di Paolo Giansiracusa [*]
Una roccia aspra, nuda, lunga e stretta, generatasi attraverso spinte tettoniche come tutto l’Appennino di cui le montagne dei Nebrodi e delle Madonie, nonché gli speroni isolati fino al Monte di Erice, sono la parte emergente più a Sud del Mediterraneo, così doveva apparire ai siculi, nell’età preistorica, il possente masso roccioso su cui oggi è posata Troina. Il monte, sulla linea di colmo, possedeva una pista naturale (poi strada interiore), giacente sul piano ondulato della parte più elevata del masso, fiancheggiata nel nostro tempo da due filari di case che costituiscono l’abitato, chiudendo a Tramontana e a Mezzogiorno il nucleo più antico. Si tratta del risultato di una lunga stratificazione alla cui base andrebbero cercate le radici strutturali della città greca.
Qui, come sulle pareti e sui limitati pianori dei contrafforti rocciosi circostanti, si espressero con segni tangibili le prime forme di vita organizzata. La roccia, come una scultura segnata dal passaggio umano, nonostante la forte antropizzazione, testimonia ancora oggi l’esistenza di necropoli e villaggi preistorici a cui, qualche tempo dopo la colonizzazione greca, si sovrapposero e si affiancarono forme evolute di urbanizzazione. Poco si conosce allo stato attuale dei contesti abitativi e dei luoghi urbani fortificati del primo millennio a.C., anche se la ricerca archeologica ha gettato luce su ampie pagine del passato e, ancora oggi, continua con costanza e sapienza a disseppellire complessi strutturali e testimonianze fittili.
Nel luogo che fu prima dei Siculi e quindi dei Greci passò poi la civiltà romana con segni meno incisivi, da leggere in corrispondenza di una stagione di decadenza urbana. La rinascita dell’età bizantina fu legata ancora una volta al carattere aspro del territorio, al suo aspetto fortificato (pareti scoscese in ampi tratti imprendibili), alla sicurezza dovuta alla lontananza dalle località costiere, spesso teatri di scontro tra i conquistatori del difficile Mare Mediterraneo. Romitori ed oratori furono intagliati nel vivo masso, spesso sfruttando gli ingrottamenti delle precedenti necropoli.
Gli stessi contesti in cui i greci avevano innalzato santuari dedicati alle divinità pagane divennero spazi di espressione della civiltà cristiana. Le contrade del territorio e quelle adiacenti alla città odierna, anche dove si è perduto ogni segno strutturale, attraverso i nomi dei santi documentano l’esistenza di luoghi di culto la cui denominazione superò, per la fede salda e la devozione radicata degli abitanti, persino la tempesta delle rimozioni arabe.
Poi giunsero le prime comunità religiose e gli oratori diventarono chiese, alla stessa maniera ai romitori si sostituirono le prime strutture monastiche organizzate. Agli Hauteville si deve la rinascita della fede religiosa cristiana, ripristinando persino l’antica diocesi e promuovendo la costruzione della prima Cattedrale normanna dell’Isola. Fu così che alla vigilia di Natale del 1061, data “simbolica” con cui si segna la conquista del castrum arabo (alcazar) da parte del Gran Conte Ruggero [1], il fortilizio moresco della rocca e i casali che sorgevano dentro e fuori le mura della città ellenistica conobbero una pianificazione urbanistica regolare, con opere difensive limitate alla sola vetta in cui, con sostanziali modifiche, sorse la cittadella ruggeriana.
Così rinacque la città di Troina, come una nave guerriera aggrappata all’isola di roccia alta 1.121 mt. sul livello del mare, un’arca sicura sugli speroni lapidei imprendibili dell’appennino siculo. Era il segno tangibile dell’alleanza tra la Chiesa e i condottieri normanni che da qui, protetti contro ogni rappresaglia, gettarono le basi del nuovo Stato. Risorse in tal modo, emergendo dalla campagna increspata di colli rocciosi, l’originario “muro” naturale, possente e vittorioso, con le sue pareti ripide prontamente rialzate con mura inattaccabili, impossibili da scalare in tutto il loro sviluppo. Torrioni e contrafforti resero il luogo inespugnabile facendo delle stesse case murature fortificate. Nel sistema turrito, tre emergenze in particolare potenziarono le opere di difesa. Ancora oggi sono evidenti in tutta la loro imponenza:
A) Ad Est, la Torre della Cattedrale successivamente trasformata in svettante campanile; nel primo ordine si apre una delle porte della cittadella normanna. Da essa si giunge alla strada urbana che conduce al muro difensivo teso a rendere inaccessibile la struttura absidale della chiesa, concepita come maschio rinforzato da trincea e recinto, riutilizzando persino parte delle fortificazioni ellenistiche innalzate nel IV sec. a.C. successivamente alla spedizione con cui Timoleonte liberò la città dalla tirannide di Leptine [2]. Il carattere strutturale e compositivo del corpo absidale è tipicamente arabo; squadrato come un torrione militare, identico ai corpi architettonici di avvistamento dei manieri del deserto africano [3].
B) Al centro, nella parte mediana della sella naturale, la Torre Capitania, baluardo possente successivamente adattato a Palazzo del Bargello. La destinazione d’uso della struttura è oggi quella culturale. Accoglie infatti: nei bassi, in parte incavati nel vivo masso, l’Antiquarium Archeologico; nell’ampio vano intermedio, ristrutturato nel sec. XIX, il Lapidarium dedicato alla memoria dell’insigne studioso di Architettura Cleofe Giovanni Canale; nei locali espositivi dell’ultimo livello la Pinacoteca d’Arte Moderna, dedicata alla memoria dell’eminente storico di origine locale Gaetano Zito.
C) – Ad Ovest, la Torre dei PP. Conventuali di San Francesco della cui struttura originaria rimane solo il primo ordine. La parte superiore è stata scapitozzata e ricostruita probabilmente in funzione alle esigenze di carattere religioso. I Normanni non ebbero il tempo di appianare le rocce che, con spuntoni e bastioni naturali, sorgevano lungo la cresta naturale. Tutto sorse direttamente sulle increspature della pietra selvaggia, addentellando l’opera costruttiva dell’uomo al masso naturale. In alcuni casi (l’archeologia non mancherà di dimostrarlo) dove le muraglie greche emergevano furono inglobate nel recinto urbano e diventarono fondamenta di indubbia solidità. Significativo è il riutilizzo del sistema difensivo ellenistico (sec. IV a.C.) che sorge sul versante Est della Cattedrale. Nella parte alta le murature squadrate, come quelle di un castello, si innalzano per costituire il mastio del nuovo fortilizio (la Cattedrale era chiesa e fortezza allo stesso tempo). Il recinto greco si fece ostacolo per il passaggio nemico, difendendo le opere normanne, la guarnigione militare, il clero e la popolazione civile che viveva dentro la cittadella. La buona politica del nostro tempo [4] ha messo tutto al vaglio.
Restauri, ristrutturazioni, consolidamenti, bonifiche strutturali e ambientali, scavi… hanno consentito di giungere alla nuda pietra sulla quale riposano le vistose stratificazioni createsi nel tempo. La città medievale e le sue trasformazioni adesso riemergono proponendosi all’attenzione del mondo scientifico e alla cura dei propri abitanti. Si rileva, si consolida e si restaura in tal modo lo spazio armonico dell’antica convivenza civile. Nello stesso tempo risorgono le fondamenta strutturali di epoche e civiltà diverse fin qui coperte di sterro, spazzatura, sterpaglie e tante, davvero tante, opere abusive. Si pensi in tal senso alla baraccopoli che fino a tre-quattro anni fa insisteva sulle pareti rocciose del lato Nord dell’antico abitato (a ridosso delle mura ruggeriane) adesso finalmente ripulite e riportate alla dignità formale medievale.
Il disegno della cittadella normanna fu confermato nell’età sveva e poi, con un prolungamento abitativo sulla cresta rocciosa verso Ovest, fu spinto fin oltre la chiesa San Nicolò alla Piazza [5], durante il governo aragonese. Nella stagione federiciana, pur restando inalterato l’aspetto difensivo delle strutture proiettate all’esterno (sia nel versante Nord che in quello orientato a Sud), le murature interne si ingentilirono testimoniando il senso di sicurezza che doveva caratterizzare la lunga via interiore della cittadella. Pochi resti, allo stato attuale, ci consentono di dare testimonianza del rinnovamento architettonico favorito dalla politica federiciana, tuttavia ci danno la possibilità di immaginare come nelle parti superiori dei prospetti, dove in sicurezza le murature potevano affacciarsi verso l’arco solare, dovevano aprirsi eleganti monofore e bifore dal disegno ogivale.
Sulla Via Conte Ruggero, nella muratura di un palazzetto inserito nell’allineamento architettonico del versante Nord, dopo la caduta di un leggero strato di intonaco (circa dieci anni fa), ho potuto scorgere la struttura mutilata (con deplorevoli rotture e rasature) di una bifora duecentesca. Il disegno lineare e l’uso del marmo (materiale nobile mai utilizzato, per indisponibilità locale, dai Normanni a Troina) mi hanno spinto a pensare al rinnovamento urbano di ispirazione federiciana. Anche un frammento di colonna in marmo bianco (questo però trecentesco), ritrovato nelle discariche dell’abitato e oggi conservato nel nascente Lapidarium, concorre verso questa ipotesi di rinnovamento edilizio sia nelle strutture formali che nell’uso dei materiali tra i secoli XIII e XIV.
Nella vicina Randazzo, dove i manufatti medievali hanno avuto maggior fortuna dal punto di vista della conservazione, si può leggere con chiarezza il rinnovamento edilizio federiciano. La datazione che per questa bifora propongo, terzo decennio del sec. XIII, si incastra nell’arco temporale che separa l’Assise di Messina del 1221 dalla Dieta del 1234 [6]. È un periodo in cui l’imperatore è particolarmente attivo nei confronti della ricerca di soluzioni tese al miglior governo dei territori ereditati dall’asse normanno. Sono anni in cui, con i buoni auspici dell’Imperatore Federico II, viene favorita e potenziata la presenza dei cistercensi in Sicilia, giunti con Ugo di Citeaux nella prima metà del sec. XII. Numerose sono in tal senso le testimonianze architettoniche, alcune imponenti come la Basilica del Murgo affacciata sullo Jonio, ad Agnone Bagni.
Nel contempo, per proteggere i territori dal lato costiero, Federico rinnova e potenzia il sistema difensivo del lato orientale della Sicilia con architetture dalle forme geometriche essenziali. In esse, tramite il suo architetto Riccardo da Lentini, riutilizzando antichi marmi per le aperture più significative, dà un carattere gentile ai possenti castelli. Non molto distante dall’abitato troinese, scendendo verso Sud, si può rilevare la presenza di una chiesetta cistercense in cui, ormai al limite della stagione sveva, affiorano i caratteri dell’architettura dalle forme pure, stilisticamente promossa un trentennio prima da Federico. Si tratta di ciò che resta di un complesso architettonico probabilmente più articolato che si configurava come Abbazia di Santa Maria di Spanò, oggi ricadente in un’enclave della giurisdizione territoriale del Comune di Randazzo.
Un’abbazia cistercense addentellata ad uno sperone roccioso
Tommaso Fazello nell’opera De Rebus Siculis [7] ci dà notizia di una “badia” dedicata a Santa Maria (aggregata al Monastero di Santa Maria la Stella) edificato per iniziativa di Nicolò Trainese (altre fonti scrivono Nicolò di Troina). Si tratta dell’Abbazia di Santa Maria di Spanò (Sanctae Mariae de Spano) in cui nella seconda metà del XIII secolo era presente una comunità cistercense [8]. Appartenente ad un’enclave del territorio di Randazzo, il centro più vicino resta tuttavia la città di Troina. Dal punto di vista religioso la comunità monastica rispondeva all’Ordinario Diocesano di Messina. Presenti fin dal 1263 [9] in virtù della fondazione di Nicolò Trainese, i cistercensi di Spanò persero la loro indipendenza nel 1310 [10], quando furono aggregati all’Abbazia di Santa Maria di Novara di Sicilia (dello stesso ordine cistercense, linea Clairvaux). Balduino Gustavo Bedini afferma che a Spanò non ci sia mai stata un’Abbazia, ritiene infatti che possa essersi trattato di un priorato [11]. Bedini a tal proposito fa presente che nello Statutum 31 del Capitolo Generale del 1279 si accenna al monaco Michele come usurpatore del titolo di abate della comunità [12].
In un Diploma di Alfonso d’Aragona del 1425 la comunità viene ancora nominata [13]. Successivamente se ne perdono le tracce, non solo storiche ma anche strutturali. Infatti, ad esclusione della chiesetta non restano tracce evidenti del complesso abbaziale o dell’eventuale edificio del priorato. Dell’argomento si occupa anche Leopold Janauschek nella sua opera monumentale Originum Cisterciensium [14]. Un accenno, alquanto impreciso, ne fa Vito Amico [15] citando il Fazello: Spanò (V.N.), Casale un tempo, oggi feudo, mentovato dal Fazello, ed appartenente per concessione del Conte Ruggero agli Abati di Santa Maria di Novara. In tempi recenti il casale, con al suo interno la chiesa, è appartenuto alla famiglia Sollima di Troina. Nel momento attuale il corpo architettonico duecentesco, pur essendo integro, versa in precarie condizioni. L’uso improprio di stalla ne comporta il degrado e ne compromette la conservazione.
La contrada Spanò, senza prove e documenti degni di essere discussi, è stata identificata come la sede dell’antica Enatus, da altri come il sito di Alesa. Su tali congetture evito di aggiungere i riferimenti bibliografici di appartenenza perché privi di ogni fondamento. Il territorio fece parte un tempo della giurisdizione amministrativa del Comune di Bronte; solo nel 1831, in seguito a liti giudiziarie, passò al Comune di Randazzo di cui è oggi un’isola amministrativa. La letteratura locale alla denominazione di chiesa sostituisce spesso quella di Castelluzzo, da cui Castello di Spanò. Nonostante avessi indagato con attenzione sul piccolo acrocoro non sono riuscito a scorgere opere murarie che possano definirsi parte di strutture fortificate.
La Chiesa di Santa Maria de Spanu
Nel territorio in esame, allo stato attuale, insistono una chiesetta a mononavata con transetto e delle stalle di recente costruzione abbarbicate ad uno spuntone di roccia che emerge dalla vallata del fiume Troina. Del fortilizio e dell’eventuale abbazia non ci sono tracce. D’altra parte, ammesso che ci fossero segni di allineamenti murari in evidenza, le modifiche a scopo agricolo del territorio non hanno lasciato alcun segno. La chiesetta si è salvata sol perché inservibile a motivo del piano di giacitura accidentato. Essendo costruita su una strettissima sella rocciosa, il suo spazio circostante è impraticabile.
La struttura chiesastica è formata da due blocchi che ne costituiscono la composizione architettonica. Si tratta di una mononavata che si attesta ad un ampio transetto generando una croce commissa. I due corpi architettonici, pur costituendo un complesso organico, sembrano strutturalmente autonomi. L’impossibilità di effettuare verifiche negli spessori e negli agganci murari non consente di potere formulare una ipotesi definitiva, tuttavia osservando lo sviluppo dei volumi si comprende che le architetture dei due vani (navata e transetto) sono accostate sul piano di giacitura dell’arco trionfale.
Il vano chiesastico è chiuso da una struttura voltata. Si tratta di una volta a botte probabilmente ottenuta con materiale leggero, alla maniera bizantina. Uno spesso intonaco ottocentesco non consente di poter leggere la tessitura e la qualità dei materiali dello spessore della volta e dei suoi rinfianchi. Si può ipotizzare che si tratti di pietra pomice oppure di frammenti di rocce laviche effusive (le falde laviche dell’Etna non sono distanti). Nel Castel Maniace, a Siracusa, le strutture voltate federiciane sono generate da conci squadrati di lava porosa. La considerevole dimensione degli spessori dei rinfianchi della volta mi spinge altresì a pensare che, secondo un metodo in uso nell’architettura normanna e sveva (che trae fondamento da quella bizantina), il vuoto sia ammortizzato con anfore realizzate all’uopo. Solo le introspezioni strutturali, propedeutiche ad un necessario e urgente restauro scientifico, potranno dirci con esattezza su quali requisiti costruttivi si basi la staticità dell’opera.
La presenza di travature lignee e di tiranti in ferro ci autorizza a pensare che la costruzione in un recente passato ha manifestato problemi di tipo statico. Le opere di rinforzo eseguite, così come lo spesso intonaco che riveste sia le pareti interne che quelle esterne, sono assegnabili al 1861. L’anno 1861 è dipinto, con terre colorate, sull’intonaco che riveste l’arco di trionfo, nel punto di chiusura dell’ogiva. La data è sormontata dal monogramma dipinto di Maria Vergine. Ciò documenta che, dopo i restauri ottocenteschi, la chiesetta fu riconfermata al culto della Madonna. Essa rimase in uso, come chiesa destinata alle attività di culto della comunità rurale della Contrada Spanò, fino all’abbandono, avvenuto probabilmente nel secondo dopoguerra.
Il transetto è un lungo e stretto corridoio che fuoriesce notevolmente dal complesso murario, in direzione Nord-Sud. Esso è determinato dalle due pareti che fiancheggiano l’arco di trionfo e dalla parete di fondo nella quale si impiantano le tre absidi con nicchie a chiusura ogivale. Le strutture murarie cilindriche che chiudono le absidi sono particolarmente robuste e fungono da contrafforte alla parete di fondo. Le tre absidi sono dotate di altrettante monofore. In quella centrale, prudenzialmente tamponata, è ancora presente il rivestimento della mostra a sguincio, ottenuto con conci di pietra bianca squadrata. La stessa lavorazione, a conci squadrati sagomati, si nota in due monofore della torretta inglobata nel transetto (la monofora inferiore della parete Sud e l’unica monofora della parete Ovest).
L’abside centrale è incavata nel corpo murario di due cilindri sovrapposti, di diversa misura. La funzione di torretta, utile al collegamento (con scaletta interna) tra il vano chiesastico e la copertura del transetto, è svolta dalla parte terminale del braccio Sud del transetto. La scaletta prende luce dalle monofore aperte sulle pareti Sud e Ovest del transetto. Il transetto al centro, nella parte superiore, è sormontato da una cupola che non ci è stato possibile vedere all’interno. Tuttavia il suo volume e la sua forma si leggono con chiarezza osservando il complesso architettonico dalla sommità delle rocce del lato Est [16]. Il prospetto principale, proiettato a levante è stato pesantemente rimaneggiato nell’Ottocento e oltraggiato in tempi recenti. Ottocentesca è la parte terminale del frontone, così come l’oculo circolare che sostituisce forse un precedente rosone a sguincio, composto da spicchi di pietra squadrata, sul genere di quello ancora in sito nel prospetto della chiesa di Sant’Andrea (prima metà del sec. XIII), nel territorio di Buccheri [17].
Il portale ogivale è scolpito con un archivolto a più cordoni, raccolti su una cornice di imposta poggiata sul paramento a conci squadrati e su colonnine (due per lato) leggermente rientranti rispetto all’apertura dell’arco a sesto acuto. Le colonnine hanno un accenno di capitello ancora evidente sul lato sinistro. Sul lato destro il decoro è stato maldestramente rasato. Non è il solo danno di cui soffre il prospetto, infatti un pezzo del portale e un ampio brano del paramento, sul lato sinistro, sono stati barbaramente coperti da un caseggiato di recente costruzione. Il paramento murario a conci squadrati, al quale è ammorsato il portale, nella parte superiore è chiuso da una cornice di cui lateralmente, nelle modanature, si scorge la chiusura angolare. In asse con la chiusura ogivale, al centro della fila più alta dei conci, è incastonato un blocco scolpito con il simbolo della croce dei templari [18].
La mononavata è illuminata da cinque aperture: quattro finestre nella parte alta della muratura (due per lato), in parte incavate nello spessore della volta a botte per mezzo di vele a spicchio; un finestrone grande proiettato a Mezzogiorno per consentire l’illuminazione dello spazio chiesastico durante l’arco della giornata. Le quattro finestre, chiuse da arco a tutto sesto, non mostrano tracce di cornici e nemmeno di rivestimento lapideo negli stipiti. Probabilmente furono rimaneggiate in occasione dei lavori di ristrutturazione del 1861.
Il finestrone grande è ad arco ogivale. In tempi recenti è stato spogliato della sua cornice esterna, come purtroppo si evince dagli svuotamenti murari sui due lati dell’arco. Dell’originaria definizione architettonica restano solo pochi tratti della cornice del davanzale il cui materiale lapideo è uguale a quello del prospetto. Si tratta di una calcarenite bianca che ricorda nella struttura litologica la pietra degli Iblei. I materiali costruttivi delle opere murarie sono leggibili nelle parti basamentali della chiesetta dove l’umidità di risalita ha comportato il distacco di ampie parti delle campiture dell’intonaco di rivestimento ottocentesco. La muratura messa a nudo mostra di essere costruita con materiali poveri, spesso amorfi, come scaglie di pietra lavica e frammenti di tufo locale. Non manca la presenza di mattoncini in cotto. Dell’altare principale restano la nicchia dell’abside centrale e, alla sua base, un ampio brano del primo gradino della predella eseguito in pietra grigia, con semplice modanatura nella pedata. La scala d’accesso originaria doveva essere frontale. Di essa resta solo il pianerottolo d’arrivo a cui si giunge per mezzo di una scaletta recente di cemento. È probabile che la scala frontale originaria sia stata smontata per fare posto al baglio antistante le case rurali limitrofe.
Dialoghi Mediterranei, n. 59, gennaio 2023
[*] Il presente lavoro di ricerca, pur tra le difficoltà e gli impedimenti frapposti all’analisi del manufatto, nasce per la precisa volontà di documentare, per quanto è possibile, lo stato di fatto di un gioiello architettonico realizzato negli ultimi anni della dominazione sveva. Non è stato possibile effettuare rilievi obiettivi e molte parti architettoniche sono state osservate a distanza. Ciò mi impegna a compiere successivi sopralluoghi, preceduti dalle autorizzazioni del caso. L’argomento dunque, nella fase attuale, rimane aperto a successive verifiche. Questo studio punta a spingere le istituzioni pubbliche preposte alla tutela e il mondo scientifico a prendere atto dell’esistenza dell’opera e a procedere verso la messa in campo delle iniziative necessarie alla acquisizione pubblica e quindi alle necessarie e urgenti opere di salvaguardia e valorizzazione.
Note
[1] Goffredo Mataterra, De Rebus Gestis, Rogerii Calabriae et Siciliae Comitis et Roberti Guiscardi Ducis fratris eius, a cura di Ernesto Pontieri, Bologna 1928; Paolo Giansiracusa, Troina Civitas Vetustissima, Troina 1999.
[2] Le fortificazioni Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, XVI, 72, 3. “Timoleonte… si avvicinò poi alla città di Engyon, retta dal tiranno Leptine, e la assalì ripetutamente allo scopo di scacciare Leptine dalla città e restituire la libertà ad Engyon” (Traduzione a cura di Teresa Alfieri Tonini, Milano, 1985).
[3] “Sotto i Normanni, entrati come conquistatori, ma divenuti monarchia nazionale nel senso più preciso della parola, le arti e le scienze continuarono a fiorire. Non è esatto dire arte normanna, perché un’arte normanna non esiste né poteva esistere, bensì devesi dire fiorita sotto i Normanni per impulso e munificenza di quei re, ma che era arte siciliana e cioè arabo-bizantina, fondendo l’arte araba con le forme severe bizantine…” Francesco Giuseppe Arezzo, Miscellanea di Studi Storici, Palermo 1950: 233.
[4] Periodo della Sindacatura del Prof. Sebastiano Fabio Venezia, dal mese di Giugno 2023 ad oggi (novembre 2022).
[5] Nella fiancata Est e nel robusto muro absidale sono evidenti i segni di strutture medievali ottenute con conci squadrati di tufo locale.
[6] Il notaio imperiale Riccardo di San Germano dà notizia di due diverse diete tenute dall’imperatore Federico II a Messina, nelle quali furono promulgate delle leggi regie o assisae. La prima ebbe luogo nel mese di settembre 1221, la seconda nel mese di gennaio del 1234.
[7] Tommaso Fazello (Sciacca 1498- Palermo 1570), De Rebus Siculis, Palermo 1558. Deca Prima, Libro Decimo, cap. I 564. A questo (Castel di Noara) è vicina la badia di Santa Maria del medesimo nome, dell’Ordine de’ Cistercensi, a cui fu aggiunto il Monastero di Santa Maria della Stella del medesimo ordine, edificato da Nicolò Trainese, e fatto molto ricco, non men da lui, che della gran liberalità de’ suoi figliuoli.
[8] I primi monaci cistercensi arrivarono in Sicilia nella prima metà del XII secolo. Bernardo di Chiaravalle (1090-1153) inviò sull’isola Ugo di Citeaux il quale fu accompagnato da Paolo, Eligio e Marco. La prima comunità costruì il Monastero di Vallebona (territorio di Novara di Sicilia) a partire dal 1137. L’edificio fu completato nel 1167. Il monastero, eretto canonicamente nel 1171, intitolato a Maria Santissima Annunziata, chiamato poi Abbazia di Santa Maria di Novara, è considerato il primo monastero cistercense della Sicilia.
[9] Il 1263 è l’anno in cui il papa Urbano IV conferma la scomunica di Manfredi e concede la Sicilia in feudo a Carlo I d’Angiò. Tale avvenimento viene interpretato dagli storici come un momento favorevole per gli ordini monastici che operavano nel territorio regionale. Per il nuovo corso la data 1263 viene dunque indicata come quella in cui Nicolò Trainese, cogliendo il clima politico favorevole, prende l’iniziativa di costruire il complesso abbaziale.
[10] L’anno 1310 rientra nel periodo relativo alla persecuzione dei templari ad opera di Filippo IV (1268-1314). La repentina cessione di S. Maria della Stella di Spanò al monastero di S. Maria di Noara (Novara di Sicilia), indica la volontà di non lasciar cadere in mani estranee l’abbazia che, in virtù dell’atto di fondazione, mai sarebbe dovuta diventare grangia di un altro monastero. L’aggregazione della comunità di Spanò a quella di Novara era stata predisposta e tentata l’anno prima, nel 1309.
[11] Balduino Gustavo Bedini, Le abbazie cistercensi d’Italia, Casamari, 1980 (IV ed.): 167.
[12] ibidem
[13] ibidem
[14] Leopold Janauschek, Originum cisterciensium, in quo praemissis congregationum domiciliis adjectisque tabulis chronologico-genealogicis veterum abbatiarum a monachis habitatorum fundationes ad fidem antiquissimorum fontiunm primus. Tomo I, Vindobonae 1877. Ristampa anastatica, Ridgewood (USA), 1964: 257, DCLXVIII.
[15] Vito Amico, Lexicon topographicum Siculum, Panormi 1757-1760. Edizione tradotta e annotata di Gioacchino Di Marzo, Palermo 1855, vol.II: 541.
[16] Sul lato Est, quasi a ridosso delle absidi, sullo spuntone roccioso più alto, si notano le fondamenta di un torrino cilindrico ottenuto utilizzando scaglie di pietra del territorio e cocciame di grossa pezzatura. È certamente il residuo di un punto di avvistamento e di controllo sulla vallata successivo alle opere sveve in esame.
[17] Paolo Giansiracusa, L’Altipiano Ibleo, Noto 1984: 42-43. Giorgio Flaccavento, Una chiesa inedita dell’età sveva: Sant’Andrea presso Buccheri, Rivista EPT Ragusa, Giugno 1978. Vladimir Zoric, La Chiesa di Sant’Andrea. Buccheri e il feudo di Rachalmemi, Palermo 2003.
[18] Che si tratti della Croce dei Templari si evince dalla simbologia degli elementi scolpiti. Al centro figura la croce greca cuspidata a otto punte. Il braccio inferiore della croce presenta un’ulteriore cuspide (una terza punta) tesa a rappresentare la lama che la regge. Ai lati della croce, nei due quadranti superiori, figurano il Sole (a sinistra), la Luna (a destra). L’esistenza del simbolo dei templari lascia ipotizzare la presenza dei cavalieri unitamente a quella dei monaci cistercensi. Non è escluso che la breve storia della comunità cistercense sia da connettere all’uso della Chiesa di Santa Maria de Spanu come tempio dei cavalieri.
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Paolo Giansiracusa, Storico dell’arte, Professore Emerito Ordinario di Storia dell’Arte nelle Accademie di Belle Arti. Già Docente di Storia dell’Arte Moderna e Contemporanea alla Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Catania. Componente dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico, Siracusa-Roma. Direttore del M.A.C.T. Polo Museale d’Arte Moderna e Contemporanea di Troina. Fondatore e Direttore della Rivista Nazionale “Quaderni del Mediterraneo”.
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