dialoghi intorno al virus
di Piero Di Giorgi
20 aprile
Penso che nessun essere umano oggi vivente sul nostro pianeta abbia mai vissuto un periodo così oscuro, incerto, confuso e incontrollabile. L’esplosione improvvisa del COVID 19 ha cambiato i nostri progetti, i nostri modi di vivere e forse di pensare, le nostre abitudini, le modalità di rapportarci l’un con l’altro, ha stravolto semplicemente le nostre vite.
Ho sentito evocare da subito una situazione da guerra e di conseguenza tutta una terminologia improntata al linguaggio bellico: “Siamo in guerra”, “i medici e tutto il personale sanitario sono in prima linea”, “al fronte” ecc. Mi dispiace, ma dissento. La guerra è un’altra cosa. Ne conservo qualche fugace ricordo anch’io. Nella guerra si contrappongono eserciti di uomini armati, si schierano popoli contro altri popoli, vi sono armi micidiali che distruggono città, monumenti, opere d’arte, non si risparmiano donne e bambini. Qui siamo, invece, di fronte a un nemico invisibile, impalpabile, che attacca tutta l’umanità, anche se sembra che il virus risparmi i bambini e sia più clemente con le donne. È questa, a mio avviso, la differenza più significativa, che tutta l’umanità combatte unita contro il virus e che emerge una carica di collaborazione e di scambio di conoscenze della comunità scientifica, ma anche di solidarietà e di aiuti in termini di personale sanitario e di attrezzature da parte di nazioni diverse.
Certo, a tal proposito, mi aspetto l’obiezione: e l’Europa? Certo, l’Europa ha perso ancora una volta l’appuntamento con la Storia. Se essa non è in grado di dimostrare di essere una comunità vera, come dice il suo acronimo “CE” (Comunità Europea), in una contingenza così drammatica in cui incombe la morte e anche una crisi economica senza precedenti, migrazioni, criminalità organizzata e povertà, allora se non ora, quando? Sembra che le burocrazie europee e certi governanti di alcuni Paesi non abbiano compreso la gravità del momento che stiamo attraversando, sia dal punto di vista della salute pubblica, sia dal punto di vista economico. In alcune regioni del Sud Europa si rischia la catastrofe. Si manifestano già episodi di “spesa proletaria”, di scippi, di rapine nelle farmacie, che prefigurano assalti ai forni e rivolte di popolo. Ci sono tante famiglie che vivevano di lavoro nero, di lavori saltuari o precari e senza alcuna tutela, che non possono comprare generi di prima necessità, che non possono sfamarsi. Inoltre, se il Coronavirus esplode al Sud, dove le strutture sanitarie e ospedaliere sono molto più carenti che al Nord, sarà una vera catastrofe.
I comportamenti aberranti di rigido nazionalismo di alcuni Paesi del Nord Europa, Paesi che praticano i paradisi fiscali e che si fanno concorrenza tra loro di fronte alla situazione drammatica che attraversa l’Europa, penso che debbano portare a una riflessione profonda circa le istituzioni europee e a porci alcuni interrogativi. Il quotidiano conservatore The Welt non ha perso l’occasione di scrivere che i soldi dati all’Italia finiscono in mano alle mafie. Forse, a quel giornale sfugge che le mafie inseguono il denaro, che ormai sono delle holding internazionali presenti in tutto il mondo, e quindi anche in Germania, fanno parte delle élite finanziarie che speculano in borsa e sono in grado di fare fallire anche i singoli Stati.
A me pare che le nostre vite siano state affidate a una classe dirigente poco consapevole e molto scadente, formata da piccoli burocrati con una corazza caratteriale intrisa di egoismi nazionalistici, di populismi, incapaci di vedere che, in un sistema complesso, quale è il sistema Europa e il sistema-Mondo, le diverse componenti sono interdipendenti e che da soli non ci si salva. Altrimenti, non si spiegherebbe l’incomprensione da parte di chi ha la responsabilità di guidare l’Europa, che, per affrontare la tragica emergenza che stiamo vivendo e se si vuole la riconversione economica – perché di questo si tratta se non si vuole convivere per sempre con i virus – occorrono migliaia e migliaia di miliardi e perciò gli Eurobond o Ricovery Fund come li hanno ribattezzati, garantiti dalla BCE. Non solo, ma ciò che mi preoccupa ancor di più e che non riesco a comprendere è il silenzio assordante dei nostri rappresentanti europei rispetto al fatto gravissimo di un Paese membro come l’Ungheria di Orban, l’amico di Salvini, che si trasforma in dittatura. La domanda spontanea è: Non si sarebbe dovuto riunire d’urgenza il Parlamento europeo, il Consiglio e la Commissione per espellere quel Paese dall’Unione, essendo i suoi principi in totale contrasto con quelli di democrazia dell’Europa?
A mio modesto parere, occorre ripensare l’Europa, aprendo una discussione accesa sulla base dei presupposti e dei princìpi sui quali essa è nata, a partire dal Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi. A quel punto, i governanti di quei Paesi che s’ispirano e si riconoscono nei princìpi di identità culturale, di solidarietà e libertà devono porre un aut-aut a quei governanti che non vi si riconoscono e trarne le dovute conseguenze. La mia ipotesi è che occorra, forse, pensare a una rimodulazione dell’Europa e approdare a una Comunità Europea più piccola ma più coesa sui principi dei suoi fondatori, piuttosto che un’Europa ampia soltanto come espressione geografica ma inesistente sul piano della condivisione di valori comuni. Un’Europa Mediterranea con un Parlamento vero nel ruolo di decisore, in rappresentanza dei cittadini degli Stati che lo compongono, con un Governo vero, che abbia la fiducia del Parlamento, con regole comuni, dal bilancio alla fiscalità, alla difesa e politica estera, al welfare, con retribuzioni e pensioni uguali, in sostanza una prospettiva di Federazione di Stati, magari dopo un periodo di alleanza confederale.
Angela Merkel ha perso un’occasione storica di mostrarsi all’altezza dei Padri fondatori dell’Europa, come Spinelli, De Gasperi, Kohl, facendo fare un passo in avanti decisivo all’Unione in direzione di una confederazione unita e solidale. La posizione rigidamente nazionalista dell’Olanda, della Germania, della Finlandia ed altri ha avuto come riverbero, quasi come un meccanismo di difesa, il riaffiorare di un orgoglio nazionale di tanti italiani, che si sono alternati a ricordare ai nostri detrattori d’Europa che tutte le conquiste della modernità di cui loro fruiscono: telefono, radio, elettricità, le loro colonie, l’arte, la scienza le devono agli italiani Meucci, Marconi, Fermi, Colombo, Vespucci ecc. ecc.; che i loro musei sono pieni dei nostri artisti, da Leonardo da Vinci a Raffaello, a Tiziano, a Caravaggio e l’elenco sarebbe troppo lungo; e che gli inglesi hanno avuto l’ardire di mutare pure il nome dei nostri artisti per farli apparire come inglesi. Chi di noi è stato alla National Gallery di Londra, avrà certamente visto che per esempio Raffaello diventa Rafael e Tiziano diventa Titian e così via. Tuttavia, il risuscitato orgoglio si può giustificare come risposta emotiva a un’offesa ricevuta. Ma, non solo di passato vive l’uomo. La memoria del passato deve essere la spinta per proseguire e andare oltre le conquiste dei nostri progenitori.
Chiusa la parentesi sull’Europa, sempre a proposito di solidarietà, giorni fa ho postato su Facebook una breve riflessione sulle tante previsioni positive e generative di una nuova umanità che venivano fatte sul post-coronavirus. Costretto a stare a casa come tutti noi, oltre a leggere e a scrivere, parte del tempo lo impegno a guardare i messaggi sul cellulare, dove giungono una quantità di notizie di ogni genere, alcune ben gradite e utili degli esperti e sulle regole da osservare, sui movimenti e sulle precauzioni igieniche; altre di personaggi che, agiti dalla spinta compulsiva del loro narcisismo, pur di mostrarsi, scrivono o dichiarano, con toni teatrali e arricchiti da turpiloquio, notizie false e pericolose che, non solo contrastano con quelle degli scienziati, ma anche con l’evidenza di una cruda realtà che miete centinaia di vittime ogni giorno. Poi ci sono le tante barzellette, o brevi video ironici e divertenti e tante note canzoni italiane riadattate, su cui si è esercitata la fantasia degli italiani e che servono a stemperare il tragico clima e le ansie suscitati dal coronavirus. Arrivano anche, oltre ai tanti “ce la faremo”, “andrà tutto bene”, proclami di grandi cambiamenti verso un mondo migliore e rinnovato.
Nel mio post esprimevo le mie perplessità, consapevole della doppia natura umana, dove Eros e Thanatos convivono e si affrontano ogni giorno come in un campo di battaglia, prevalendo ora l’uno ora l’altra. Ho riflettuto soprattutto sulla morte, che è il traguardo verso cui tutti viaggiamo e se ogni giorno facessimo un pensierino su di essa, anziché rimuoverla, forse, vivremmo meno alienati e saremmo più buoni. Purtroppo, ciascuno di noi, nel proprio inconscio, si sente immortale, ma la morte, invece, come dice Pavese, “per tutti ha uno sguardo”. Ed è quando la morte si materializza e diventa tangibile o perché colpisce una persona a noi cara o come nel caso del COVId 19 si manifesta come una minaccia che può colpire nel mucchio, senza distinzioni di sesso, di razza, di religione, ricchi e poveri, allora ci assale una valanga di sentimenti, paura, panico, disperazione e anche depressione. Allora, magari riemergono sentimenti pro-sociali, altruistici e solidaristici. Ma, non appena, il coronavirus passerà, perché passerà, allora gradualmente riemergeranno i sentimenti egoistici, d’invidia, di gelosia. D’altronde, gli sciacalli non mancano nemmeno adesso, nel pieno della bufera, della paura e del dolore, che speculano sui prezzi delle mascherine e dei disinfettanti o gli speculatori dei cosiddetti mercati e, forse, non sarebbe una cattiva idea chiudere le borse. Non è, peraltro assente lo sciacallaggio politico, gli slogan e la propaganda di chi vuol trarre profitto anche dalle tragedie. Ed è anche per questo che le distopie trionfano sulle utopie.
Personalmente, non ho avuto mai paura della morte perché, come ha scritto un filosofo, quando ci sarà la morte io non ci sarò e mentre io ci sono non c’è la morte. Io ho paura soprattutto della malattia, della sofferenza, degli ospedali, ma ciò che mi assilla come una presenza costante e un ricorrente ricordo è la morte delle persone a me care. Nella circostanza, sono preoccupato per mio figlio medico a Roma e penso ai tanti medici e infermieri che sono morti per avere svolto con abnegazione la loro professione di cura degli altri, impegnati in una lotta estenuante contro l’invisibile nemico. Va a loro la mia gratitudine, come penso di chiunque.
Mi angosciano quelle immagini da film di complottismo, in cui si vedono persone con tute da palombari e soprattutto le immagini di quelle centinaia di bare messe in fila e poi caricate sui camion per essere portate al crematoio. Certo, si muore sempre da soli, ma solitamente siamo accompagnati nella nostra sofferenza e fino al trapasso da familiari e amici, e i nostri cari, disposti intorno al letto di morte, possono piangerci, accompagnando il pianto con ricordi di episodi della vita del caro defunto e così potere elaborare il lutto per la grave perdita. In questi terribili giorni è scomparsa una generazione, che testimoniava la memoria del nazi-fascismo e della Resistenza, sopravvissuta alla seconda guerra mondiale, persone che avevano partecipato alla ricostruzione postbellica, al progressivo benessere dei primi anni 60’, dall’acquisto della macchina al frigorifero, un generazione di nonni, che è stata fino a ieri il sostituto del welfare per i propri figli e nipoti disoccupati. È scomparso con loro un patrimonio di esperienza e di amore da trasmettere ancora ai nipoti, eppure sono morti soli, senza un’ultima parola, una lacrima e un’ultima carezza.
Mi manca tanto la fisicità pronunciata dell’abbraccio dei miei figli, la cui affettività viene spesso lodata dai miei amici. Mi mancano l’abbraccio e i baci dei miei nipoti, che non solo non posso abbracciare ma neanche vedere se non tramite le video-chiamate con watts-app, mi manca la socialità e la convivialità con gli amici. Penso anche alla solitudine delle tante persone che sono impaurite, smarrite, confuse e disorientate. Penso a quelle immagini di un uomo solo, papa Francesco, di fronte al portone di San Pietro, davanti a una enorme piazza spettrale, deserta, dove aleggiano le sue parole di speranza e di solidarietà e la sua vicinanza alle famiglie colpite dal dolore.
Ora, io non ho la certezza sul perché si è manifestato questo mostro invisibile e se c’è o no una nostra responsabilità nell’avere distrutto l’equilibrio ecologico uomo-ambiente o nell’averlo fabbricato nei laboratori. Sono convinto, tuttavia, che le deforestazioni, la devastazione di tanti ambienti naturali, la violenza di ogni tipo sulla natura, l’inquinamento delle città, il cambiamento climatico e i processi diffusi di desertificazione hanno qualcosa a che fare con il coronavirus. Sono preoccupato che, come conseguenza di ciò, dovremo, in futuro, sempre più spesso, convivere con queste terribili esperienze virali. Non so neanche quando il coranovirus cesserà di flagellarci, non lo sanno neanche gli esperti.
So di certo che non dobbiamo illuderci che, anche se potremo lasciare la casa, potremo subito tornare ad abbracciare le persone che vogliamo bene o a dare una forte stretta di mano. Dovremo ancora aspettare molto e continuare ancora a usare ogni precauzione, a portare la mascherina e i guanti, che il governo non ci ha mai dato, e mantenere le distanze finché non sarà trovata una cura o il vaccino.
Io so anche che il mondo in cui viviamo non è a misura d’uomo, è impregnato di egoismo, di solitudine, di conflitti, di violenze di ogni genere, dove esistono vergognose disuguaglianze e dove è un tabù parlare di patrimoniale o fare pagare di più ai ricchi come prescrive l’art. 53 della nostra Costituzione. È un mondo dove manca la solidarietà all’interno dello stesso Paese, dove la riforma costituzionale del 2001 ha creato le premesse di una balcanizzazione dell’Italia, di cui già si vedono i prodromi attraverso il disordine nella circostanza del coronavirus, in cui ogni regione prende autonomamente le sue decisioni. Sono stato il primo, diversi anni fa che ha scritto più volte che le regioni vanno abolite, perché sono solo uno strumento di potere e di spreco di denaro pubblico. Dopo qualche tempo, mi sono compiaciuto nel vedere che la mia idea era stata avanzata anche dal giornalista Curzio Maltese, che ho sempre stimato, sul Venerdì di Repubblica.
Ho la speranza che la tragica esperienza che stiamo vivendo, che il ricordo e il rispetto delle tante persone che sono morte impegni tutti cittadini del mondo a mobilitarsi per una riconversione dell’economia neoliberista, per un nuovo modello di produzione che metta al centro le persone e l’ambiente, perché insieme possiamo guarire la terra, costruire un mondo più giusto e uguale, dove nessuno resti indietro e dove ciascuno abbia garantiti i diritti umani fondamentali, dall’abitare al mangiare, all’accesso allo studio e alla cultura, alla salute. Ma so anche che per questo occorrerebbe un umanesimo militante, fondato non già sul possesso di certezze e di verità, che creano muri, ma sul dubbio e sulla consapevolezza da parte di ciascuno dei propri limiti, dei propri condizionamenti pulsionali interni ed esterni, ma soprattutto della temporalità che scorre e scandisce la nostra vita, che tutto è minacciato dal decorso del tempo, che ci fa costatare la provvisorietà e la futilità di ogni cosa e ci avvicina sempre più a quel traguardo che è la morte.
Dialoghi Mediterranei, n. 43, maggio 2020
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Piero Di Giorgi, già docente presso la Facoltà di Psicologia di Roma “La Sapienza” e di Palermo, psicologo e avvocato, già redattore del Manifesto, fondatore dell’Agenzia di stampa Adista, ha diretto diverse riviste e scritto molti saggi. Tra i più recenti: Persona, globalizzazione e democrazia partecipativa (F. Angeli, Milano 2004); Dalle oligarchie alla democrazia partecipata (Sellerio, Palermo 2009); Il ’68 dei cristiani: Il Vaticano II e le due Chiese (Luiss University, Roma 2008), Il codice del cosmo e la sfinge della mente (2014); Siamo tutti politici (2018).
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