Stampa Articolo

Una parola nuova per un sentimento antico: restare al paese

 

coveril centro in periferia

di Orietta Sorgi

Ogni individuo è un essere migrante. Fin dalla sua comparsa sulla terra, l’homo sapiens è stato spinto dal bisogno e dal desiderio di allontanarsi, di andare oltre i confini originari per sopravvivere ma anche per conoscere. Nella preistoria i primi cacciatori e raccoglitori praticavano il nomadismo, ma sempre in funzione di un punto dove tornare. Per quanto l’uomo si possa spostare, c’è sempre un “centro” verso cui far ritorno e da cui partire o ripartire: un luogo natìo dove ha fissato un tempo la sua dimora per proteggersi e custodire gli affetti familiari. Un “centro” plasmato dalla cultura e sacralizzato da divinità venute da lontano per tutelarlo. Un “centro” intessuto di relazioni umane, di risorse e lavoro, di pratiche sociali e rifondato sulle memorie dei propri avi.  

La mobilità è dunque strettamente complementare alla permanenza, sono entrambe aspetti indissociabili della condizione umana: è quanto sostiene Vito Teti nel suo ultimo saggio dal titolo La restanza, edito nel 2022 da Einaudi nella collana Vele. Anche se letteralmente questo termine – inventato dall’autore – indica ciò che rimane o si riferisce a chi resta abbarbicato alle proprie radici, in realtà rivela una pluralità semantica piuttosto ampia che include diversi significati, talora ambigui e contraddittori. La restanza non è – come avverte Teti – necessariamente legata ad un luogo geografico preciso, ma esprime un rapporto col tempo che passa, col divenire che muta ogni cosa. Avviene così che anche chi resta avverte il dolore di non ritrovare più i tempi e i luoghi di un passato idealizzato nella memoria. Così come chi fugge. Mentre si è sempre indagato sul dolore di chi parte, lasciando i propri affetti nella speranza di un futuro migliore, non si comprende l’angoscia di chi rimane, di chi assiste inerte al cambiamento, assalito dall’angoscia esistenziale per qualcosa che non c’è più, che l’inesorabile trascorrere del tempo ha spazzato via e non potrà più tornare.

luna-falo-5374eacf-638a-4689-b47f-c56f761ebce5È il dramma di Anguilla ne La luna e i falò di Cesare Pavese, quando ritorna al suo paese dopo esserne emigrato. Niente è più come prima e anche il suo amico Nuto, rimasto fedele al paese, è tormentato dai ricordi perduti dell’infanzia e dallo stesso senso di spaesamento. Anche chi resta non resta mai fino in fondo e fa fatica a comprenderlo. Perché la dimensione del viaggio – continua l’autore – prescinde dallo spostamento oggettivo da un luogo ad un altro sconosciuto. Ci si può spostare da fermi, e restare fermi viaggiando. L’importante è camminare in senso metaforico, verso un altrove che in fondo è dentro di noi. Si viaggia sempre con la fantasia, inseguendo il desiderio di un nuovo mondo, di una nuova vita. Ma la nostalgia dell’altrove riguarda anche chi è rimasto e assiste alla fine di quel mondo in cui è nato, a quelle trasformazioni così profonde e laceranti da farlo sentire straniero in patria.

Ernesto de Martino ha espresso lucidamente quel senso di smarrimento che avviene quando si perde il proprio centro, la propria patria culturale. «Siamo tutti altrove – osserva l’autore – siamo tutti esuli. In esilio da un tempo che più non ci appartiene, da luoghi che ci sono stati sottratti o da cui ci siamo allontanati…  Nostalgia, esilio, inquietudine sono la terra di mezzo di quelli che sono partiti e di quelli che sono rimasti. Non si resta, perché in un mondo in perpetuo movimento anche chi resta è in viaggio. Non si resta mai del tutto e non si parte mai del tutto. La vita è sempre altrove» (ivi: 83-84).

Sia il mondo antico che la modernità hanno celebrato il mito dell’Ulisse errante, che da esule sogna di tornare in patria ma, una volta giunto nella casa di Itaca dove Penelope lo attende, è preso nuovamente dal desiderio di ripartire. Così in Omero, in Dante, in Joyce e in Levi nelle loro varie interpretazioni. Ma in realtà bisogna fare i conti con un Ulisse che vive dentro di noi, in tutta la sua complessità, le contraddizioni, i sogni e le delusioni del nostro tempo. La restanza, come la nostalgia e la malinconia, non è un fatto oggettivo, ma uno stato d’animo, uno struggimento che ci spinge verso l’altrove.

Con questa consapevolezza, Teti si rivolge ora agli ultimi della sua terra, a coloro che sono sopravvissuti nei borghi abbandonati della sua Calabria, devastata non soltanto dall’emigrazione oltreoceanica e interna, ma da catastrofi naturali come frane, alluvioni e terremoti, che hanno determinato lo spopolamento di tante zone e il fenomeno dei paesi doppi, dalle aree collinari in rovina alle zone costiere. E si interroga sulla triste condizione di chi è rimasto in luoghi che non sono più luoghi, piuttosto non luoghi o non ancora luoghi, delineando una nuova “geografia del dolore”.  Il suo sguardo è incentrato ora non soltanto su coloro che sono emigrati per sempre in America, ma anche su coloro che son tornati o che non sono mai partiti.

Una riflessione che lo studioso ha maturato durante l’esperienza del lockdown nel suo paese d’origine e nella casa dove è rimasto per tutta la vita, sebbene l’esperienza di antropologo lo abbia portato mentalmente lontano. Nel volume ripercorre le grandi trasformazioni del Novecento, la crisi delle campagne, soprattutto nel Meridione d’Italia, l’inesorabile declino di una cultura contadina millenaria, basata sulla permanenza e sulla sacralità del grano, il disgregarsi del tessuto originario dei centri e dei paesaggi. L’estensione smisurata e caotica delle periferie urbane a danno dei piccoli borghi interni che si sono andati via via spopolando.

41jtds-ozglIntravede tuttavia i primi segni di cambiamento verso stili di vita alternativi ai modelli urbani e osserva sempre più numerosi i casi di ritorni a casa, soprattutto nelle aree del Sud Italia. Recentemente la drammatica esperienza della pandemia ha posto l’umanità intera di fronte ad un’emergenza planetaria che ha messo a rischio la sopravvivenza stessa della specie. Bisogna fermarsi, la natura stessa ha posto un limite allo sfruttamento continuo delle sue risorse. Potrebbe essere già troppo tardi, come sostiene Franzen, ma l’improvvisa circolazione di virus sconosciuti, l’eccessiva mobilità della gente, l’inquinamento dei trasporti aerei, il surriscaldamento del globo, hanno imposto l’urgenza di un sistema alternativo, di un’inversione di tendenza. Il lockdown sotto il motto di “io resto a casa” ha fatto riflettere il mondo intero su soluzioni diverse dalla socializzazione di massa e dai consumi edonistici sfrenati che hanno caratterizzato l’attuale stile di vita dei popoli occidentali.

La considerazione della restanza in senso inclusivo, dinamico e propositivo può a questo punto, tornare opportuna e suggerire nuove proposte per un corretto ripopolamento dei borghi.  Non bisogna cadere tuttavia né in una visione idilliaca e immobilistica del mondo contadino né in un atteggiamento apocalittico e nichilista verso un passato irrimediabilmente finito, senza alcuna possibilità di salvezza.  Si dovrebbe avere cura dei borghi ricostruendone la memoria e guardando al passato per dare continuità al presente e al futuro. Senza voler celebrare un elogio della povertà, basterà richiamare quanto ha scritto Pasolini sulla sobrietà della civiltà del pane, in cui tutto era considerato necessario e mai superfluo, così come la vita stessa. La povertà conferiva il giusto valore alle cose, mentre il consumismo al contrario, rendendo tutto superfluo, finiva per considerare superflua la vita. Anche Goffredo Parise, guardando alla modernità, descrive il consumista ossessivo come un bulimico nevrotico che s’ingozza senza assaporare il gusto e i sapori dei cibi, vanificando le differenze e omologandosi nella piattezza dei linguaggi televisivi.   

61yy7ufgmzlL’antropologo deve farsi parte attiva e orientare le nuove tendenze, deve saper interpretare i cambiamenti e le permanenze oltre ai movimenti migratori. Del resto, la nuova antropologia ha mutato da tempo il suo oggetto d’indagine, non cerca più terre lontane e primitive da raccontare né i frammenti della tradizione dentro le società complesse delle economie industriali. L’antropologia – sostiene Teti – deve farsi politica e indicare nuove pratiche sociali. Deve guidare, avendone cura, i processi di ripopolamento dei borghi abbandonati. Non basta un turismo “mordi e fuggi”, né le offerte di case a un euro agli stranieri. Bisogna ripristinare quel filo di continuità che lega il passato al presente attraverso il recupero della memoria. Non in chiave retrospettiva, come si è detto, ma guardando avanti per rigenerare il tessuto sociale e produttivo di quei piccoli centri, nel tentativo di riequilibrare il rapporto fra città, periferie e paesi. Bisogna creare comunità, sono parole dell’autore.

Si tratta, in definitiva, di un libro intenso e struggente che di recente ha ricevuto il Premio letterario San Giovanni in Fiore in quanto espressione di un «…canto appassionato e anche doloroso perché racconta il rammarico della fine del mondo agropastorale durato millenni, della nostra gente, e la comparsa di una forma indistinta di comunicazione sociale impersonale».  Vito Teti è stato interprete, osservatore e protagonista diretto di quelle trasformazioni che hanno coinvolto non soltanto la Calabria ma tutto il Sud Italia. Ha vissuto in prima linea il dramma dell’emigrazione attraverso l’esperienza del padre, partito per il Canada quando lui aveva otto anni. Ha assistito al tramonto della cultura contadina e al cambiamento dei luoghi a lui più cari. Ha interrogato le rovine e le macerie dei piccoli centri devastati dall’incuria e da una mancata tutela del territorio. E tuttavia, nel pessimismo cosmico dei nostri tempi, individua nella restanza una via d’uscita, un filo di speranza per il futuro, esortando gli uomini a camminare.

Dialoghi Mediterranei, n. 57, settembre 2022 
Riferimenti bibliografici
De Martino, Ernesto
1977    La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Torino, Einaudi
Franzen, Jonathan
2020    E se smettessimo di fingere?, Torino, Einaudi
Parise, Goffredo
1974    Il rimedio è la povertà, in “Corriere della sera”, 30 giugno
Pasolini, Pier Paolo
2008    Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino, in Id., Scritti corsari, Milano, Garzanti
Pavese, Cesare
1995    La luna e i falò (1950), Torino, Einaudi
Teti, Vito
2020    Nostalgia. Antropologia di un sentimento del presente, Bologna, Marietti editore

_____________________________________________________________ 

Orietta Sorgi, etnoantropologa, ha lavorato presso il Centro Regionale per il catalogo e la documentazione dei beni culturali, quale responsabile degli archivi sonori, audiovisivi, cartografici e fotogrammetrici. Dal 2003 al 2011 ha insegnato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Palermo nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici. Tra le sue recenti pubblicazioni la cura dei volumi: Mercati storici siciliani (2006); Sul filo del racconto. Gaspare Canino e Natale Meli nelle collezioni del Museo internazionale delle marionette Antonio Pasqualino (2011); Gibellina e il Museo delle trame mediterranee (2015); La canzone siciliana a Palermo. Un’identità perduta (2015); Sicilia rurale. Memoria di una terra antica, con Salvatore Silvano Nigro (2017).

______________________________________________________________

 

 

 

 

 

   

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Cultura, Letture. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>