di Nicola Martellozzo
Premessa
Tradurre il principio di solidarietà verso i migranti in pratiche concrete è un processo sempre più spinoso per i tanti attori sociali (statali, non governativi o associativi) che si occupano di accoglienza. Non solo per i pericoli insiti nelle azioni di salvataggio in mare o attraverso frontiere militarizzate, e nemmeno per le difficoltà causate dallo shock culturale e comunicativo al momento dell’incontro e dell’accoglimento. L’espressione della solidarietà si trova vincolata da un assemblaggio di istituzioni, leggi, retoriche e percezioni culturali che determinano – e vengono a loro volta influenzate – da precise politiche volte a “gestire” i flussi migratori.
In questo breve contributo mi propongo di considerare due aspetti di questa governance delle migrazioni nel contesto Mediterraneo e specificamente italiano: quella che, a buon diritto, possiamo chiamare ‘contabilità’ migratoria, e il più conosciuto tema della ‘governabilità’. Queste riflessioni vanno prese come un punto di partenza, l’inizio di un percorso attraverso la vasta e ricca letteratura da parte di una persona che, come antropologo, si è occupato solo superficialmente di fenomeni migratori. Al di là d’una breve ricerca con la comunità sudanese di Bologna, le mie competenze derivano soprattutto dagli incontri avuti con studiosi di valore, sia durante la mia formazione universitaria che negli anni del dottorato. Penso sia ad antropologi di lunga esperienza come Bruno Riccio, Barbara Sorgoni o Andrea Ravenda, ma anche a colleghi come Jasmine Iozzelli, che ha recentemente pubblicato sulle pagine di Dialoghi Mediterranei un’esauriente retrospettiva sulle pratiche umanitarie nel Mediterraneo e il ruolo delle ONG (Iozzelli 2023).
Nel corso degli ultimi anni, i flussi migratori nel Mediterraneo, sia attraverso il mare che attorno ad esso, hanno perso quella regolarità che ancora li caratterizzava negli anni Novanta e nei primi anni Duemila (Ciabarri 2013; De Genova 2017). Da una parte questa nuova condizione dipende dalla politica di esternalizzazione dei confini condotta dagli Stati europei, con la creazione di nuove “frontiere” de facto sulle coste del Nord Africa e in Turchia; dall’altro, la moltiplicazione di nuove rotte migratorie è conseguenza dell’aumento di migranti economici, richiedenti asilo e, al netto delle distinzioni, di migranti tout court. Tragedie come il naufragio di Cutro stanno, purtroppo, perdendo la loro eccezionalità nonostante non godano della stessa visibilità. Le reazioni pubbliche al naufragio sulla costa calabra ricordano le manifestazioni di cordoglio all’indomani della tragedia di Lampedusa (3 ottobre 2013) e quella nel Canale di Sicilia (18 aprile 2015); ma se quelle due occasioni furono decisive per ridefinire il Mediterraneo come spazio apolitico e teatro di tragedie (Iozzelli 2023), portando come reazione all’avvio dell’operazione Mare Nostrum e il potenziamento di Triton e Poseidon, il naufragio del 2023 ha avuto ben altri esiti. In Italia, in particolare, ha innescato una critica all’operato di Frontex, una maggiore criminalizzazione dei migranti e la dichiarazione dello stato d’emergenza nazionale. Più che un segno dei tempi, l’indice di una politica migratoria che sta lentamente riarticolando i campi d’applicazione della solidarietà e, sotto certi punti di vista, introducendo dei distinguo morali.
Contabilità
A distanza di pochi giorni, le principali testate giornalistiche e le dichiarazioni ufficiali del Governo (attraverso Ministeri diversi) hanno comunicato due dati: nei primi mesi del nuovo anno sono sbarcati in Italia circa 32.769 persone [1], tre volte il numero raggiunto nei due anni precedenti; inoltre, per la prima volta dall’Unità, il nostro Paese è rimasto sotto la soglia dei 400mila nuovi nati, con un calo demografico del 2,9%. Tutt’altro che una coincidenza che queste informazioni siano comparse insieme; ormai da anni, nel dibattito pubblico nazionale, tiene banco l’annosa questione dell’inverno demografico e delle riforme al sistema pensionistico, un argomento che Oltralpe è diventato letteralmente materia di scontro. D’altro canto, negli scenari dell’ISTAT non troviamo solo la diminuzione delle donne in età fertile e l’aumento degli over 65, ma anche la conferma di un trend migratorio per i prossimi decenni. Proprio la diminuzione della popolazione lavoratrice, unita a buoni livelli di benessere, costituisce un fattore d’attrazione per i cittadini di nazioni in cui ci sono poche (e poco pagate) opportunità di lavoro e una diffusa sofferenza sociale. La combinazione di questi aspetti fa sì che l’Italia rimanga uno dei Paesi europei con i più alti flussi d’immigrazione, la quale sopravanza di molto il numero di italiani emigrati all’esterno.
Tracciare un grafico degli arrivi in Italia non è affatto facile, neppure per gli istituti di statistica. Una difficoltà dovuta alla parzialità dei controlli, alle presenze irregolari non tracciate e alla burocrazia, quello che Anna Tuckett chiama “regime documentario”, caratterizzato da «long waiting times, mix-ups of information, the issuing of expired permits, endless queues, chasing up ‘blocked’ applications and documents being lost» (Tuckett 2015: 113). A ciò si aggiunge l’ambiguità delle categorie giuridiche e politiche usate per definire i migranti; esse «non descriv[ono] la realtà ma la trasfigura[no] prima di ogni discussione sul tipo di politiche da adottare» (Ciabarri 2013: 65). Non entreremo nel merito della questione e delle numerose distinzioni introdotte e usate dai governi europei. Basti dire che esse sono il frutto di certe “direzioni culturali di pensiero”:
«un insieme di categorie, in altri termini, come quelle di irregolare, donna da emancipare, lavoratore extracomunitario, e di immaginari legati alla clandestinità, a modelli di mascolinità e femminilità, alla religione hanno sostituito la realtà vissuta da individui e gruppi in fuga o provenienti da un altrove geografico creando un linguaggio razzista e respingente per parlare di immigrazione e stranieri» (Pinelli 2013: 8).
Consideriamo piuttosto il grafico creato dall’ISPI usando i dati del Ministero dell’Interno: vediamo come i flussi comincino a crescere dal 2011, diminuendo temporaneamente nel 2013 prima di risalire e sfiorare le 200 mila presenze nel 2017. L’intesa tra Italia e Libia – o meglio, tra il governo italiano e il governo di accordo nazionale guidato da Fayez al-Sarraj – portò ad un drastico calo degli sbarchi che toccò il minimo durante il secondo governo Conte. Certo, il prezzo da pagare sono stati i campi di detenzione libici, dove i migranti vengono trattenuti per periodi indefiniti e subiscono continue violenze. Nonostante le numerose critiche ricevute da organismi internazionali e di tutela umana, il memorandum del 2017 è stato rinnovato automaticamente nel 2020 e di nuovo nel 2023.
Questo tipo di accordi non ha lo scopo di eliminare completamente l’immigrazione, bensì di contenerla entro una certa quota auspicata. Sono diverse legislature che, difatti, vengono emanati i cosiddetti “decreti flussi”, provvedimenti che definiscono il numero di migranti che l’Italia può accogliere come forza lavoro nel proprio territorio. Vediamo dunque come la contabilità migratoria non riguardi solo i flussi in entrata e in uscita, ma anche una doppia registrazione degli immigrati: come stranieri lavoratori regolari, e come “eccessi” irregolari. Prendendo a prestito un concetto della ragioneria, la contabilità migratoria è a partita doppia; questo metodo di scrittura contabile nasce con lo scopo di registrare i movimenti monetari-finanziari e determinare, al contempo, il reddito di un periodo amministrativo. Nel nostro caso, le stesse persone vengono registrate due volte, sia come parte di un flusso migratorio, sia ripartendoli secondo le esigenze del settore lavorativo nazionale (Schuster 2005: 761).
Il decreto flussi in vigore dal 27 marzo 2023 prevede una quota di 82.705 migranti come manodopera, di cui circa la metà assunta come lavoratori stagionali. Erano 30.850 negli anni precedenti al 2021, addirittura la metà nel 2017, ma la quota è stata progressivamente aumentata per integrare lavoratori subordinati non stagionali «da destinare alle esigenze dei settori dell’autotrasporto merci per conto terzi, dell’edilizia e turistico-alberghiero» [2]. L’incremento di quest’anno non rappresenta neppure un record, dato che il decreto flussi del 2007 fissava a 250 mila migranti il numero di lavoratori subordinati e stagionali.
Con il nuovo provvedimento è stato introdotto anche un meccanismo burocratico che coinvolge datori di lavoro, sportelli unici per l’immigrazione, prefetture e ambasciate per fare in modo che il migrante (inteso come potenziale lavoratore) riceva un visto d’accesso. Tutto ciò mentre si trova ancora nel suo Paese d’origine. Si tratta di un sistema che non fa i conti con la realtà dato che, in sostanza, un datore di lavoro italiano dovrebbe voler assumere e procurare un visto per una persona che si trova all’estero, ancor prima di conoscerlo. Come sottolinea Tuckett:
«the decreto flussi was typically used by ‘illegal’ migrants who were already on Italian territory. As one staff member commented, “who would hire somebody they did not know from abroad?” If the application was successful, the migrant returned home and then re-entered Italy (this time legally) with a visa. […] The law informally acted as a second amnesty for migrants on Italian territory without permits» (Tuckett 2015: 128).
Molto più semplicemente, tutta questa procedura inizia quanto il migrante è già arrivato in Italia, e deve “solamente” tornare nel proprio Paese di provenienza per ritirare il visto che gli consentirà di rientrare regolarmente nella zona UE. Va detto che la quota di migranti fissata dal decreto 2023 non può provenire da qualunque Paese, ma solo da un elenco di trentatré specifici Stati. Di nuovo, questa distinzione non sembra fatta per dialogare con le circostanze attuali: non solo restano fuori dalla lista le persone provenienti da Guinea, Siria e Burkina Faso, un quinto sul totale degli arrivi del 2023, ma metà degli Stati elencati dal Decreto (14 su 33) non hanno alcun cittadino giunto attraverso le rotte mediterranee.
Una simile ripartizione mostra come la contabilità migratoria messa in atto dall’Italia agisca anche sul piano morale: i cosiddetti “migranti economici” sono stati per anni oggetto di dure critiche da parte di diverse forze politiche, considerati come non meritevoli di accoglienza a confronto dei “veri” richiedenti asilo, cioè coloro che lasciano il proprio Paese in seguito a catastrofi umanitarie, guerre, persecuzioni, ecc. L’aspirazione ad un lavoro migliore non è ritenuta una giustificazione altrettanto valida, e pertanto questi migranti economici sono stati declassati e considerati elementi residuali. Salvo, ovviamente, quelli che invece vengono regolarizzati attraverso i decreti flussi, e che nelle narrazioni di quelle stesse forze politiche diventano all’improvviso presenze importanti e virtuose (Tuckett 2015: 118). Di fatto, alle stesse persone viene applicato un doppio standard morale, che differenzia le pratiche di solidarietà e accoglienza sulla base di un principio d’utilità.
Governabilità
All’indomani del naufragio di Cutro, molti esponenti del mondo politico e sociale italiano hanno chiesto maggiore impegno nel “governare le migrazioni”. Una formula particolare, che implica qualcosa in più rispetto alla sola applicazione di potere sui migranti: dall’apertura dei corridoi umanitari, sostenuta dall’ex ministra Lamorgese, all’applicazione di norme per il respingimento sistematico promossa dal ministro Piantedosi. Al netto di questa diversità, buona parte dello spettro di misure di governo risente del paradigma emergenziale dell’immigrazione, come nota Campesi:
«Dopo una breve stagione, più o meno coincidente con i due gravi naufragi dell’ottobre 2013 e dell’aprile 2015, in cui la retorica politica sembrava prediligere il linguaggio delle emergenze umanitarie, focalizzandosi sulla questione della sicurezza dei migranti, il paradigma delle emergenze e della sicurezza «nazionale» [...] e poi in maniera deflagrante nella retorica politica di figure come Viktor Orbán, Donald Trump e Matteo Salvini» (Campesi 2019: 433).
L’attuale governo ha chiaramente adottato il secondo senso del paradigma emergenziale. Lo dimostra la proposta di regolarizzare i canali d’ingresso della migrazione rivolgendosi ai Paesi di provenienza, per bloccare i flussi in partenza. Ma è davvero possibile stilare degli accordi bilaterali con Paesi la cui sovranità è vacillante, o che sono governati da regimi in cui le violazioni dei diritti umani sono all’ordine del giorno? Si pensi alla Libia, ancora lontana dal trovare una stabilità politica interna. O all’Afghanistan, dove la firma di un accordo equivarrebbe a riconoscere e rafforzare la legittimità del governo talebano. Oppure a quegli Stati dell’Africa occidentale da dove proviene una quota considerevole dei migranti delle rotte mediterranee, almeno in questi primi mesi del 2023, e che non sono nemmeno elencati all’interno del decreto flussi. Invocare accordi sostanzialmente impraticabili non è poi molto diverso dall’adottare un approccio unilaterale sul piano delle relazioni internazionali (Campesi 2019: 434), corroborata dalla retorica di un’Unione Europea distante e disinteressata.
Certo è che la retorica dell’emergenza è particolarmente pervasiva, sia nei suoi usi istituzionali che sul piano della critica sociale. Dal punto di vista pubblico, nelle dichiarazioni politiche e nell’uso giornalistico, gli sbarchi sono presentati come l’indice di una protratta emergenza migratoria. Già solamente riferirsi a questo fenomeno come “protratto” – dato che risale almeno al 2011 – dovrebbe far capire che non si possa parlare propriamente di un’emergenza. Perfino nel caso di forti variazioni di flussi, come l’aumento del 300% degli sbarchi nei primi mesi del 2023 a confronto con gli anni precedenti, non legittima affatto l’uso di questa terminologia. L’aumento certamente esiste, ma si tratta di un’intensificazione provvisoria di un fenomeno più che decennale; non si può estrapolare da questi dati una tendenza futura, come se l’aumento del traffico migratorio tra gennaio e aprile 2023 anticipasse un progressivo e costante incremento; immaginare che nei prossimi mesi e anni milioni di persone attraversino il Mediterraneo a bordo di centinaia di migliaia di imbarcazioni è un esercizio che possiamo ben lasciare ai teorici della sostituzione etnica, ma non è certo uno scenario realistico nemmeno considerando i “rifugiati ambientali” di un futuro prossimo (Dallavalle 2016).
Tuttavia, il governo Meloni ha voluto comunque giocare d’anticipo, dichiarando uno stato d’emergenza su tutto il territorio nazionale per la durata di sei mesi. Secondo l’articolo 24 del Codice della Protezione civile è possibile deliberare in caso di «emergenze di rilievo nazionale connesse con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività dell’uomo che in ragione della loro intensità o estensione debbono, con immediatezza d’intervento, essere fronteggiate con mezzi e poteri straordinari da impiegare durante limitati e predefiniti periodi di tempo» [3]. L’unica precedente delibera motivata dai flussi migratori risale al governo Berlusconi IV; nel DPCM del 7 aprile 2011, lo stato d’emergenza era motivato dai disordini sociali «sul territorio del Nord Africa, per consentire un efficace contrasto all’eccezionale afflusso di cittadini extracomunitari nel territorio nazionale». Di fatto, rappresentò un’occasione per svuotare Lampedusa e smantellare i centri di accoglienza (Ravenda 2011). Non si può dire che tale politica abbia funzionato, se oggi la piccola isola continua ad essere affollata dai naufraghi e dai migranti sbarcati, ripartiti in Italia nei vari Centri per l’immigrazione (CPR, CPSA, CDA, CARA).
Dodici anni dopo, ricorrere ad un nuovo stato d’emergenza – in condizioni che, tra l’altro, sono ben lontane dai picchi del 2017 – costituisce una pratica straordinaria per presenze ordinarie, parafrasando il titolo di un famoso saggio di Sorgoni (2011). Con “ordinario” non intendo dire che la presenza dei migranti sia in qualche modo “scontata” o priva di valore, bensì che il fenomeno migratorio e in particolare le rotte mediterranee sono e rimarranno fenomeni strutturali per l’Italia. Nonostante quella famosa “doppia assenza” rilevata da Sayad (2002), i migranti non sono affatto corpi assenti o manifestazioni di “nuda vita”, nel senso di Agamben (2005). Mi trovo d’accordo con Fabio Dei quando sottolinea come «non c’è mai una vita umana completamente definita dal diritto o dalle categorie politiche, così come ovviamente non c’è mai una vita nuda, puramente biologica e del tutto privata di quelle categorie» (Dei 2013: 63); tanto la figura del cittadino residente quanto quella del migrante si trovano in una zona intermedia, non completamente circoscritta – né circoscrivibile, se non idealmente – dalle categorie politiche e giuridiche dello Stato. La condizione sospesa del migrante, tuttavia, lo espone in modo particolare a molteplici forme di discriminazione, contabilità e, in definitiva, di governabilità messe in atto dalle istituzioni statali. Proprio perché sembrano sfuggire alle categorie politiche dello Stato contemporaneo, i migranti vengono investiti da espressioni del potere ad alta intensità.
«La privazione dei diritti di cittadinanza, nonché l’attribuzione del reato di clandestinità, rende i migranti oggetto di politiche di contenimento da parte dei governi europei: da qui la loro provvisoria chiusura in spazi di tipo più o meno carcerario, talvolta l’espulsione forzata, le pratiche di controllo da parte degli apparati coercitivi dello Stato. Non c’è dubbio che queste misure, insieme ad altri fattori di tipo culturale e ideologico, contribuiscono a creare per i migranti uno statuto di non-persone, o di non piena-umanità nella percezione dell’opinione pubblica» (Dei 2013: 59).
È ormai abbastanza comune leggere questo fenomeno attraverso la lente della biopolitica foucaultiana o della filosofia di Agamben. Anche la retorica dell’emergenza si ripresenta spesso sul piano della critica sociale – o meglio, dell’analisi sociologica e antropologica del fenomeno migratorio con un particolare ethos critico nei confronti delle autorità statali. La critica alle strumentalizzazioni politiche degli stati emergenziali ricorre spesso alla nozione di “stato d’eccezione permanente” di Benjamin. Con tale concetto, il filosofo tedesco indicava la graduale normalizzazione delle situazioni di straordinarietà, ovvero quel processo per cui lo Stato moderno tende a infrangere e sospendere l’ordine normativo attraverso “stati d’eccezione” sempre più lunghi e frequenti. Va da sé che lo stato d’emergenza dichiarato poche settimane fa non rientra in questo caso, dato che rimane rigidamente vincolato alle disposizioni normative. Tuttavia, esso contribuisce a sostenere una certa forma di governo delle migrazioni, giustificandola sul piano pubblico e rinforzando una precisa “direzione culturale di pensiero”.
Ritroviamo tutto ciò nell’emendamento presentato dalla Lega Nord al “decreto Cutro”, con il quale si propone un annullamento de facto del permesso di soggiorno per protezione speciale. Si tratta di un provvedimento che permette ai migranti di ottenere un permesso di soggiorno temporaneo, della durata di due anni, nell’attesa che venga riconosciuto loro la protezione internazionale. Una specifica espressione di solidarietà che però, secondo il principale partito della maggioranza, genera una “salvaguardia indiscriminata” dei migranti. È abbastanza trasparente quale sia la logica che informa l’attuale governance delle migrazioni; possiamo ritrovarla in nuce nel dibattito sui centri d’accoglienza al tempo della “prima” emergenza migranti:
«Si tratta di una contraddittoria mescolanza tra una logica di aggressivo respingimento e una di accoglienza umanitaria. I rappresentanti governativi hanno a suo tempo definito i CPT come hotel a 5 stelle, i movimenti antirazzisti come lager. Il secondo accostamento è certo più realistico, ma anch’esso inaccurato. Non basta l’essenza concettuale comune di “spazio di esclusione” per identificare CPT e lager o gulag. Lo sfondo giuridico e politico è diversissimo, e così lo sono le pratiche e le figure della soggettività che vi si manifestano» (Dei 2013: 64).
Ciò vale per tutte quelle strutture che, con nomi diversi, hanno costituito nel corso degli anni spazi designati dallo Stato italiano per (r)accogliere i migranti, anche per breve tempo o in vista di un’espulsione. Si tratta comunque di luoghi che giocano un ruolo cruciale nel governo dei flussi migratori, al tempo stesso interfacce (tra Stato e Altri) e crivelli (per la contabilità migratoria). I migranti passano attraverso le maglie di questi setacci burocratici, che talvolta sono luoghi di prevaricazioni e soprusi, ma certamente non paragonabili a dei campi di concentramento.
Al contrario, le misure detentive estreme e la violenza sistematica rendono i campi libici dei luoghi dove la vita dei migranti è decisamente più “nuda”, pericolosamente indefinita sotto il profilo del diritto. Si possono, e si devono, accusare le fazioni belligeranti e la debolezza del governo libico per la conduzione spregiudicata di questi campi, ma la loro esistenza è possibile anche grazie alla firma del memorandum d’intesa con il nostro Stato. Così come l’esternalizzazione dei confini, o il sovvenzionamento della Guardia costiera libica, anche il mantenimento dei campi detentivi sulle coste nordafricane è una parte strutturale delle politiche di governo delle migrazioni. Una modalità lontana e indiretta, ma che ciononostante ci riguarda e di cui condividiamo la responsabilità.
Dialoghi Mediterranei, n. 61, maggio 2023
Note
[1] Dato aggiornato al 14/04/23. Fonte: https://www.interno.gov.it/it/stampa-e-comunicazione/dati-e-statistiche/sbarchi-e-accoglienza-dei-migranti-tutti-i-dati
[2] DPCM del 7 luglio 2020.
[3]https://www.protezionecivile.gov.it/it/normativa/decreto-legislativo-n1-del-2-gennaio-2018-codice-della-protezione-civile
Riferimenti bibliografici
Agamben, Giorgio, 2005, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino: Einaudi.
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Ciabarri, Luca, 2013, “Oltre la frontiera Europa: ascesa e declino della rotta migratoria Libia-Lampedusa e forme di mobilità dal Corno d’Africa (2000-2009)”, in Antropologia 15: 63-83.
Dallavalle, Chiara, 2016, “I rifugiati ambientali. Su un nuovo rapporto tra uomo e ambiente”, Dialoghi Mediterranei 19, maggio 2016. https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/i-rifugiati-ambientali-su-un-nuovo-rapporto-tra-uomo-e-ambiente/
Dei, Fabio, 2013, “Spettri del biopotere”, in Bachis F., Pusceddu A.M. (a cura di), Storie di questo mondo. Percorsi di etnografia delle migrazioni, Roma: CISU: 45-63.
De Genova, Nicholas (ed.), 2017, The Borders of “Europe”: Autonomy of Migration, Tactics of Bordering, Durham: Duke University Press.
Di Meo, Silvia, 2022, “L’abito della detenzione: il sistema di criminalizzazione e di reclusione dei migranti tunisini alla frontiera del Mediterraneo”, in Dialoghi Mediterranei 56, luglio 2022, http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/labito-della-detenzione-il-sistema-di-criminalizzazione-e-di-reclusione-dei-migranti-tunisini-alla-frontiera-del-mediterraneo/
Iozzelli, Jasmine, 2023, “Pratiche umanitarie e solidarietà nel Mediterraneo centrale. SAR tra salvataggi e resistenza”, in Dialoghi Mediterranei 60, marzo 2023, http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/pratiche-umanitarie-e-solidarieta-nel-mediterraneo-centrale-sar-tra-salvataggi-e-resistenza/
Pinelli, Barbara, 2013, Migrare verso l’Italia. Violenza, discorsi, soggettività, in “Antropologia” 15: 7-20.
Ravenda, Andrea, 2011, Alì fuori dalla legge. Migrazione, biopolitica e stato di eccezione in Italia, Verona: Ombre corte.
Sayad, Abdelmalek, 2002, La doppia assenza, Milano: Raffaello Cortina Editore.
Schuster, Liza, 2005, “The Continuing Mobility of Migrants in Italy: Shifting between Places and Statuses”, Journal of Ethnic and Migration Studies 31, 4: 757–774.
Sorgoni, Barbara, 2011, “Pratiche ordinarie per presenze straordinarie. Accoglienza, controllo e soggettività nei centri per richiedenti asilo in Europa”, in Lares 77 (1): 15-34.
Tuckett, Anna, 2015, “Strategies of navigation: migrants’ everyday encounters with Italian immigration bureaucracy”, The Cambridge Journal of Anthropology 33 (1): 113-128.
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Nicola Martellozzo, dottorando presso la Scuola di Scienze Umane e Sociali (Università di Torino), negli ultimi due anni ha partecipato come relatore ai principali convegni nazionali di settore (SIAM 2018; SIAC 2018, 2019; SIAA-ANPIA 2018). Con l’associazione Officina Mentis conduce un ciclo di seminari su Ernesto de Martino in collaborazione con l’Università di Bologna. Ha condotto periodi di ricerca etnografica nel Sud e Centro Italia, e continua tuttora una ricerca pluriennale sulle “Corse a vuoto” di Ronciglione (VT). Ha pubblicato recentemente la monografia Traduzioni del potere, Quaderni di “Dialoghi Mediterranei” n. 2, Cisu editore (2022).
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