecento, si vedano i recenti: Andrea Celli, Figure della relazione. Il Medioevo in Asín Palacios e nell’arabismo spagnolo (Roma: Carocci, 2005); Valeria Pucciarelli, Dante e l’Islam. La controversia sulle fonti escatologiche musulmane della Divina Commedia (San Demetrio Corone: Irfan Edizioni, 2012); Sabina Baccaro, ‘Dante e l’Islam. La ripresa del dibattito storiografico sugli studi di Asín Palacios’, Doctor Virtualis, 12 (2013): 13-33; Dante e la cultura islamica, a cura di Cesare Capone (Milano: Editoriale Jouvence, 2015); Dante and Islam, a cura di Jan M. Ziolkowski (New York, Fordham University Press, 2015); Sguardi su Dante da Oriente, a cura di Carlo Saccone, Quaderni di studi Indo-Mediterranei, IX (2016); Roberta Morosini, Dante, il profeta e il Libro. La leggenda del toro dalla Commedia a Filippino Lippi, tra sussurri di colomba ed echi di Bisanzio (Rome: L’Erma di Bretschneider, 2018); Massimo Campanini, Dante e l’Islam. L’empireo delle luci (Roma: Edizioni Studium, 2019); Valerio Cappozzo, ‘1919-2919. Cento anni di dibattito su Dante e l’Islam con uno sguardo su Boccaccio e la cultura arabo-islamica’, Dialoghi Mediterranei, 37 (2019) <http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/1919-2019-cento-anni-di-dibattito-su-dante-e-lislam-e-uno-sguardo-su-boccaccio-e-la-cultura-arabo-islamica/?fbclid=IwAR3kLRQC2wH0DM0IQt3pfQtAOaQkwCw1GMBENPXv685NQkwXGVQowmi0EAY>
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Valerio Cappozzo, direttore del Programma di Italiano e Professore di letteratura italiana all’University of Mississippi, è autore del Dizionario dei sogni nel Medioevo. Il Somniale Danielis in manoscritti letterari (Leo S. Olschki 2018). Oltre all’interpretazione dei sogni lavora sul concetto di diplomazia culturale tra il mondo cristiano e musulmano nel Medioevo e nel Rinascimento. Su questo ambito di ricerca sta curando un libro su Boccaccio e l’Islam, approfondendo la ricezione araba della Divina Commedia e preparando una monografia sui viaggi mediorientali di Francesco d’Assisi e di Federico II durante le crociate. Membro del comitato scientifico di diverse collane e riviste letterarie e filosofiche, è attualmente il segretario dell’American Boccaccio Association e il co-direttore della rivista «Annali d’Italianistica».
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