di Antonino Pellitteri
Arrivo al Cairo, aeroporto internazionale e come sempre dal 2006 Muhammad viene a prendermi. È la metà di aprile di quest’anno, fuori dall’aeroporto la temperatura è già altissima, 37 ° C, ma per fortuna il clima è secco. È passato esattamente un anno dall’ultima volta in Egitto, e mi è subito chiaro che la condizione socio-economica della gente del Cairo è peggiorata. Muhammad, impiegato in una compagnia turistica, non lavora dal 2011. C’era stata qualche ripresa, ma gli attentati prima di Pasqua contro le chiese cristiano-copte della capitale egiziana (umm al-dunya / la madre di questo mondo), hanno interrotto la breve ripresa. La sera, a casa nel commerciale e popolare quartiere di Tawfiqiyya, non molto lontano da piazza Tahrir, Muhammad mi porta l’equivalente egiziano di 100 euro. Conto le 2.500 ghinee e mi sento ricchissimo, un vero bashà, come gli egiziani si chiamano tra loro (retaggio dell’amministrazione ottomana). È lo stipendio di un docente di scuola media. La ghinea egiziana è calata a picco, come è avvenuto in Siria per la lira e come è avvenuto in Libia e Tunisia per i rispettivi dinari.
Non c’è che dire: la cosiddetta primavera araba ha fatto miracoli, e i poveri egiziani ringraziano. Il crollo della ghinea in un anno ha naturalmente aumentato il costo della vita, accresciuto la povertà di un Paese, dove circa il 50% della popolazione vive da decenni in povertà e in miseria soprattutto al Cairo, che conta più di 25 milioni di abitanti, mentre gli stipendi sono bloccati e la disoccupazione giovanile galoppante.
I giovani egiziani hanno oggi, dopo avere organizzato la battaglia di midan Tahrir nel gennaio del 2011, una sola scelta: avere un passaporto e procurarsi un visto di un qualsiasi Paese europeo. Se ciò non è possibile, l’altra scelta è l’emigrazione illegale, che da qualche anno interessa anche la Valle del Nilo. Così delusi ed arrabbiati, i giovani accusano gli americani di avere lavorato a favore della cosiddetta rivoluzione, di averli spinti a scendere in piazza, e poi di avere abbandonato il Paese a se stesso e al terrorismo jihadista. Di avere fatto cioè i loro interessi di potenza, assieme alla Francia e agli altri paesi dell’UE. Ormai infatti non si parla più di “rivoluzione” ma i più parlano di mu’amara ovvero complotto internazionale: Egitto, Libia, Siria.
A differenza della Libia, l’Egitto (Misr in arabo) ha un’antica tradizione statuale e una importante cultura politica, Istituzioni e l’esercito più potente del mondo arabo. Tutto ciò ha evitato alla società egiziana la deriva della divisione, della guerra e la diffusione del pensiero takfiri, come è avvenuto invece in Libia. Anche se l’Egitto è la patria del forte movimento della Fratellanza Musulmana (ikhwàn), sostenuto dagli americani, dalla Turchia e dal Qatar all’indomani della rivoluzione del 2011.
Le condizioni sociali ed economiche della maggioranza degli egiziani e dei ceti medi sono assai difficili, ancora di più di quanto non lo fossero prima che arrivasse la primavera. Lo Stato, che non può gravare sulle famiglie egiziane, è senza una ghinea. I pochi soldi che arrivano dall’Arabia saudiana, servono a finanziare l’esercito e le forze di sicurezza, impegnate nel Sinai in una dura battaglia contro i gruppi jihadisti e da’esh. Ciò si riflette non solo sul tenore di vita, sui tagli al sistema sociale, sulla mancanza di servizi, ma anche, e visibilmente sull’educazione e la cultura. Basti entrare in una libreria al centro del Cairo per rendersene conto. Nonostante ciò la popolazione egiziana vuole vivere e con dignità: lo slogan al-sha’b yuridu isqàt al-nizam (“il popolo vuole la caduta del regime”) è stato rimpiazzato con al-sha’b yuridu ya’ishu (“il popolo vuole vivere”). Stessa cosa è accaduta in Libia e Tunisia, e Nasser aleggia con le sue fotografie più di quanto non appaia in superficie.
Non è ritorno indietro, è trovare una soluzione che, fondando sui valori e gli ideali del ra’is che fece grande l’Egitto, liberi la società egiziana odierna dalla delusione e dalla umiliazione. Sarà difficile, considerato il travagliato contesto regionale ed internazionale. Al-Sisi, capo dell’esercito e presidente eletto a grande maggioranza, tenta il possibile. Va tenuta buona l’Arabia saudiana, che elargisce petrodollari che servono alle casse dello Stato, va tenuta buona l’amministrazione americana, con Israele nessuna rottura.
La politica vera prende però altre strade; si guarda a Mosca e, nonostante la “alleanza” con Riyad, a cui al-Sisi ha venduto le due isolette di Tiran e Sanafir all’ingresso del golfo di ’Aqaba, l’Egitto di al-Sisi è schierato dalla parte dello Stato e del Governo siriani, cioè con i nemici di Riyad. Manda aiuti militari all’esercito siriano e si dichiara favorevole alla permanenza al potere del presidente Bashar al-Asad, il quale come è noto è appoggiato dall’Iran e dal libanese Hizbollah, altri nemici della famiglia regnante saudiana. Contraddizioni, politica altalenante? No, è l’Egitto.
Quest’ultimo mio soggiorno al Cairo è stato dettato dalle mie ricerche scientifiche in corso: Cairo e Palermo e le compenetrazioni in epoca fatimide (sec. X-XI). Da un lato le fonti arabe con- temporanee e posteriori al periodo che qui interessa, e da questo punto di vista al Cairo è possibile trovare ciò che serve. Dall’altro, il soggiorno al Cairo mi ha permesso l’analisi, quanto più possibile esaustiva, topografica ed ambientale della Cairo fatimide a partire dall’arrivo nella nuova capitale nel 969 del califfo imam shi’ita fatimide al-Mu’izz li-Din Allah. La città vittoriosa (madinat al-Qahira) era stata fondata qualche anno prima da Jawhar detto il siciliano o saqlabi (schiavo affrancato) o rumi (di fede greco-ortodossa), convertitosi all’Islam, quindi affrancato, e divenuto il comandante in capo dell’esercito fatimide.
Quest’ultimo era assai variegato nella sua composizione e il nerbo dei fedelissimi, anche durante la conquista dell’Egitto prima e della Siria poi, era composto dai berberi Kutama. La tribù dei Kutama era anche in Sicilia tra i principali sostenitori dei governatori fatimidi. Jawhar non solo fondò al Cairo il suo comando sui Kutama e i Maghribini più in generale, ma era molto vicino alla famiglia di origini yemenite dei Bani Abi’l-Husayn o Kalbiti, anche essi shi’iti e legati ai califfi fatimidi. Ad essi i califfi imam, prima in Ifriqiyya, poi in Egitto, avevano delegato, come è noto, il governo della isola più grande del Mediterraneo e della più importante in mano musulmana, essendo terra di frontiera e di gihad.
Con l’arrivo di al-Mu’izz al Cairo, arrivarono in Egitto anche esponenti della famiglia siciliana. Questi giocano un ruolo di primo piano al Cairo in qualità di rappresentanti, presso il califfo imam fatimide, della numerosa e variegata comunità maghribina presente nella città vittoriosa. Di tale presenza rimangono ancora abbondanti tracce nella città antica del Cairo, nella toponomastica e nella stessa onomastica, nonché in certi modi di dire dialettali egiziani. Della presenza dei Kalbiti siciliani si parla molto nelle fonti arabo-egiziane antiche, dato questo importante a cui purtroppo Amari, nella sua Storia dei Musulmani di Sicilia, prestò scarsa attenzione.
Nonostante il caldo, mi sono fatto tutto il Cairo fatimide e devo essere grato alla gente povera del quartiere di al-Gamaliyya per la solidarietà e l’affetto, dimostrando la loro voglia di sapere sulla storia del loro Paese e del loro quartiere, così come la curiosità per la Palermo fatimide di cui non sapevano nulla. Non sapevano che c’era una pagina della loro storia fuori dall’Egitto al centro del Mediterraneo.
Ora la ricerca continua al fine di individuare nuovi elementi per lo studio della Sicilia musulmana e delle sue relazioni mediterranee.
Dialoghi Mediterranei, n.26, luglio 2017
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Antonino Pellitteri, ordinario di Storia dei Paesi Arabi e Islamistica presso l’Università di Palermo, si occupa pricipalmente degli sviluppi storico-culturali del Mondo arabo-islamico nel periodo moderno e contemporaneo. Ha curato la traduzione italiana di Storia della Arabia Saudita di Al-’Uthaymin (Sellerio 2001), ed è autore, tra l’altro, di Damasco dal profumo soave (Sellerio 2004) e Introduzione alla storia contemporanea del Mondo arabo (Laterza 2008). Un suo recente articolo, “Al-dawla al-fatimiyya. Politics, history and the reinterpretation of Islam” è pubblicato in The Journal of North African Studies (vol.16, n.2, June 2011). Ha poi pubblicato La formazione del pensiero nazionale arabo. Matrici storico-culturali ed elementi costitutivi (FrancoAngeli 2012), e più recentemente, per la stessa casa editrice, Sicilia e Islam. Tracciati oltre la storia (2016).
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