Non è casuale il disegno di Matteo Pericoli scelto per la copertina di BIR ZAMANLAR nel museo dell’innocenza (Il Canneto Editore, Genova 2021): una veduta riquadrata di Istanbul. La città, infatti, non è solo lo scenario, la quinta teatrale che ospita il dipanarsi del romanzo di Anna Rita Severini, ma è una delle protagoniste.
E la sua topografia intricata, tutta da scoprire nell’annodarsi di rimandi urbani nascosti, ben interpreta l’intreccio complesso della partitura in cui si articolano le diverse vicende dei personaggi, ognuno con un loro profilo, accento e ruolo, una loro storia da conoscere, che si interseca nella trama del racconto, di capitolo in capitolo.
Anna Rita Severini conosce Istanbul con sensibile perizia, grazie all’esperienza che più volte l’ha condotta a misurarsi e a perdersi e a ritrovarsi in questa città, luogo del cuore, a volte lasciandosi trasportare da un’atmosfera inattesa, altre, misurando ogni passo per rivelare a sé stessa, e a noi, il segreto che nessuna guida sa restituire.
Anche visualizzare un tappeto, esito di trama e ordito, può suggerire alla lettrice, al lettore il senso della composizione di BIR ZAMANLAR nel museo dell’innocenza: solo alla fine, e nel suo insieme, il disegno dell’autrice è comprensibile.
Ma c’è un altro protagonista: il Museo dell’innocenza, inaugurato nell’aprile del 2012, ideato e progettato da Orhan Pamuk, una sorta di “misè en scène” dell’omonimo romanzo, impaginando negli ambienti tutti gli oggetti, evocatori di un’assenza, che hanno contrappuntato la storia d’amore tra Kemal e Füsun, il sofferto percorso della loro relazione.
Ne L’innocenza degli oggetti (Einaudi, Torino 2012) l’autore ricompone le fasi, dall’idea iniziale del 1982, fino a concepire tre nuclei espressivi – romanzo, museo e catalogo – che, pur compenetrandosi, posseggono identità autonome l’una dall’altra. Il museo, infatti, non è la rappresentazione del romanzo, anche se sono due entità che convivono.
Dalla descrizione di questo processo emerge anche il senso del percorso espositivo, caratterizzato dalla serie delle teche che coincide fedelmente alla sequenza dei capitoli del romanzo: 83 bacheche in legno corrispondono infatti agli 83 capitoli del romanzo; gli oggetti, più di 700, sono tutti citati e ogni vetrina è un tableau interamente progettato dallo scrittore.
E chi abita il Museo – che sia una volta sola o più, nel richiamo della fascinazione che esercita – può lasciare sotto ogni bacheca un oggetto personale. Come a dire: “anch’io ho custodito frammenti che rimandano a un’esperienza, a una persona, a un momento della mia vita”.
La passione per il progetto di Pamuk, dalla lettura del romanzo nel 2010, alla realizzazione del Museo hanno dato vita a BIR ZAMANLAR nel museo dell’Innocenza, come confida l’autrice:
«Ho letto con attenzione il romanzo. Ho gustato testi e fotografie del catalogo. Presto (in una data che per ora non conosco fra il 28 dicembre e il 3 gennaio) vedrò il museo. Dopo tutto questo pieno di informazioni ed emozioni, sono curiosa di sapere che effetto mi farà. Da quando ho conosciuto il romanzo nel 2010, ho nutrito dentro di me un’idea tutta mia del museo, attraverso la lettura dei testi, la ricerca di interviste e recensioni, la consultazione di video sulla rete, e ben due infruttuosi pellegrinaggi davanti alla sua porta ancora chiusa al pubblico. Un’idea virtuale, dunque, perché il museo non era ancora visibile. Ora esiste, invece: è un luogo fisico in cui potrò finalmente cercare e riconoscere i segni di una storia che mi appassiona».
E così Denise e Irene, due tra le protagoniste del romanzo – la risonanza con il sentire dell’autrice è presente e vitale – si incontrano nel 2011 al Museo dell’innocenza, ancora in allestimento, e incrociano i loro percorsi di vita e le loro aspirazioni: quelle di una giovane antropologa museale, giunta per un incarico di schedatura a titolo volontario, e le visioni di una lettrice matura e appassionata, conquistata dal museo di Pamuk e arrivata a Istanbul con il desiderio di poterlo visitare e conoscerne l’autore. Le conversazioni tra Denise e Irene sono preziose testimonianze del significato di fare un museo:
«… la pazienza di chi si impegna in un nuovo allestimento, la soddisfazione di toccare e sistemare i reperti che si conoscono uno per uno, la volontà di mostrarli e far capire qual è il loro posto nel racconto destinato a chi verrà in visita … l’amore verso le attività minute del fare un museo, verso i tempi lunghi richiesti dall’organizzazione degli spazi alla ricerca in un’armonia in ciò che si va componendo».
Sempre sottolineata la rilevanza di ogni testimonianza quale oggetto di affezione, non solo documento della Storia, ma che vibra in dialogo stretto con le fibre del nostro essere, compresi il dolore e la fragilità, in relazione stretta con le nostre variegate tensioni; è ausilio per conoscersi e prendersi cura di sé e di ogni persona. Si attiva dunque un’intima prossimità, una parentela stretta e affidabile – perché solo nella relazione narrativa si fa patrimonio – un’attenzione che comporta anche l’educazione alla sensibilità.
Sottotraccia, discreta ma ineludibile, l’esperienza professionale di Anna Rita Severini, che ha lavorato per circa vent’anni (1981-2000) nel Museo delle Genti d’Abruzzo a Pescara, svolgendovi, in particolare, attività di ricerca e conservazione, catalogazione e studio delle raccolte oggettuali, co-progettazione dei contenuti espositivi e degli allestimenti.
In tutto questo s’impiglia, con esiti imprevedibili, l’esistenza di Deniz, collezionista e poeta che collabora da qualche anno ai lavori di messa a punto dell’esposizione e fa da tutor a Denise. Il romanzo dà vita anche ad altri personaggi, mai secondari, come Maia, vissuta a Istanbul sin da bambina ed ex bibliotecaria nel locale Liceo Italiano, che nel 2012 approda nel Museo dell’innocenza dopo l’apertura al pubblico, e ottiene di potervi svolgere attività di promozione e visite guidate. Così, scopre nel deposito un quaderno smarrito da Deniz in cui è descritta l’esperienza di lavoro e amicizia con Denise e la storia d’amore con Irene.
Da qui inizia un’imprevista indagine che conduce Maia a fare luce sulle vicende dell’aprile 2011: nell’arco di qualche anno viene in possesso prima del diario di Denise, poi di un racconto stilato da Irene. È dunque la sensibile Maia a recuperare cronache personali per trasfonderle in un racconto unitario, avventurandosi nell’indagine puntuale di circostanze a lei sconosciute, ma che in qualche modo la coinvolgono in una storia più grande di lei e la portano a scoperte importanti. Maia che ricompone con passione e pazienza frammenti, dando voce ad avvenimenti e trame sottese, perché: «Scrivere rende visibile l’invisibile, dà senso compiuto alle idee con la paziente ricerca delle parole. Scrivere ci aiuta a condividere una personale dimensione intima che può allontanare la paura e forse darci la felicità».
E BIR ZAMANLAR (d’obbligo il riserbo sul significato del titolo), non si offre solo a lettrici e a lettori, che sapranno avventurarsi negli intrecci narrativi, ma è anch’esso divenuto un “oggetto di affezione”, donato dall’autrice al Museo dell’innocenza, suo luogo di ispirazione e di elezione.
Dialoghi Mediterranei, n. 57, settembre 2022
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Silvia Mascheroni, è ricercatrice nell’ambito della storia dell’arte contemporanea, dell’educazione al patrimonio culturale e della didattica museale. Conduce interventi formativi per responsabili e operatori dei Servizi educativi e dei musei; cura la progettazione di esperienze educative, partecipa a ricerche, a giornate di studio e convegni. È responsabile con Simona Bodo della progettazione e del coordinamento di “Patrimonio e Intercultura”, promosso da Fondazione ISMU, dedicato all’educazione al patrimonio in chiave interculturale (www.patrimonioeintercultura.ismu.org). Dall’anno accademico 2017-1018 è docente di “Educazione al patrimonio e didattica museale” presso la Scuola di Specializzazione in Beni storico-artistici dell’Università di Pisa. È co-fondatrice con Simona Bodo e Mariagrazia Panigada del Gruppo di lavoro “Patrimonio di Storie” (www.patrimoniodistorie.it).
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