di Fabiola Di Maggio
«La funzione dell’artista non è di educare la società e di assecondarne il regolare progresso, ma di prenderne partito nelle contraddizioni e nei conflitti che si generano all’interno di essa e ne mettono in pericolo l’esistenza o il destino. Quella dell’artista, per Picasso, non è una normale funzione, ma una straordinaria missione storica; e il suo dovere non è di preservare l’arte dai pericoli di una cronaca agitata, ma di gettarla nella mischia, dato che nella mischia è in gioco anche la sua sopravvivenza. Si comprometta pure il linguaggio, se ne faccia un’arma di offesa e di difesa, dato che la massa servile in cui i regimi totalitari vogliono trasformare la società non avrà più bisogno di un linguaggio dacché non avrà più un pensiero» Così Giulio Carlo Argan [1].
Pensiamo alla terra e al mare. E alle terre e ai mari. Due elementi naturali. Talmente ordinari che passano praticamente inosservati. Pensiamo a come si vedono l’uno l’altro. A cosa sono l’uno per l’altro. Un sistema connesso, indivisibile e indispensabile. E non solo per questioni di ecologia del paesaggio, ma oggi più che mai, per ragioni di ordine antropologico. C’è sempre nella natura una scienza: una lezione di cultura e di antropologia delle immagini da scoprire. Dal mare chi guarda la terra cerca la fermezza di un approdo, la solidità di una meta, la materialità che compensa la fluidità dell’acqua. Dalla terra chi guarda il mare spera in qualcosa di nuovo in arrivo, cerca un’evasione verso quel che non sa o immagina, un’aria di libertà, una liquidità che bilancia la corporeità della terra.
In termini antropologici, il mare e la terra sono due identità distinte, due alterità che si osservano e si pensano, due altrove che si incontrano e si scontrano proiettandosi l’uno nell’altro. E allora si capisce davvero che ciò che è diverso e altro, come il mare è diverso e altro dalla terra, è ciò di cui abbiamo bisogno per relazionarci, per sperimentare fino in fondo la natura umana, che è naturalmente eterogenea, e che l’ottica di intrecciare gli orizzonti in un continuo limen di specchi non è un bel gioco di parole o una frase d’effetto, ma quel passo verso l’altro, verso lo straniero, che, se ci riflettiamo, dati i nostri atteggiamenti stranianti, siamo più noi che gli altri.
Consideriamo adesso i confini. Ci sono quelli naturali che strutturalmente non permettono passaggi e comunicazioni, ma che in fondo non fanno male a nessuno. E poi ci sono le frontiere storico-politiche e le coordinate che dividono le terre, le terre dai mari e il mare stesso al suo interno. In questa miriade di linee architettate che striano il pianeta, si giocano i destini degli uomini. Così si decide grossomodo chi è ricco e chi non lo è. Chi merita la pace e chi la guerra. Chi sta dalla parte giusta del globo e chi da quella sbagliata. Chi può aspirare a una vita migliore e chi, invece, solo per averci provato trova la morte. Ebbene, oggi l’esistenza dei confini terrestri, che genera di fatto anche la presenza di quelli marini, dà vita a veri e propri conflitti, lotte debolmente percepite come tali, figlie di battibecchi politici – dove il problema degli esodi diventa ulteriore motivo di scontro diplomatico più che ragione di unione e cooperazione – che causano un elevato e insensato numero di morti esattamente come tutte le battaglie.
Ed è proprio sull’idea di una vera e propria “guerra in mare” che si spiegano due tele dal forte impatto iconografico e decisamente attuali, realizzate dall’artista palermitano Massimiliano Scuderi [2]. L’odierna questione dell’immigrazione vede geograficamente alcune terre e alcuni porti più esposti e coinvolti di altri in fatto di accoglienza, soccorso e solidarietà. L’attualità ci dice che l’Italia (soprattutto la Sicilia), l’isola di Malta, la Spagna, la Francia, la Grecia e il Mediterraneo che tutti li lambisce, dovrebbero essere porti sicuri per tutte quelle genti che muovono dall’Africa in cerca di una vita migliore (nella più felice delle ipotesi) e principalmente per tutti i profughi che scappano da guerre e carestie. Negando l’approdo si nega da una parte la libertà e il diritto a emigrare, e dall’altra il dovere di garantire la vita. Tuttavia, dimenticando di essere tutti storicamente, più o meno, servi debitori, una volta ricevuta la remissione dei pesanti debiti, ci rifiutiamo di essere allo stesso modo generosi con chi sarebbe in obbligo con noi seppure di un ammontare fortemente minore.
Fuor di parabola, fondamentalmente, la storia è questa. Ci stiamo letteralmente negando quale cultura della condivisione, dell’accoglienza, dell’incontro, della connessione e della solidarietà con normative e dispotismi che a priori prescrivono il rifiuto degli immigrati, sconfessando la natura sensibile e ospitale della cultura mediterranea. E in questa negazione discriminatoria e immorale, per difenderci e avere a tutti i costi ragione, inventiamo, o meglio accettiamo di inventare dei nemici decretando l’inopportuno e illecito parallelismo immigrato = delinquente, oppure facciamo leva sulla mancata cooperazione dei Paesi dell’Unione Europea, secondo una pratica che consiste nel rigettare, nel far vagare in mare o nel bloccare nei porti le navi che trasportano uomini, donne e bambini indifesi e bisognosi, rifugiati politici o richiedenti asilo, come i casi delle navi Aquarius, Lifeline e Diciotti ci mostrano tristemente.
Scuderi, attento osservatore della realtà circostante e da sempre sensibile ai fatti di cronaca, ha colto bene l’insegnamento antropologico della natura insito nel rapporto mare/terra, e con i suoi dipinti Esodi e Origami, incentrati proprio sul tema della migrazione e della bellicosa chiusura dei porti, ha rappresentato sinotticamente questa densa lezione di antropologia del paesaggio e delle immagini. L’artista testimonia, senza utilizzo alcuno della figura umana, l’oscuro senso del terrore e dello scempio che scaturisce dalla negazione degli sbarchi. Esodi e Origami sono due decisi interventi artistici e culturali. Dei moniti rivolti alle scellerate manovre “interne” dell’attuale politica nazionale italiana, e non solo, che ha oltraggiato i valori della democrazia e dell’uguaglianza, combattendo da terra delle guerre in mare con e contro dei poveri Cristi.
Eppure, le due tele in oggetto non sono solo dei manifesti particolari della situazione odierna, esse sono delle edicole iconiche di una Storia molto più grande di noi, che ci sovrasta e ci attraversa, che ci porta indietro e ci proietta più in là, che è con noi ma anche contro di noi. È la storia della nostra epoca, del suo cammino incerto e affaticato. È l’immagine di un mondo che sembra quasi più non volere dimostrare di essere migliore ogni volta che qualcosa potrebbe essere fatta per evitare il peggio. Benché i riferimenti di Scuderi siano diretti a episodi specifici degli ultimi anni e soprattutto degli ultimi mesi, la sua trasposizione o, se si vuole, interpretazione, dei drammi della migrazione ha un respiro molto più generale. Con il suo stile fantastico e surreale, vicino per molti aspetti alle visioni escheriane, l’artista supera la realtà in una rappresentazione fantastica che resta di fatto e in modo singolare ad essa ancorata.
Queste tele denunciano dei misfatti, e non solo dunque la chiusura dei porti, ma storie di barconi saturi di uomini, donne e bambini dai volti stravolti e con ancora addosso qualche labile segno di speranza che può nutrire, nonostante le circostanze estreme, solo chi fugge dalla guerra, dalla fame, dalla sete e da una vita socio-politica ed economica che non lascia intravedere alcun futuro. Come anticipato, nelle tele di Scuderi non c’è traccia di figura umana. Solo delle strutture (come le tante che animano i suoi dipinti) che rimandano agli esseri umani. Figure umane come fantasmi che, proprio per il fatto di non esserci, impongono alla mente una presenza paradossalmente più ingombrante della loro stessa raffigurazione. L’assenza umana rende presente il reato nella coscienza del mondo civile, obbligandolo a riflettere, a sentirsi corresponsabile di queste tragedie e a opporsi. Esodi e Origami non riproducono, non indicano, ma espandono un’energia suggestiva. Energia che non nasce dagli oggetti, dai presunti soggetti o dai significati – che sono a tutti noti perché è cronaca attuale –, ma dalla struttura, dalla forma che informa, ricorda, allude.
Guardiamo Origami. Si tratta di una grande tela nera con al centro riprodotto un origami bianco. Un’opera semplice. Un’imbarcazione essenziale, fragile e misera, posta al centro di un mare nero che non lascia intravedere il cielo, con il quale, forse si fonde e dove non si scorge nemmeno l’ombra della terra. In questo universo oscuro, che molti migranti sono costretti a vivere e vedere per giorni e giorni, oscilla una barchetta bianca, un punto di luce che, in accordo con gli antichi principi shintoisti del ciclo vitale che regolano l’origami, la vita e la morte si compenetrano in un circuito fatto di inizio e fine, speranza e arresa, aspettativa e ancora rinuncia. Scuderi in questa tela vede con gli occhi di un bambino al quale, come afferma l’artista stesso:
Non importa nulla della cronaca, degli eserciti della salvezza, dei dibattiti politici in cui si discute su chi deve accogliere e su chi deve ricevere gli aiuti economici per farlo. Tutto questo un bambino non lo sa. A un bambino non interessa. E penso che se ogni bambino ha paura nel buio della sua cameretta protetta, figuriamoci il terrore che deve provare un bimbo mentre sta solcando i mari su improbabili imbarcazioni, insieme ad altri disperati, nel mare di notte.
Con Origami – nella sua essenzialità iconografica evidentemente e volutamente infantile, debolmente plastica, e nella semplicità cromatica di un nero/bianco tenebroso, tragico e infernale – Scuderi ha messo in forma un processo di eliminazione del colore e del volume. Lo spazio sembra piatto, solo a tratti scenico. Annullare i rapporti cromatici e spaziali tridimensionali significa recidere la relazione degli uomini con la realtà. Cancellare tale connessione equivale a invalidare la stessa natura e la vita.
E alla sospensione dell’esistenza incarnata da Origami si lega Esodi. Una tela di più discrete dimensioni che, per la sua consistenza iconica, per la sua fitta pienezza, bilancia visibilmente il vuoto spaziale e grafico di Origami. In Esodi troviamo una sovrapposizione e un incastro di elementi: in primo piano le strutture cubiformi – firma iconica riconoscibile dell’artista – sembrano rimandare a costruzioni urbane; al centro si riconosce una porzione ondeggiante di mare con navi, origami, salvagenti e qualche plinto; e sullo sfondo ancora strutture cittadine a mo’ di cubo inframmezzate da un arco e da un faro sinuoso; infine, in alto, una sottile linea di luce aurea (come raggio miraggio di liberazione), stagliata sul cielo nero, sembra irradiarsi orizzontalmente dal faro e con un’irreale consistenza sostiene due galleggianti, metafore sintetiche del soccorso primario e spesso uniche forme di salvezza.
In questo dipinto gli spazi si accumulano, sono soglie, movimenti. Ogni cosa è al suo posto ma appare anche possibilmente posta in un altro luogo. L’immagine è assolutamente immaginaria. Eppure racconta profonde verità. Il mare tra due terre, tra due altrove: in lontananza quello di partenza che viene abbandonato e in primo piano quello che si desidera raggiungere. Ma le terre sembrano far parte del mare e il mare ha quasi la solidità delle lunghe strade di città. È la sovrapposizione di elementi, ma anche di dimensioni e significati. Nell’osmosi grafica tra il mare e la terra Scuderi ci rappresenta la lezione di cui si è detto in principio: gli orizzonti si incrociano, due paesaggi si relazionano fintanto che l’uno assume i caratteri dell’altro non restando più uguale a se stesso. Ed è anche, e soprattutto, la connessione antropologica tra l’identità e l’alterità, tra le nature e le culture, tra i molti qui e i tanti altrove.
Ma Esodi è anche di più. È la più profonda attualità. Le due terre divise dal mare, infatti, alludono agli sbarchi elemosinati dai migranti di fronte ai porti chiusi, costretti al nomadismo marino e a lunghe soste in mare che deve in qualche modo farsi terra (altro motivo della solidità delle acque) nella speranza di un approdo negoziato dall’alto delle comode poltrone diplomatiche. Così l’arco e il faro sono i più importanti simboli di un desiderato ancoraggio e di una svolta. Il faro è l’emblema della sfida contro le forze della natura nell’oscurità della notte, la cui luce – qui rappresentata da un raggio dorato –, indica la presenza di un porto vicino e un senso di protezione, sicurezza e cambiamento. Il faro è anche metafora dell’energia spirituale e divina, come dimostra il bagliore aureo, che per la sua posizione liminare è una soglia tra la terra e il cielo; è dunque un principio sovrannaturale al quale potersi fedelmente aggrappare.
L’arco segna invece una trasformazione, un transito. Poterlo raggiungere e attraversare equivale a passare da una condizione a un’altra, e per un migrante tale passaggio è inevitabilmente quello che va dal pericolo alla salvezza, dal mare alla terra. Anche Esodi è priva di figure umane. Ma le loro assenze, come in Origami, pesano alla vista e alla coscienza molto di più di ogni loro possibile cospetto. Ci sono solo strutture a raccontare i drammi delle diaspore. Anche qui solo poche tonalità (bianco, nero e oro) bastano a esprimere in modo chiaro e solido, con un disegno preciso e dalle linee nette, il non senso di queste storie di esuli, che spesso evolvono in tragedie. Il bianco e il nero, che nei loro segni fanno insieme forma e contenuto, come afferma Scuderi stanno a «simboleggiare quell’uniformità e quella coesistenza che non ci vede di colori diversi ma facenti parte tutti di una “razza” sola: quella umana».
Per la loro lettura associata, per la loro ossimorica composizione iconografica e il loro ricco significato iconologico, per la loro essenziale ed esaustiva bicromia, per il loro essere audaci testimonianze di fatti storici di natura bellicosa (seppure ben mitigata e velata), e per essere fatti storici esse stesse in quanto intervengono nella lotta politica con il potere delle immagini a smuovere le coscienze attraverso l’arte, e dunque attraverso la cultura, non mi sembra audace o esagerato affermare che Esodi e Origami possano essere accostate alla Guernica di Picasso. Quando nei gabinetti ministeriali si decide o si perpetua con indifferenza la chiusura dei porti o in qualunque altro modo si nega l’accoglienza ai bisognosi, giocando a “scaricabarile” con il ministro dello Stato accanto, i politici e i capi di stato in questione non differiscono molto dagli aviatori tedeschi che hanno freddamente bombardato la cittadina basca.
Le scellerate manovre politiche relative al fenomeno migratorio hanno esattamente lo stesso peso che avrebbero delle bombe se venissero lanciate a mare su un barcone carico di vite umane. Bombardare, siglare e/o appoggiare politiche antidemocratiche e razziste (magari anche solo con un like, un post o un tweet) sono atti di guerra e possibili morti in atto. Nessuno creda di esserne al riparo. Adesso tocca al debole straniero più facile da invalidare, domani chissà, magari ancora alle donne o agli omosessuali. La coscienza civile, in quanto cittadini del mondo, ci impone di scegliere: non si può volere congiuntamente la democrazia e la dittatura, la civiltà e il razzismo, la vita e la morte. Occorre tornare a pensare e ad agire con coerenza. È in quest’azione riflessiva che risiede la vera sopravvivenza, non certo nella connivenza. E l’arte, come accade, ed è accaduto, ce ne dà un’immagine.
L’analisi dei prodotti artistici è una matrice di pensieri e dati antropologici efficaci e imprescindibili in virtù del fatto che l’arte (sia essa immaginaria o realistica, figurativa o astratta), essendo essa stessa espressione di una certa cultura in quanto prevede e rivela lo “spirito del tempo”, assorbe forme, dinamiche e rappresentazioni propriamente culturali, che hanno per fruitori e riceventi tutti i membri di quella cultura e di quel tempo che riescono facilmente ad assimilarle, interpretarle e rimetterle in circolo sotto svariate forme di comunicazione sociale e culturale.
Comunicare per immagini, come perfettamente riescono a fare gli artisti, significa sempre simbolizzare la realtà attraverso vie che, alla fine, connettono sempre l’uomo con il mondo. Avvenimenti complessi, e frequentemente infelici, come lo sono gli esodi, ci portano spesso a essere muti spettatori di fronte a fatti che ci lasciano effettivamente senza parole e rispetto ai quali il silenzio è l’unica espressione possibile. È se è vero, per dirla con Paul Klee, che «l’arte non riproduce il visibile, ma rende visibile», con Esodi e Origami, che si definiscono bene insieme come un’odierna Guernica “di mare”, Scuderi sottolinea l’emergenza epocale, come altre volte accaduto nella storia (si pensi all’Olocausto, senza andare molto lontano nel tempo) di una condizione dove essere umani, fa davvero paura. Forse più paura di tutto il resto. Anche di non esserci più.
Dialoghi Mediterranei, n.33, settembre 2018
Note
[1] in Pablo Picasso, Guernica» in L’arte moderna 1770-1970, Sansoni Firenze, 2002.
[2] Massimiliano Scuderi è nato a Palermo nel 1976 dove vive e lavora. È pittore, graphic designer e 3D generalist. Laureato e specializzato in Arti visive e Discipline dello spettacolo presso l’Accademia delle Belle Arti di Palermo; ha lavorato nell’ambito della formazione professionale e della grafica editoriale. Ha esposto in diverse mostre collettive. Le sue opere sono presenti in numerose collezioni private, soprattutto in Italia e in Spagna. È un artista eclettico, proficuo disegnatore, analista della forma e dell’animazione grafica. In pittura ha sviluppato uno stile particolare e un’iconografia assolutamente distinguibile, fatta di paesaggi surreali e fantastici che, tuttavia, mantengono un dialogo stretto con la realtà. Gli scenari realizzati da Scuderi portano il segno della sua infanzia, durante la quale sviluppa la passione per le costruzioni della Lego. Piccoli mattoncini marmorei trasposti sulla tela come cubetti di ghiaccio accatastati: spesso sono fondamenta, altre volte compongono la stessa figura e quasi sempre sembrano smaterializzarsi per fluttuare in uno spazio parallelo. Nell’arte di Scuderi, illusoria e metamorfica, lo spazio è un passaggio che accenna al reale per andare oltre, nei labirinti dell’immaginazione dove si incontrano strutture asimmetriche e modulari fluide. Allo stato attuale, la sua analisi dell’immaginario predilige la fusione di pittura, disegno e animazione mediante un’indagine informatica collegata alla video arte. Dal 2018 fa parte del Collettivo Neuma, del quale è uno dei creatori.
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Fabiola Di Maggio, dottore di ricerca in Studi Culturali e Visuali, antropologa delle immagini e curatrice d’arte. Si occupa di Arte fotografica satellitare ed è esperta nell’analisi di fenomeni visivi legati alle immaginazioni frattali e apofeniche per le quali ha proposto un’inedita connessione. Nell’ambito dei Visual Culture Studies, e dei Museum Studies specificamente, ha messo in rilievo l’importanza del Cold Visual Turn relativo alle forme e alle dinamiche che negli ultimi decenni caratterizzano la cultura museale contemporanea indicando con il neologismo “musiconologia” una nuova area di ricerca che unisce le prospettive epistemologiche dell’antropologia e dell’iconologia. Dal 2009 si occupa dello studio del concetto di “primitivismo” nell’arte contemporanea e del fenomeno della musealizzazione dell’arte extra occidentale secondo una prospettiva che incrocia le analisi culturali dell’antropologia e quelle estetiche della storia dell’arte. Nell’orizzonte dell’antropologia delle immagini di Aby Warburg, le sue riflessioni sono inoltre rivolte all’indagine dei rapporti formali tra astrazione e figurazione nell’arte occidentale, extra occidentale e preistorica.
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