Non può esserci luogo più indicato di Mazara del Vallo e di una rivista come Dialoghi Mediterranei per parlare di questo bel libro: «Un arabo che ha letto Montesquieu». Leonardo Sciascia e il Mediterraneo sud-orientale (Olschki editore, 2021). Il suo titolo, come spiega uno dei curatori Giovanni Capecchi, dell’Università per stranieri di Perugia, è tratto da una significativa intervista rilasciata da Leonardo Sciascia nel 1979 su cui torneremo più avanti: «Io amo molto gli arabi, mi sento quasi arabo, ma un arabo che ha letto Montesquieu. Lo consiglierei anche a loro» [1].
L’altra curatrice del libro, Francesca Maria Corrao, dell’Università Luiss di Roma, nella sua breve ma incisiva Introduzione, ricorda che Sciascia è stato uno dei pochi intellettuali italiani ad essersi speso per promuovere il dialogo tra la Sicilia e il mondo arabo, convinto com’era che la Sicilia avesse molte più affinità con quel mondo piuttosto che con l’Europa. Per lo scrittore di Racalmuto le pagine dimenticate della presenza araba in Sicilia, che non si stancò mai di cercare e raccogliere, a partire dalla grande opera di Michele Amari, hanno sempre avuto una importanza centrale nella sua opera. Basti pensare al suo geniale Consiglio d’Egitto, alla sua riscoperta del poeta arabo-siciliano Ibn Hamdis e del geografo Idrisi, e alla stessa figura popolare di Giufà che ha condotto la studiosa ad approfondirne la conoscenza in un fortunato libro che, non a caso, ha trovato in Sciascia la sua principale fonte di ispirazione. Riconoscente la Corrao non manca di notarlo:
«Arti nel dialetto siciliano è sinonimo di mestiere manuale o, spregiativamente, di artificio, di inganno. Arte è quella del sarto, del falegname, del potatore, del contadino; di chiunque insomma sa lavorare, accorto e paziente, con le mani: arte vera, che produce, che serve; ma quella dell’avvocato, del medico è arte in quanto è arte tutto quello che dà pane: ma imparagonabile a quella concreta che si fa con le mani (guidate dalla testa, si capisce), da diffidarne anzi, […]. In quanto appartiene alla manualità, all’abilità manuale (…), arte sono la scultura e la pittura, un po’ più su di quelle dello scalpellino e dell’imbianchino; ma in senso contrario la scrittura che, partendo da quella del notaio, dell’avvocato, dell’intendersi sulle illeggibili ricette del medico e del farmacista, ha sempre a che fare con l’inganno e lo sfruttamento» [2].
Viene ricordata anche la nota manoscritta di Leonardo Sciascia del 30 dicembre 1967, alla vigilia del tremendo terremoto che colpì la valle del Belice qualche giorno dopo, in cui lo scrittore trascriveva la sua personale traduzione di alcuni versi di Antonio Machado:
Tengo dentro un erbario
Una sera disseccata
Lilla violetta dorata
Capricci di solitario [3].
D’altra parte, in quel periodo, Sciascia era molto preso, oltre che da quella araba, dalla poesia spagnola. I due curatori del libro, nel riprendere una ricerca avviata negli anni precedenti, sono riusciti a raccogliere i migliori studi esistenti finora sui rapporti tra lo scrittore siciliano e il mondo arabo.
Il primo saggio che apre il libro si deve a Salvatore Pappalardo (Towson University, USA) che, sulle orme dei primi studi della Corrao e del Capecchi, si era già occupato del tema trascurato dalla più nota critica sciasciana. Pappalardo è particolarmente colpito dal giudizio positivo espresso da Leonardo Sciascia sui tanti segni della presenza araba in Sicilia.
Il rapporto tra Sciascia e il mondo arabo, per Pappalardo, è stato talmente profondo fino ad arrivare a farne una «questione di famiglia»: lo scrittore di Racalmuto (altro nome arabo) è, infatti, convinto che persino il suo stesso cognome avesse origini arabe: «Sciascia è un cognome propriamente arabo che fino al 1860 sui registri anagrafici veniva scritto Xaxa» (Occhio di capra, 1984). Secondo Pappalardo il punto di vista sciasciano dipende in gran parte dagli studi dello storico e filologo spagnolo Américo Castro (1885-1972). Indubbiamente questo autore è stato molto caro a Leonardo Sciascia, che aveva letto fin dal 1955 la traduzione italiana del suo capolavoro La realidad historica de Espana (1954) [4]. Ma, pur riconoscendo il peso che ha avuto Castro nella formazione di Sciascia, lo scrittore di Racalmuto deve a Michele Amari e agli altri autori raccolti nei quattro volumi che fece pubblicare all’editore Sellerio con il titolo Delle cose di Sicilia (1980-1986), le sue principali fonti storiche [5].
D’altra parte è il racalmutese stesso a dirlo in un articolo del 1960, Le acque della Sicilia, raccolto in Cruciverba (Einaudi,1983) [6]. Da questo importante articolo si evince chiaramente che Sciascia ha scoperto il geografo arabo Idrisi e il poeta Jbn Hamdis grazie alla Biblioteca arabo-sicula dell’Amari[7]. Vale la pena di riprodurre il brano dell’articolo in cui si parla del geografo arabo valorizzato dal re normanno Ruggero II:
«Di Palermo, città oggi assetata, Idrisi dice: “Le acque attraversano da tutte le parti la capitale della Sicilia, dove scaturiscono anche fonti perenni […]. C’è da credere che proprio da Idrisi, geografo, sia sorta la favola delle acque siciliane, della Sicilia copiosa di acque [...]. Solo che Idrisi era, appunto, un geografo, non poteva essersi inventato fiumi, sorgenti, orti irrigui, pesca fluviale e persino il gusto dei pesci. Una certa esagerazione, una certa enfasi, va bene. Ma al re che gliel’aveva commissionata non avrebbe osato consegnare una descrizione fantastica della Sicilia. [...] Quello che è per noi favola, mito, non era dunque tale per Idrisi. [...] Gli arabi, speculativi e sagaci anche in fatto di idrica, avevano creato una Sicilia di orti e giardini […]. Per quanto possa sembrare incredibile, in fatto di ricerche idriche ben poco si è fatto in Sicilia dopo gli arabi» [8].
Va detto, inoltre, che Sciascia è stato sempre sensibilissimo al tema dell’acqua, di cui ha sofferto, come tutti i siciliani del ‘900, la carenza. Sul giornale L’Ora, infatti, il tema è stato uno dei suoi principali cavalli di battaglia; memorabile, per tutti, l’articolo intitolato Gattopardi e sciacalli del 6 febbraio 1965, dove parla della penuria d’acqua che da decenni affligge Caltanissetta mentre risulta che il problema non esistesse nei secoli precedenti [9].
Sull’ annosa questione – che, com’è noto, ha impegnato tanto il Centro Studi e Iniziative di Danilo Dolci nei suoi primi vent’anni di attività in Sicilia [10] – il Pappalardo ricorda pure un testo inedito di Sciascia che accompagnava il documentario La grande sete, girato nel 1968 da Massimo Mida con la sceneggiatura del giornalista de L’Ora Marcello Cimino. Nel documentario Sciascia afferma:
«Sembra incredibile che Palermo sia la città che gli arabi vedevano circonfusa di acque, specchiata nelle acque, viva del suono e del refrigerio delle acque. E si può dire che dopo gli arabi, nessuno si è mai provato a risolvere il problema dell’acqua in Sicilia. Vale a dire da mille anni. Tutte le acque che si conoscono, sono stati gli arabi a scoprirle e a nominarle» [11].
Si deve anche a Sciascia la riscoperta del poeta siculo-arabo Jbn Hamdis che, in una poesia del 1960, il nostro scrittore ricorda per il suo encomio della palma: «albero / foggiato dalle mani di Dio / a immagine dell’uomo: albero eccelso / che segue la marcia dell’Islam»[12]. Versi che Sciascia riprende ne Il giorno della civetta (1961) dove il poeta arabo viene sostituito da non meglio identificati scienziati che affermerebbero che «la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su verso il nord, di cinquecento metri…ogni anno».
Sciascia torna ad occuparsi del poeta Jbn Hamdis in un sorprendente articolo divulgativo apparso il 12 giugno 1960 sul settimanale per ragazzi il Pioniere, diretto da Gianni Rodari, finanziato dal PCI per contrastare Il Vittorioso cattolico e il liberaldemocratico Corriere dei Piccoli. E si deve proprio a Pappalardo la scoperta di questo significativo articolo, ignorato da tanta critica sciasciana. Nell’articolo Sciascia, oltre a parlare del poeta arabo-siculo, fa riferimento alla guerra di liberazione del popolo algerino dal colonialismo francese e polemizza aspramente con Indro Montanelli [13].
Lo studioso non manca poi di notare come l’opera più significativa del percorso arabo di Sciascia rimanga Il Consiglio d’Egitto dove, nelle pagine che descrivono le barbare torture a cui sarà sottoposto l’avvocato Di Blasi, appaiono evidenti i riferimenti alla repressione francese in Algeria. Nella parte conclusiva del suo saggio Pappalardo fa un acuto riferimento critico alla figura di Giufà che, come tutti sanno, occupa un posto di rilievo nella tradizione folclorica siciliana e sulla cui origine araba nessuno ha mai nutrito dubbi. Sciascia individua in Giufà «un atteggiamento di potente sovversione nei confronti di norme sociali stabilite» e dissente dalla rappresentazione che ne aveva fatto Italo Calvino.
Ma anche Pappalardo prende un abbaglio nell’interpretazione di uno dei saggi più citati ma meno compresi di Leonardo Sciascia Sicilia e sicilitudine del 1969 [14]. Infatti, sulla scia della lettura che ne aveva fatto tanti anni prima Massimo Onofri [15], attribuisce allo scrittore siciliano una visione naturalistica e metastorica della Sicilia e dei siciliani che, a guardar bene, non corrisponde alla realtà [16].
La Sicilia araba di Leonardo Sciascia
Alberto Petrucciani (Università “La Sapienza” di Roma) riprende alcuni temi affrontati dal Pappalardo approfondendoli e mettendone a fuoco altri più o meno connessi ai primi. Innanzitutto lo studioso accerta, in modo chiaro ed inequivocabile, come Sciascia sia arrivato, tramite Michele Amari, a scoprire il poeta siculo-arabo Ibn Hamdis di cui l’Amari era stato uno dei primi traduttori.
Peraltro proprio un passo dell’articolo pubblicato nel 1960 sul Pioniere mostra il legame profondo che Sciascia intravede tra i due esiliati:
«Michele Amari [...], come Ibn Hamdis, aveva preferito l’esilio alla servitù. Amari traduceva: “Oh se la mia patria fosse libera…”, e nelle parole dell’antico poeta trovava la sua stessa pena, la sua stessa ansia, la sua stessa nostalgia».
L’ Amari infatti, oltre che storico, era stato un protagonista del Risorgimento italiano e, come tale, aveva patito l’esilio politico come l’antico poeta. Sciascia ha ammirato tanto l’autore della Storia dei musulmani di Sicilia. Tant’è che, in una pubblicazione poco nota del 1963 [17], scriverà:
«Prima di lui la Sicilia musulmana […] giaceva nel buio passato, nell’amorfa memoria, nel caos […] solo la passione di Michele Amari ha potuto travalicare quei secoli di storia dall’oscurità alla luce, dal caos all’ordine. […]. Come si può parlare della Sicilia, conoscerla, giudicarla, se non si sa che un poeta arabo ha cantato di lei, patria perduta, luogo del cuore, verde paradiso dell’infanzia, come oggi ne canta Salvatore Quasimodo? » [18].
Petrucciani, inoltre, documenta l’interesse e la simpatia con cui Sciascia ha seguito le lotte del popolo algerino contro il colonialismo francese condividendo la posizione politica della sinistra francese e italiana. Negli anni sessanta del ‘900, infatti, lo scrittore siciliano è particolarmente vicino al PCI, anche per questo pubblica tanti articoli su giornali e periodici legati al Partito. Ricorda persino la dichiarazione pubblica di voto al PCI apparsa su L’Unità il 25 aprile 1963, pur senza lesinare critiche all’URSS e alla politica del Partito in Sicilia. Sono state, al riguardo, più volte ricordate le parole scritte da Sciascia sul giornale palermitano de L’ ORA il 3 aprile 1965:
«L’Ora sarà magari un giornale comunista: ma è certo che mi dà modo di esprimere quello che penso con una libertà che difficilmente troverei in altri giornali italiani. In quanto al mio essere di sinistra, indubbiamente lo sono e senza sfumature» [19].
Particolarmente attento ed acuto il capitolo dedicato all’analisi dei rapporti dello scrittore di Racalmuto con il Gattopardo del Principe Tomasi di Lampedusa che vogliamo qui, almeno in parte, riprendere anche perché collegato al tema centrale del libro. Petrucciani, senza temere di smarrirsi nel mare magnum delle collaborazioni giornalistiche dello scrittore e nei suoi carteggi con editori e amici, venuti alla luce negli ultimi anni, utilizza con particolare acume critico articoli e documenti, inediti fino a ieri, che aiutano a ricostruire meglio il processo, non sempre lineare, attraverso il quale Sciascia si è confrontato con l’autore di uno dei capolavori della letteratura contemporanea[20]. Petrucciani parte dalla famosa conferenza tenuta da Sciascia nel Circolo della Stampa di Palermo nel gennaio del 1959, un mese dopo la pubblicazione del Gattopardo. Ma, invece di fare riferimento al noto articolo pubblicato dallo scrittore su L’ORA palermitana, si sofferma sul meno noto apparso il 27 gennaio 1959 sul quotidiano socialista ticinese Libera Stampa dove Sciascia risulta ancor più pungente fin dal titolo [21]. Un polemista nato come Sciascia non poteva lasciar passare inosservato quel famoso passo del Gattopardo in cui il Principe si sente chiamato in causa dalle idee socialiste dell’ebreuccio tedesco che se la prende con il feudalesimo ignorando l’influenza decisiva dell’ambiente e del clima nella storia [22]. Infatti è pronta la replica del racalmutese:
«Noi sappiamo bene che, in quanto a clima e a paesaggio, l’Arabia non è da meno della Sicilia: e ciò non ha impedito ad un popolo disperso e indolente di muovere alla conquista di tutte le terre mediterranee. Perciò siamo più portati a sottoscrivere le idee dell’ebreuccio tedesco che le considerazioni climatico-ambientali del principe Salina» [23].
D’altra parte Sciascia, avendo ben assimilato la lezione dello storicismo gramsciano, sa che la storia, e non la natura, spiega tutto. Per questo afferma con decisione: «La Sicilia è come la sua storia l’ha fatta, terra di contrasti e di contraddizioni. […]. La storia è la chiave per intendere la Sicilia» [24]
Petrucciani ricostruisce con acribia la lunga e faticosa gestazione dei primi saggi sciasciani su Pirandello, Verga e De Roberto. Si tratta di testi scritti negli anni precedenti. I primi risalgono addirittura al 1953. Tutti, comunque, tesi a cercare di comprendere il rapporto stretto esistente tra letteratura e storia, con una particolare attenzione al periodo risorgimentale. Il bel saggio di Petrucciani si conclude con una attenta analisi dello scrittore siciliano traduttore di Ibn Hamdis che conferma la grande sensibilità poetica di Sciascia.
Leonardo Sciascia tra Africa, Turchia e Persia
Giovanni Capecchi, oltre a riprendere i punti principali trattati dai suoi colleghi precedentemente, dedica la parte centrale del suo intervento a tratteggiare con finezza lo spirito laico e tollerante dello scrittore di Racalmuto. Sciascia sa che il laicismo vero non può prescindere dal rispetto di ogni credo e dal riconoscimento che nessuno può avere la pretesa di possedere la verità assoluta in qualsiasi campo. Capecchi lo dimostra chiaramente citando dei testi poco noti di Sciascia.
Il primo è tratto da una singolare intervista che il neo deputato radicale Sciascia nel 1979 rilascia al quotidiano Lotta Continua. Il dialogo tra lo scrittore e il giornalista parte dall’analisi dell’Affaire Moro, pubblicato l’anno precedente, ma si conclude con un riferimento ad un fatto di cronaca di quei mesi che riprendiamo:
«Trattative per Moro e trattative per lo Scià. Lo Scià lo daresti a Khomeini?
No, lo Scià non lo darei. Per un antico rispetto delle regole. Tu non puoi buttare in pasto alla morte una persona a cui hai dato rifugio. Sarebbe quello che nella Divina Commedia è il “tradimento del commensale”. Avrei potuto non riceverlo, ma non posso consegnarlo…I suoi averi sì, certo. Ma forse gli iraniani non si accontenterebbero, perché nel mondo musulmano lo spirito di vendetta è fortissimo. Khomeini non riusciamo a spiegarcelo interamente. Per me è il fanatismo, […]. Non mi piace. È un uomo molto vecchio, ma non degli anni suoi, degli anni del mondo musulmano. È brutto questo momento, questo mondo. Io amo molto gli arabi, mi sento quasi arabo, ma un arabo che ha letto Montesquieu. Lo consiglierei anche a loro» [26].
Giustamente Capecchi afferma che questa autodefinizione di Leonardo Sciascia ha «la forza iconica di una carta d’identità». Il secondo testo utilizzato da Capecchi è tratto da una intervista di Corrado Augias allo scrittore siciliano, pubblicata dal settimanale Panorama il 10 novembre 1985, con il titolo In nome di Maometto re. Ne riprendiamo di seguito il passo centrale:
«Domanda: Nelle settimane scorse s’è tornato a parlare delle due eterne anime italiane, l’europea e la levantina. Lei che in un certo senso le incarna entrambe […] che giudizio dà al riguardo?
Risposta: È un destino che ci hanno assegnato la storia e la geografia; sono cose contro cui si può fare poco [...]. Parlando in particolare della Sicilia, non si può dimenticare che gli arabi vi sono rimasti per due secoli e che il loro dominio si è impresso nella fantasia, nella lingua, nel modo di essere, nelle facce, nei nomi di luoghi e di persone, compreso il mio.
D. C’è però chi sostiene che quella araba fu solo una dominazione non diversa dalle tante altre che l’Isola ha subìto nel tempo.
R. Lo so. Michele Amari, per esempio, scrive che la Sicilia fu dominata dagli arabi ma non arabizzata. È evidente che non è così» [27].
In questa stessa intervista, accompagnata da un ritratto dello scrittore sovrapposto a un paesaggio arabo (con cupole di moschee e minareti), Sciascia torna a ripensare alla tolleranza che ha caratterizzato la presenza araba in Sicilia contrapponendola al terrorismo diffuso nel presente, ed afferma: «Mi dà vera sofferenza pensare che il mondo arabo dia oggi prova di una così feroce e sanguinaria intolleranza».
Sciascia è ben consapevole della distanza abissale che separa il mondo arabo antico, descritto da Michele Amari, da quello contemporaneo. Eppure non concorda con quanti rappresentano in modo caricaturale i Paesi islamici odierni. Il 19 febbraio 1989 Sciascia, intervenendo sul caso internazionale nato attorno ai Versi satanici di Salman Rushdie, condannato a morte dall’ayatollah Khomeini, su La Stampa, prende nettamente le distanze dall’irrisione con cui tanti trattano i sentimenti religiosi:
«Ho avuto sempre disinteresse, se non avversione, per le rappresentazioni letterarie o figurative che toccano – stravolgendole, irridendole o bestemmiandole – le rivelazioni religiose. Il laicismo vero non può prescindere dal rispetto per coloro che a quelle rivelazioni credono, fermo tenendo il principio di combatterne le emanazioni temporali» [28].
Giovanni Capecchi, in questo suo bel saggio, mostra come sia tutt’altro che inutile soffermarsi a leggere e rileggere attentamente i numerosi articoli e corsivi pubblicati dallo scrittore siciliano sulla stampa quotidiana e periodica. Molti di questi, ancora oggi, risultano dispersi e, solo in parte, sono stati recuperati nella nuova edizione critica curata da Squillacioti [29]. Così, grazie al recupero di un corsivo pubblicato da Sciascia nel 1965 su L’Ora di Palermo, in un tempo in cui la Sicilia era governata dalla DC e da un cardinale [30] che somigliava tanto a Khomenei, Capecchi può completare il suo sfaccettato ritratto dello scrittore di Racalmuto: «Quel tanto di sangue e di sogno ( e di nome) che c’è in me di arabo, mi fa sentire il tempo della Sicilia musulmana – vita, poesia, cultura – profondamente vicino: ma non al punto di barattare il Discorso del metodo con il Corano».
Il capitolo conclusivo di questo saggio è dedicato all’analisi di una amicizia tra lo scrittore siciliano e Bruno Arcurio, direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Ankara negli anni settanta del secolo scorso. Capecchi riesce a ricostruire questa amicizia, finora assente dalle biografie e dalla critica sciasciana, grazie al recupero del carteggio tra i due conservato nell’Archivio della Fondazione Sciascia di Racalmuto. Lo studio di questo carteggio, oltre a consentire di avere delle informazioni di prima mano sulle prime traduzioni turche dell’opera di Sciascia, aiuta anche a comprendere meglio la genesi di Todo modo.
Il saggio di Giovanni Capecchi trova, in questo stesso libro, una opportuna integrazione nell’ articolo di Cristiano Bedin che riprende un suo recente studio sulla fortuna di Sciascia in Turchia [31], dove la letteratura italiana è apprezzata e diffusa più di quanto lo sia quella turca in Italia. Bedin, nel rilevare il successo che hanno avuto in quella terra le traduzioni de Il giorno della civetta, A ciascuno il suo e Il Consiglio d’Egitto, sottolinea il particolare apprezzamento turco nei confronti del suo impegno sociale e del suo rifiuto delle rappresentazioni stereotipate della Sicilia. Completano il volume – comprendente in appendice XXXII tavole a colori riproducenti copertine di traduzioni arabe di Sciascia, articoli poco noti di cui si parla nel libro, ecc. – l’articolo di Zakariya Jumaah che parla delle traduzioni egiziane dell’opera del nostro autore; il testo di Sandro Caruana e Sergio Portelli che ricordano il viaggio a Malta di Sciascia; e lo scritto, infine, di Mehrnaz Montaseri e Zohreh Montaseri i quali si soffermano sui principali studi e sulle traduzioni iraniane dell’opera di Leonardo Sciascia.
Per concludere ritengo particolarmente felice la pubblicazione di questo libro nell’anno in cui ricorre il centenario della nascita di Leonardo Sciascia. Tutti i saggi che lo compongono hanno una forte impronta critica e rifuggono dal clima retorico e celebrativo che ha contrassegnato gran parte degli articoli e dei libri stampati in questi mesi. E particolarmente bene ha fatto Petrucciani, dal mio punto di vista, a cacciare nel secchio della spazzatura tutte le chiacchiere sull’identità siciliana, «riciclate negli ultimi decenni perfino nei nomi di assessorati e biblioteche».
Dialoghi Mediterranei, n. 52, novembre 2021
Note
[1] Aa.Vv. (a cura di G. Capecchi e F. M. Corrao), Un arabo che ha letto Montesquieu. Leonardo Sciascia e il Mediterraneo sud-orientale, Leo S. Olschki Editore, Firenze 2021: 70.
[2] Leonardo Sciascia, L’arte di Giufà, in Francesca Maria Corrao, Le storie di Giufà (1991), Sellerio Palermo 2011: 18.
[3] La Corrao allega foto della nota manoscritta da Leonardo Sciascia nel registro degli ospiti di casa Corrao.
[4] È lo stesso Sciascia a riconoscerlo in apertura dei suoi primi saggi pirandelliani: L. Sciascia, Pirandello e la Sicilia, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta 1961: 9.
[5] Aa. Vv., Delle cose di Sicilia, testi inediti o rari, a cura di L. Sciascia; introduzione di D. Fernandez, Sellerio, Palermo, vol. I, 1980; vol. II, 1982; vol. III, 1984; vol. IV, 1986.
[6] La data reale (1960) di redazione dell’articolo è stata accertata dal filologo Squillacioti, curatore della nuova edizione critica di tutta l’opera sciasciana: L. Sciascia, Opere, vol. II, Inquisizioni-Memorie-Saggi, due tomi, Adelphi Milano, 2014-2019.
[7] L. Sciascia, Cruciverba, Einaudi, Torino, 1983: 264.
[8] Ivi: 261-263.
[9] L’ articolo gustosissimo si trova oggi compreso tra quelli ristampati in L. Sciascia, Quaderno, Nuova Editrice Meridionale, Palermo 1991: 37-39.
[10] Per quanto riguarda l’opera del Centro Studi e Iniziative di Partinico si rimanda a Danilo Dolci, Spreco, Einaudi Torino, 1960; Lorenzo Barbera, La diga di Roccamena, Laterza Bari-Roma, 1964; Danilo Dolci, Il potere e l’acqua (scritti inediti con una testimonianza di Vincenzo Consolo), Melampo Milano, 2010 e ad un recente saggio storico di Giuseppe Oddo, Il miraggio della terra in Sicilia, Istituto Poligrafico Europeo Palermo, 2021 che ricostruisce con particolare attenzione le battaglie del Centro Studi di Dolci su questo fronte.
[11] Il testo di Sciascia, riportato anche dal giornale La Repubblica il 14 maggio 2008, si trova anche on line sul sito www.suddovest.it.
[12] L. Sciascia, La palma va a nord, a cura di Valter Vecellio, Gammalibri Milano, 1982: 9.
[13] In Appendice al volume di cui stiamo parlando, nelle tavv: IV-V sono riprodotte a colori la copertina del Pioniere del 12 giugno 1960 e la pag.7 dove inizia l’articolo di Sciascia.
[14] Il saggio apre La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia, Einaudi Torino, 1970: 11-17.
[15] M. Onofri, Storia di Sciascia, Laterza Bari-Roma, 2004: 140.
[16] Contro questa rappresentazione, al tempo stesso naturalistica e metafisica della Sicilia, mi permetto di rinviare a due miei precedenti studi: F. Virga, La Sicilia di Leonardo Sciascia, in “Nuova Busambra”, n.1, giugno 2012; Leonardo Sciascia e l’ottimismo della scrittura in “Dialoghi Mediterranei”, maggio 2017.
[17] L. Sciascia, Sicilia, in Aa.Vv. Cara Italia, Montecatini 1963. cit. da Petrucciani: 47-48.
[18] Ibidem
[19] L’Ora 3 aprile 1965. Parole riprodotte in quarta di copertina del Quaderno pubblicato da Nuova Editrice Meridionale, Palermo 1991.
[20] Petrucciani comunque ignora, come tanti altri critici, l’importante intervento che Sciascia terrà nell’aprile del 1960 a Palma di Montechiaro, partecipando al Convegno organizzato da Danilo Dolci Sulle condizioni di vita e di salute nelle zone arretrate della Sicilia occidentale. L’intervento è stato pubblicato nel dicembre 2012 sulla rivista “Nova Busambra”, dove lo scrivente nella nota introduttiva sottolinea il significato che ebbe nell’occasione la sua polemica con l’autore del Gattopardo.
[21] L’articolo, intitolato Marx, Manzoni e il Gattopardo, insieme ad altri, è stato ristampato nel volume di Aa.Vv. (a cura di Renato Martinoni), Troppo poco pazzi. Leonardo Sciascia nella libera e laica Svizzera, Leo S. Olschki Fiirenze, 2011. Il volume comprende un DVD dove sono raccolti tutti gli articoli e gli interventi radiotelevisivi dello scrittore siciliano nella Svizzera italiana.
[22] Ecco il celebre brano del Gattopardo con cui polemizza Sciascia: «Ho detto i siciliani, avrei dovuto aggiungere la Sicilia, l’ambiente, il clima, il paesaggio siciliano…Questa violenza del paesaggio, questa crudeltà del clima …Adesso anche da noi si va dicendo in ossequio a quanto hanno scritto Proudhon e un ebreuccio tedesco del quale non ricordo il nome, che la colpa del cattivo stato di cose, qui ed altrove, è del feudalesimo; mia cioè per così dire».
[23] L. Sciascia in Aa. Vv. Troppo poco pazzi, op. cit.: 103.
[24] Ibidem: 102-103.
[25] L. Sciascia, Pirandello e la Sicilia, Salvatore Sciascia Editore Caltanissetta, 1960: 9.
[26] L’intervista è stata successivamente raccolta da Valter Vecellio nel libro La palma va a nord, Gammalibri, Milano 1982. Il brano citato si trova nella pag. 245 del libro di Vecellio.
[27] In nome di Maometto re, Intervista con Leonardo Sciascia di Corrado Augias, in Panorama,10 novembre 1985. Cit. da Capecchi: 72.
[28] L. Sciascia, Il Diavolo, Maometto e Voltaire, articolo pubblicato su La Stampa il 19 febbraio 1989, ripreso da Capecchi: 73-74. Il pezzo di Sciascia, in prima pagina, affianca un articolo intitolato Rushdie si scusa, giallo sul perdono, incentrato sulle scuse che lo scrittore inglese ha chiesto ai musulmani respinte da Khomeini.
[29] Che siano ancora tanti i testi dispersi di Sciascia l’hanno ammesso apertamente lo stesso Squillacioti e Ivan Pupo (autore di numerosi ritrovamenti) in una diretta radio trasmessa il 15 ottobre 2021 dall’Associazione Amici di Leonardo Sciascia.
[30] Di questo cardinale Sciascia ci ha lasciato un ritratto indimenticabile: «Il Cardinale Ruffini, arcivescovo di Palermo, è stato probabilmente l’ultima forte personalità chiamata a gestire le cose della Chiesa secondo il vecchio stile; e l’ha fatto intervenendo in tutti i campi, rivendicando proprietà che, da certi documenti in suo possesso, dovevano tornare alla Chiesa; costruendo luoghi di culto ovunque gli sembrasse opportuno (…); intervenendo nella formazione delle liste della DC; non esitando mai a dire la sua in occasione di assegnazioni di cariche pubbliche e nella nomina di professori universitari; infine dando sulla voce a tutti coloro che parlavano di mafia, di cui giungeva al punto di negarne l’esistenza. Un vero cardinale del Rinascimento. Nativo di Mantova, è perfettamente riuscito a darsi una mentalità siculo-mafiosa» (La Sicilia come metafora, Mondadori Milano, 1979: 129-130).
[31] Il contributo di Cristano Bedin riprende un suo precedente articolo sulle traduzioni turche di Sciascia pubblicato in Todomodo, IX, 2019: 81-92
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Francesco Virga, laureato in storia e filosofia con una tesi su Antonio Gramsci nel 1975, fino al 1977 lavora con Danilo Dolci nel Centro Studi e Iniziative di Partinico. Successivamente insegna Italiano nelle scuole medie della provincia di Palermo. Nel 1978 crea il Centro Studi e Iniziative di Marineo che continua ad animare anche attraverso un blog. È stato redattore delle riviste «Città Nuove», «Segno» e «Nuova Busambra». Tra le sue pubblicazioni si ricordano: Il concetto di egemonia in Gramsci (1979); I beni culturali a Marineo (1981); I mafiosi come mediatori politici (1986); Cosa è poesia? (1995); Leonardo Sciascia è ancora vivo (1999); Pier Paolo Pasolini corsaro (2004); Giacomo Giardina, bosco e versi (2006); Poesia e storia in Tutti dicono Germania Germania di Stefano Vilardo (2010); Lingua e potere in Pier Paolo Pasolini (2011); Danilo Dolci quando giocava solo. Il sistema di potere clientelare-mafioso dagli anni cinquanta ai nostri giorni (2012); Giuseppe Giovanni Battaglia, un poeta corsaro, in Aa. Vv. Laicità e religiosità nell’opera di G.G. Battaglia (2018).
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