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Una poesia vi seppellirà. Rap, migrazioni e periferie, tra New York e la banlieue francese

NY, Il Bronx nel 1956

NY, Il Bronx nel 1956

di Flavia Schiavo [*] 

New York City e le origini del Rap: potere al ritmo, potere alla parola 

L’11 agosto del 1973, il Day One del Rap, a New York City, al 1520 di Sedgwick Avenue, nel South Bronx, Kool Herc (Clive Campbell), un giovanissimo DJ di origine giamaicana, organizzò il primo “block party” sancendo l’inizio di una tra le “pratiche” di un’innovativa forma contro-culturale “nera”, l’Hip Hop, che stava nascendo in quegli anni. Il Rap, sorto durante quelle feste organizzate nelle strade del quartiere o negli spazi comuni dei condomini, e poi in numerosi locali, era infatti parte costitutiva di questa nuova cultura, che comprendeva oltre al mc’ing (il Rap) anche il writing, il b-boyng cioè la breakdance, il djing (il mixare i dischi) cui andava aggiunta la knowledge (la conoscenza alla base del processo di innovazione, relativa al passato musicale cui ispirarsi). Matrici di tale espressione musicale furono, infatti, il R&B, il Soul, il Funk e il Jazz, e i grandi artisti neri, tra cui James Brown [1].

Il Rap, però, oltre a caratterizzarsi come una forma espressiva eminentemente nera, operava una doppia rivoluzione: 

-  da un lato agendo come una tattica e una “pratica” interna a una cultura svantaggiata e popolare (in quella fase in rivolta e reazione), modificava i rapporti di potere e il ruolo dei gruppi più emarginati, costruendo sia comunità, prima più disgregate, poi più resilienti, dotate di una specifica “voce” reattiva, sia uno spazio fisico e simbolico diverso, e quindi ri-territorializzando i luoghi;

-  dall’altro facendo musica senza strumenti, grazie all’uso coordinato di due vinili che, fatti suonare su due piatti, attraverso lo “scratch”, e l’utilizzo del mixer, di doppi amplificatori e di speciali drum machine come la Ronald TR-808, producevano una base che sfruttava soprattutto la ritmica del basso e della batteria. 

Su questa base ritmica, spesso in loop, i DJ scoprirono che era possibile parlare, lasciando in seguito ai cosiddetti MC (Master of Ceremonies) la parola che, in breve, dopo esser stata utilizzata per incitare le persone alla danza e alla partecipazione, divenne una arte ritmica, chiamata appunto Rap che, in certi casi, oltre a incitare alla danza, veicolava narrazioni specifiche e contenuti denotativi del quotidiano vissuto dagli abitanti dei quartieri disagiati.

 Sadgwick Avenue


Sadgwick Avenue

In quegli anni, tra il ’60 e i ’70, la cultura musicale stava producendo due forme differenziate, entrambe urbane che, in un certo senso, avevano origini comuni. Ambedue di protesta, caratterizzarono la scena culturale a NYC. Da un lato il Rap fortemente radicato al territorio e alla cultura nera locale, dall’altro la Disco music. La prima, parte sostanziale della cultura urbana nera situata nel Bronx, l’altra più patinata e legata alla compagine bianca, a partire dalle sperimentazioni di David Mancuso, un DJ che può essere considerato il padre fondatore della “disco” in America, nata ne The Loft, all’inizio degli anni ‘70, un club privato, al n. 647 della Broadway, a Manhattan.

Tra i ’60 e i ’70 l’onda lunga dello schiavismo, abrogato da più di un secolo (1865), segnava ancora tutta l’America. Anche le città più progressiste, come New York, erano fortemente contrassegnate da politiche e comportamenti discriminatori nei confronti dei neri. Le azioni coordinate, di grande rilievo, portate avanti dal movimento del Black Power, si scontravano non solo con tali comportamenti espressi nel quotidiano, ma con le scelte urbane e sociali dei governi locali, che prevedevano incentivi, trasformazioni e progetti tesi a produrre effetti tutt’altro che egualitari: favorendo la popolazione bianca e svantaggiando la popolazione afroamericana, di fatto gravata da macro e micro disparità in ambito sociale  e lavorativo e riguardo al “diritto alla città” che, come H. Lefebvre aveva lucidamente scritto, prevedeva la partecipazione e il diretto intervento dei singoli e delle comunità, produttrici di spazio e riequilibrartici delle dinamiche del capitale.

 Il Bronx, macerie ed edifici abbandonati  negli anni '70


Il Bronx, macerie ed edifici abbandonati negli anni ’70

Il movimento Black Power, termine coniato nel 1966 da Kwame Ture, nato nel 1941, noto come Stokely Carmichael [2], attivista trinidadiano-statunitense, ebbe il suo apice proprio tra gli anni ‘60 e i ’70. In quella stagione, in cui era assai poco sviluppato ogni dialogo interculturale, si stavano mettendo in discussione alcuni principi, come quelli dell’integrazione razziale, criticata anche per gli aspetti omologanti, mentre alcuni leader del movimento dei diritti civili degli afroamericani, come Martin Luther King, si battevano per i diritti dei neri, promuovendo una protesta organizzata e non-violenta. Il pastore protestante e attivista, assassinato il 4 aprile 1968, ebbe un ruolo fondamentale nella formazione delle pratiche di disobbedienza civile e di resistenza attiva dei neri americani [3].

Già a metà degli anni ’50 tali pratiche concrete, che puntavano anche a una rivendicazione delle culture di origine e di quella cultura afroamericana generatasi dalla contaminazione con il contesto statunitense, iniziarono ad avere seguito e risonanza mediatica su scala mondiale. Tra esse alcune ebbero grande ripercussione ed effetto: nel 1955 Rosa Parks (poi arrestata), rifiutò di cedere il proprio posto sull’autobus a un giovane bianco, dando vita a Montgomery (capitale dell’Alabama) al boicottaggio dei bus e mettendo in evidenza quanto non solo le scelte governative ma i comportamenti quotidiani cancellassero i diritti di una porzione enorme di cittadine e cittadini americani. Nel 1960, in concomitanza della formazione del movimento studentesco, a Joseph Mcneill, studente afroamericano di un college del Carolina del Nord, fu rifiutato il servizio alla tavola calda, scatenando una protesta diffusasi in circa cinquanta città degli States. Nel 1968, ai Giochi Olimpici di Città del Messico, Tommie Smith vincitore dei 200 metri piani (segnando il record mondiale) insieme al suo connazionale John Carlos (terzo classificato), alzarono un pugno chiuso guantato di nero per protesta contro il razzismo perpetrato dai bianchi.

Questi episodi, che rappresentano solo una piccolissima parte di una lotta capillare condotta in quegli anni, nonostante le reazioni violente e repressive, danno la misura della capacità di aggregazione e coordinamento della Black Community, unitamente alle azioni promosse da Martin Luther King o da Malcom X, anch’esso grande leader degli afroamericani. Nonostante le azioni organizzate dal movimento le città americane erano però teatro di segregazione, di conflitti non del tutto “esternalizzati” e di forti sperequazioni dovute a fattori storici, a condizioni esogene e a scelte di gestione urbana. Tra le questioni sociali e organizzative rilevanti si denunciavano: la mancanza di accesso ai servizi sanitari e scolastici per le popolazioni con reddito inferiore (tra essi molti afroamericani), la mancanza di efficaci “ascensori sociali”, la carenza di finanziamenti alle scuole pubbliche, la mancata realizzazione di servizi urbani, comunque pressoché inaccessibili ai neri, la ghettizzazione intenzionale, come si dirà più avanti, di alcuni ambiti cittadini. Tra essi il Bronx a NYC e il South Bronx, in particolare, gravato da difficili condizioni esito di scelte e di politiche complesse e strutturate nel tempo.

Veduta aerea del Bronx negli anni ‘70

Veduta aerea del Bronx negli anni ‘70

Anche alcuni intellettuali bianchi, come Marshall Berman [4], nativo del Bronx, misero in evidenza vari eventi critici, tra cui la realizzazione di una grande autostrada urbana che sventrò il quartiere, parte dei progetti che, secondo gli amministratori newyorchesi, avrebbero dovuto modernizzare il distretto e connettere NYC al resto del Paese. Per comprendere l’impatto di quella profonda lacerazione, non solo nel South Bronx, va sottolineato che i sistemi di collegamento furono, insieme alla proprietà immobiliare, uno strumento cardine della trasformazione nazionale anche prima dei provvedimenti che il pianificatore “haussmanniano” Robert Moses aveva promosso, tra cui il Cross Bronx Expressway, una imponente highway. Tra gli interventi precedenti nel distretto va citato, infatti, il Grand Boulevard and Concourse, un’arteria lunga 8.4 km che attraversa numerosi quartieri, tra cui Bedford Park, Concourse, Highbridge, Fordham, Mott Haven, Norwood e Tremont. Inizialmente progettato da Louis Aloys Risse, il boulevard fu costruito tra il 1894 e il 1909, e poi ampliato nel 1927, contestualmente alla costruzione di condomini sui lati della Avenue che nel 1939 fu chiamata “la Park Avenue della middle class del Bronx”, prima dell’inizio della suburbanizzazione e della fuga della classe media dal distretto.

Il Cross Bronx Expressway fu, come già anticipato, uno specifico intervento del “governo urbano Moses”. Porzione dell’Interstate 95, il Cross Bronx inizia dall’Alexander Hamilton Bridge sul fiume Harlem, dove la Trans-Manhattan Expressway prosegue a Ovest attraverso Upper Manhattan fino al George Washington Bridge. Concepita da Moses e costruita tra il 1948 e il 1972, con un finanziamento di 40 mln di dollari, è stata la prima highway sita in un’area urbana densa negli Stati Uniti.

Tale opera di trasformazione, era adeguata allo schema socio-ideologico, formale e funzionale di amministratori come Roger Starr, oltre che di Robert Moses[5] l’amministratore che dagli anni ’30 circa aveva acquisito sempre maggior potere gestionale e burocratico. Oltre a modificare interi ambiti urbani, la highway cancellò sia molte piccole imprese locali, che alcune tra le reti delle comunità del distretto, il quale, da luogo di residenza “mista”, (middle class e working class), divenne un ghetto marginale in degrado, caratterizzato da enormi e reiterati tenements e, in seguito, da isolati ridotti in rottami e detriti causati dall’abbandono e dai numerosi roghi, di cui si dirà più avanti. Moses, con la highway del Bronx, aveva portato a compimento le politiche federali che dal 1956 videro l’emanazione del Federal Aid Highway Act, firmato da Dwight D. Eisenhower e sponsorizzato da membri del Congresso, tra cui il democratico George Hyde Fallon.

Il “taglio” della Cross Bronx Expressway

Il “taglio” della Cross Bronx Expressway

L’atto, noto come National Interstate and Defense Highways Act, fu finanziato da 25 miliardi di dollari, un ingente importo prelevato da fondi destinati alla difesa, emanati durante il decennio successivo. In quella fase si costruirono circa 41.000 miglia (circa 66 mila km) di strade a grande traffico che, dopo la costruzione della rete ferroviaria (dal 1860 circa al 1890), rappresentarono la più grande opera pubblica nordamericana edificata fino allora [6]. La rete stradale, oltre a segnare l’intera nazione, collegava la maggior parte delle basi aeronautiche (assicurando una pronta risposta nel caso di guerre convenzionali o nucleari e accorciando enormemente i tempi di percorrenza tra gli Stati). Il budget fu gestito grazie a un fondo fiduciario federale che garantì il 90% dei costi, lasciando ai singoli Stati solo il 10% degli importi da erogare prevedendo che, grazie ai pedaggi, alle tasse sul carburante, sulle nuove automobili e sui camion e all’indotto economico connesso, si sarebbero non solo recuperati enormi proventi, ma si sarebbero messi in circolo ingenti quantità di danaro, attivando nuovi posti di lavoro.

La gigantesca rete autostradale incentivò ulteriormente la dispersione insediativa che stava crescendo, soprattutto nella fascia atlantica, descritta da Jean Gottmann nel 1961. Tale suburbanizzazione [7], promossa da politiche generali (es. da R. Nixon, latore di uno specifico soft power, come si dirà più avanti) era caratterizzata da vaste aree a bassa densità, costituite da case unifamiliari circondate da piccoli giardini privati dove si insediava la middle class prevalentemente bianca [8] che aveva, tra l’altro, facile accesso ai mutui erogati dalle banche, sostanzialmente preclusi ai neri.

Il suburbio, simbolo ed effetto del soft power americano fu favorito, infatti, anche da facilitazioni indirizzate alla classe media bianca. Furono quelli gli anni della segregazione residenziale [9] e dei cosiddetti redline e redlining, pratica governativa quest’ultima attraverso cui si negavano mutui contratti soprattutto in alcuni ambiti urbani. Ciò provocò effetti pesanti su alcune fasce più fragili e disagiate della popolazione residente, per il razionamento del credito, non accessibile, a causa delle redline che circoscrivevano specifici ambiti (segnati appunto in rosso) dove le banche non concedevano i prestiti. 

Il soft power (termine coniato nel 1990 da un professore di Harvard, di indirizzo liberale, J. Nye), indica il potere di attori nazionali o internazionali applicato non unicamente sulle risorse materiali, ma anche su quelle immateriali e sulla capacità di indirizzare comportamenti. Attraverso la seduzione sottile e penetrante di alcuni modelli culturali, e attraverso le pratiche o le scelte politiche.

Funzionale all’interconnessione delle grandi città, il sistema delle autostrade fu pensato, in alcuni casi (es. a New York) contestualmente ad alcune opere di pianificazione anche precedenti [10], a una rete intra-urbana che facilitasse il traffico veicolare veloce e inducesse un incremento nell’acquisto di autovetture [11], assecondando le trasformazioni interne dei quartieri e la suburbanizzazione. A New York, tale prassi generava una struttura urbana opposta a quella prodotta sino a quel momento, e un diverso modello abitativo e culturale, mentre anche i settori pubblicitari promuovevano l’automobile, portando avanti il progetto di Henry Ford (un’auto per ogni americano), concepito ai tempi della mitica Model T.

Block party al Park Jam, South Bronx nel 1984

Block party al Park Jam, South Bronx nel 1984

Se in aree extraurbane sorgevano estesi ambiti residenziali abitati dai bianchi, in altri ambiti interni alle città nascevano quartieri voluti da pianificatori come il già citato Roger Starr, l’influente e oscurantista assessore al social housing, promotore di numerose politiche che puntavano sia a edificare case popolari (ghetti di bassa qualità architettonica, solo in termini formali ispirati ai modelli del Movimento Moderno), sia ad abbandonare aree problematiche come il South Bronx, estromettendole attraverso specifici tagli finanziari e l’abolizione di alcune linee della metropolitana. Gli interventi di social housing [12], costituiti spesso da “superblocks” o da condomini multipiano tutti uguali tendevano, ulteriormente, a segregare gli abitanti in enclave chiuse, isolandoli economicamente e socialmente.

Se da un lato le soluzioni proposte da Starr puntavano a rimuovere le questioni urgenti con il Planning Shrinkage (ritiro programmato), isolando quartieri come il Bronx, dall’altro ulteriori soluzioni pensate a livello governativo producevano progetti generali mirati a un rinnovamento tutt’altro che etico: Robert Caro [13] ci racconta, infatti, che già nel 1948 Moses incontrò un suo ex compagno a Yale, il senatore repubblicano Robert A. Taft, con cui discusse i dettagli di un nuovo programma federale di “slum clearance”, orientato al rinnovamento urbano di alcuni quartieri, come il Bronx, considerati da Moses “baraccopoli”. Prima che il Congresso approvasse, l’anno seguente [14], un Atto per affrontare la questione del public housing, il sindaco di NYC, William O’Dwyer aveva nominato un comitato per risolvere in termini assolutamente unilaterali il problema degli slums, affidando a Moses il ruolo di presidente. Attraverso quel comitato, Robert Moses controllava il rinnovamento urbano a New York, attuando un programma più esteso che in qualsiasi altra città americana. Che tra l’altro ebbe effetti rovinosi sulla Black Community, cui Moses era profondamente avverso [15].

Gli slums newyorchesi erano presenti sia in aree centrali (es. a Manhattan, a Lower East Side), sia in vasti ambiti tra cui il Bronx e il South Bronx, costituiti da interi complessi di tenements (edifici multipiano a torre). Autori come l’iconico scrittore nero James Baldwin affermarono a chiare lettere in qual misura il rinnovamento urbano, condotto da Moses, coincidesse con la rimozione dei neri dai luoghi di residenza, sostenendo quanto: «Urban Renewal means Negro Removal» [16]. La politica dello slum clearance di Moses, infatti, puntava a mandare via la comunità nera per poi demolire interi slums, riqualificando solo in apparenza, attivando pesanti dinamiche di gentrification, espungendo le comunità afroamericane e quelle più povere dai quartieri di residenza, mentre si cancellavano tessuti sociali e fisici storici, come era stato fatto con l’autostrada urbana del Bronx.

DJ, scratching e drum machine nel Bronx

DJ, scratching e drum machine nel Bronx

Un documentario di Matt Tyrnauer, Citizen Jane: Battle for the City, rende più chiara la questione, mostrando esempi di quartieri nati negli Stati Uniti, tra essi Pruitt-Igoe, un enorme complesso costruito tra il 1954 e il 1955 a Saint Louis, nel Missouri, progettato dell’architetto Minoru Yamasaki, autore delle torri del World Trade Center a New York City. Dopo la conclusione dei lavori, le condizioni del quartiere iniziarono a decadere, mentre si manifestava una preoccupante crescita della micro-criminalità. Nel 1972 un primo edificio del complesso fu demolito mentre i restanti trentadue furono rasi al suolo nei due anni successivi. Tale emblematico fallimento provocò un intenso e sofferto dibattito in campo internazionale, ponendo sotto esame il modello residenziale e le politiche urbane che avevano generato siffatto esito.

Gli edifici dei quartieri ghetto (come Pruitt-Igoe) erano strutturati in superblocks, grandi isolati che necessitavano dell’uso dell’auto, sulla cui ipertrofia si concentrava la critica di autrici come Jane Jacobs che, con la sua opera e con il suo costante attivismo, contrastò efficacemente il “modello Moses”. L’urbanista, infatti, sosteneva che l’eccessiva presenza delle automobili, delle highways intra-urbane, e degli spazi privatizzati in città avrebbe snaturato i luoghi allontanando le persone dagli spazi pubblici, intesi come spazi sociali di aggregazione.

Il quartiere Pruitt-Igoe, nel 1969

Il quartiere Pruitt-Igoe, nel 1969

I quartieri come il South Bronx, dunque, erano in quegli anni caratterizzati da forti e contraddittorie dinamiche endogene ed esogene. Il crollo economico del distretto, collegato pure alla crisi industriale del settore manifatturiero, fu attribuibile anche al transito alla produzione basata sulla tecnologia, e vide il trasferimento di numerosi comparti industriali, come ad esempio, quello relativo alla produzione di giocattoli, prima localizzata per il 40% nel Bronx. Questo settore altamente produttivo, così come altri, già dagli anni ’70, si erano trasferiti altrove.

Le politiche di Starr, in particolare con il già citato Planning Shrinkage, miravano nel Bronx a ridurre i servizi di base, a chiudere le scuole, tagliando l’illuminazione pubblica in aree già degradate spingendo, così, all’abbandono e facilitando lo slum clearance di Moses. Tali politiche interrelate a numerosi altri fattori, avevano trasformato il distretto in un luogo spettrale dove molti giovani erano impossibilitati a raggiungere le scuole, troppo lontane per la riduzione o abolizione delle corse dei bus e della metro. Nel contempo lo squarcio della Cross Bronx Expressway aveva provocato la distruzione di circa 60 mila edifici, mentre circa 170 mila abitanti erano stati sfrattati e ricollocati in aree prive di servizi e reti fognarie. Le vecchie abitazioni avevano subìto un deprezzamento a danno anche dei vecchi proprietari, mentre il South Bronx veniva occupato dai nuovi immigrati che in gran parte avevano lavorato alla costruzione della autostrada urbana.

In quella fase, fine anni ’60, numerosi conflitti interetnici tra gang giovanili segnavano le strade, mentre gli interventi della polizia locale esprimevano intransigenza e durezza nei confronti non solo dei neri. Le gang in guerra reciproca, fortemente territorializzate e in una certa misura gregarie delle famiglie, controllavano i singoli isolati. Intorno al 1971 l’escalation della violenza spinse i capi delle bande a organizzare The Hoe Avenue Peace Gangs Meeting, avvenuto l’8 dicembre 1971 al Boys Club. Dopo questa azione gli scontri diminuirono, mentre crescevano sia alcune forme di protesta, come il graffitismo (prima utilizzato per marcare i confini territoriali di pertinenza delle bande, poi trasformato in un movimento di espressione [17] e di rottura con le ideologie delle categorie forti e degli stakeholders, e in seguito con il mercato tradizionale dell’arte), sia una coscienza collettiva rispetto alle condizioni di vita estremamente problematiche e contraddistinte, peraltro, dalla diffusione di droghe pesanti e letali, come il crack. In quella stagione, difficile per l’intera città di NY in crisi fiscale e quasi in bancarotta nel 1975, il Bronx era conosciuto come “ghettos of ghettos”, “the stain”, “the cancer”, “the city of despair”, uno stigma che la classe politica più reazionaria e alcuni film confermavano pianamente [18].

Lo stigma [19], screditante, attivo a livello internazionale, e la retorica negativa sul Bronx venivano confermati non solo dalle scelte politiche, ma dalla diffusione mediatica di notizie parziali e dai fittizi interventi dei governanti. Nel 1977 ad esempio Jimmy Carter visitò il distretto e nel 1980 Ronald Reagan, candidato alla Casa Bianca, competitor e vincitore nella battaglia elettorale con lo stesso Carter, si recò nel quartiere rimarcando gli errori e i programmi, a suo parere fallaci, che la porzione progressista aveva proposto per opporsi al declino del distretto. 

La fase degli anni ‘70, nota come “Decade of fire” fu, peraltro, contrassegnata da continui incendi che contribuirono a gentrificare quasi 250 mila persone cresciute tra le macerie, devastando l’80% circa dell’intera area urbana. Il messaggio mediatico puntava ad attribuire le colpe dei roghi agli abitanti, come se gli incendi fossero meri atti vandalici compiuti per ottenere l’assegnazione di case popolari. Essi, invece, nascevano dall’intersezione e dagli effetti incrociati tra le condizioni reali del distretto, gli eventi storicizzati, le politiche locali e le scelte federali. E quasi sempre erano appiccati da ragazzini pagati pochi dollari dai proprietari che, riscuotendo affitti deprezzati e non investendo più in opere di manutenzione, optavano per tali scellerate soluzioni, destinate a consentire l’incasso del premio dell’assicurazione. Sin quando le compagnie assicurative cambiarono le condizioni contrattuali, non pagando più gli indennizzi per i danni causati dalle fiamme.

The Hoe Avenue Peace Gangs Meeting

The Hoe Avenue Peace Gangs Meeting

Gli incendi, quindi – solo nel 1974 ve ne furono più di 10 mila – non erano frutto di singole scelte, ma erano il precipitato di una serie di fattori co-agenti, che influenzavano le decisioni individuali. Sia sui proprietari delle case sia sui cosiddetti piromani. Nel volume South Bronx Rising. The Rise, the Fall, and Resurrection of American City[20], sono raccolte alcune testimonianze dalle quali si evince quanto tali incendi fossero programmati, per le ragioni già espresse, facendo leva sul desiderio degli abitanti di poter accedere all’housing sociale. Lo stesso stigma alimentato dall’incremento della criminalità, dalla diffusione del crack, dagli incendi, divenne poi un mezzo utile all’establishment per ignorare le proprie responsabilità e per evitare di agire in modo sistemico. Soprattutto durante e dopo la crisi finanziaria del 1975, si iniziarono a tagliare i servizi antincendio in zone dove questi sarebbero stati indispensabili. Roger Starr si espresse chiaramente affermando che l’unica possibilità perseguibile era l’abbandono di quei quartieri ritenuti da lui irrecuperabili. Se, come è noto, numerosi studi testimoniano che l’offerta e l’efficienza dei servizi condizionino l’andamento e i movimenti demografici, appare chiaro, quindi, che tagliare i servizi di base, secondo la logica di Starr, equivaleva ad attivare fenomeni indotti che Starr stesso definiva “spontanei” e che avrebbero condotto allo svuotamento dei quartieri, perseguendo lo slum clearance caldeggiato e promosso da Moses. 

In questo scenario post bellico abitavano afroamericani, alcuni portoricani (più stabilmente presenti a Brooklyn e, soprattutto, ad Harlem) e giamaicani. Interi ambiti furono via via distrutti, tra essi Charlotte Street o il quartiere di Soundview, che nel 1970 contava più di ottocento edifici, ma all’inizio degli anni ’80 ne annoverava in piedi solo nove.

DJ Kool Herc

DJ Kool Herc

Il DJ Kool Herc (Clive Campbell), con la sua famiglia, faceva parte dell’ultima ondata di migranti, prima insediatisi nel Western Bronx. Di origine giamaicana, i Campbell erano arrivati nell’America del Nord nel 1967 e si erano appunto insediati in un tenement di Sedgwick Avenue al 1520, molto vicini alla Cross Bronx Expressway, in prossimità dello Yankee Stadium. Clive frequentava una High School, praticava il writing, molto diffuso dopo il meeting di pacificazione dell’8 dicembre 1971. Numerosi gruppi in quel momento operavano, sui muri, sui vagoni della metro, e Clive faceva parte di una importante crew, quella degli ExValdals, guidata da Dino Nod e da altri esponenti di rilievo del writing: Wicked Gary, Kings of Kools, Wicked Wesley, Conrad is Bad, Flin, Big Time Glass-Top, cui si aggregò anche Phase 2 [21] (Michael Lawrence Marrow), un afroamericano nativo del Bronx tra i fondatori del wild style, insieme a Tracy 168.

Phase 2 fu un artista iconico, writer, rapper e b-boy. Iniziò a dipingere nel 1971. Nel 1974 fondò un collettivo di writer, la United Graffiti Artists, ed ebbe un ruolo fondamentale nella formazione della cultura Hip Hop, ispirando numerosi rapper e partecipando a spettacoli, tra cui uno organizzato dalla promoter Kool Lady Blue, nel 1982. L’evento fu tenuto a Chelsea (a Manhattan) quando l’intera scena mondiale aveva oramai riconosciuto sia il Rap che l’Hip Hop; in questa, come in occasioni simili, i writer, oltre a produrre graffiti e street art, curavano la grafica dei volantini e si esibivano sul palco. Sempre nel 1982, Phase 2, con altri artisti del Roxy NCY, un locale di Chelsea dove si era tenuto il concerto del 1982, pubblicò due singoli: Beach Boy, con Barry Michael Cooper, poi parte della colonna sonora del film New Jack City [22], e The Roxy, con Material, e con il DJ Grand Mixer DXT.

Veduta aerea della Cross Bronx Expressway, in costruzione nel 1960

Veduta aerea della Cross Bronx Expressway, in costruzione nel 1960

Gli anni in cui la famiglia di Kool Herc arrivò a NYC la musica giamaicana non era ancora esplosa sulla scena mondiale, Bob Marley infatti irromperà nel 1975 sul mercato internazionale. Inizialmente i giovani arrivati da Kingston furono attratti dai musicisti neri come il già citato James Brown, dai brani funk o R&B e, abitando al Bronx o in altre enclave nere come Harlem (a Manhattan), frequentavano i block e gli house party che la comunità nera organizzava, per strada o negli spazi comuni dei condomini, non potendo frequentare i club dove si ballava la disco, nata in origine in seno alla comunità gay (più abbiente). Come nel Rap anche nel caso della disco music i brani, mixati dai DJ, producevano un continuum musicale senza interruzioni. V. Aletti, un giornalista dell’importante magazine «Rolling Stone», nel 1973, ne scrisse, mentre nel 1977 il regista J. Badham girò un film di enorme successo, La febbre del sabato sera, (Saturday Night Fever [23]) che, oltre a lanciare J. Travolta, mostrava la vita dei giovani bianchi americani, molti di origine italiana, nelle discoteche dove non entravano i neri, sia i ragazzi che le ragazze.

La festa dell’11 agosto, un “back to school party”, fu allestita oltre che da Kool Herc, dalla sorella del DJ, Cindy [24]. Kool, assiduo frequentatore delle feste organizzate dai portoricani (es., i Ghetto Brothers), aveva potuto notare che il break, cioè la parte strumentale delle percussioni, era quella più amata dal pubblico. Battezzata come “the get-down party” fu da Kool Herc isolata e suonata a ripetizione, utilizzando un’altra copia del disco su un altro piatto, facendo andare in loop la serie ritmica delle percussioni.

Phase 2

Phase 2

Quel giorno di agosto, The Day One, Kool Herc coinvolse Coke La Rock, come MC, Master of Cerimony, una specifica figura che animava la festa, parlando ritmicamente sulla musica, mentre frasi come “You rock and you don’t stop”, incitavano i ballerini a non fermarsi, mentre i b-boy, cioè i dancer di breakdance si esibivano. Quel party fu l’inizio di una lunga e intensa stagione, ma dal 1974 circa le feste iniziarono a svolgersi, contando oramai tanti partecipanti, per strada, ad esempio a Cedar Park, nel Bronx o in alcuni locali, come il Twilight Zone o l’Hevalo dove Kool Herc promosse brani cult, come Apache, della Incredible Bongo Band [25]. Quel brano era utilizzato dal DJ come incipit del cosiddetto Merry-Go-Round [26] (la giostra) che in origine impiegò un altro pezzo cult, di J. Brown, Give it up or turnit a loose (con il suo refren, “Now clap your hands! Stomp your feet!”). La tecnica del Merry-Go-Round, influenzò altri DJ, tra cui Grand Master Flash o Grand Wizard Theodore, che svilupparono ulteriori capacità, tra cui il turntables con il cutting, lo scratch e il beat juggling.

Oltre alla appropriazione dei luoghi, in una fase in cui il Bronx andava letteralmente a fuoco, ridotto in macerie e abbandonato dagli amministratori, l’Hip Hop configurava una identità collettiva che, partendo dalle condizioni urbane e sociali vissute nella città, utilizzava la città stessa come luogo cardine dell’espressione e come teatro della stessa. Esisteva, infatti, un doppio legame tra i luoghi, ri-territorializzati e la nascente controcultura. La Comunità urbana dei giovani neri, al Bronx, aveva inventato una maniera per esprimersi. Con il tempo, grazie all’azione di altri pionieri, come il già citato Gran Wizard Theodore (noto per essere considerato l’inventore dello scratch [27]) e in virtù dell’esplosione del fenomeno e di gruppi che ebbero successo sul mercato internazionale, come i Run DMC (fusione tra Rap e Hard rock) o soprattutto i Public Enemy (testi forti e grande attenzione ai temi politici e alla Comunità afroamericana) Rap e Hip Hop divennero mainstream. Una serie di documentari canadesi, distribuita da Netflix, Hip Hop Evolution, e inizialmente rilasciata su HBO Canada, narra, attraverso la voce del rapper Shad, l’evoluzione del fenomeno culturale, dai suoi esordi durante gli anni ’70.

La rete infrastrutturale dell’National Interstate and Defense Highways

La rete infrastrutturale dell’National Interstate and Defense Highways

La cultura Hip Hop visse un incremento in coincidenza con il lungo blackout del 13 luglio del 1977. Durante quella notte senza luce furono saccheggiati negozi e centri commerciali, e uno tra i più influenti DJ, Granmaster Caz, disse che dopo quella lunga interruzione aumentarono i gruppi di DJ che organizzavano feste o rappavano, probabilmente per la maggiore disponibilità di attrezzatura tra cui piatti, casse, amplificatori, giradischi e drum machine.

Già in quella fase il Rap [28], un potente strumento di riscatto, era diviso in due movimenti, uno ludico [29], legato al ballo e al divertimento, l’altro più “politico”[30], ispiratore di una feconda compagine successiva e focalizzato a sviluppare stile e contenuti sociali con gruppi come i Grandmaster Flash [31] o Africa Bambataa, inserito da «Life» nel 1990 nel novero degli americani più importanti del XX secolo. Già nel 1973 Bambataa fondò la Bronx River Organization (poi Zulu Nation) che, in alternativa alle gang, promuoveva “Peace and Unity”, slogan della organizzazione stessa che caldeggiava pacifismo e orgoglio nero, anche con i testi dei brani. I messaggi veicolati erano di grande rilevanza, infatti i membri della Zulu Nation non potevano vendere droga o drogarsi (in quella stagione NYC e il Bronx in particolare erano luogo di consumo di crack [32] una pericolosa sostanza che come già accennato mieteva vittime).

Una interessante Serie The Get Down, distribuita da Netflix, dal 2016, e prodotta e diretta da Buz Luhrmann e Stephen Adly Guirgis, racconta l’esordio dell’Hip Hop nel South Bronx. Certi protagonisti, come il giovane poeta Ezekiel che riceve lezioni di musica da Granmaster Flash, rimandano ad alcuni personaggi reali, come Kool Herc. Nella storia di Ezekiel [33] riecheggiano, infatti, vicende vissute dai primi rapper nativi del Bronx, le loro contraddizioni e la spinta a controbilanciare, con la forza eversiva e rivoluzionaria dell’Hip Hop, l’abbandono e il disagio esistenziale e sociale del loro quotidiano. 

Quartieri sensibili nella banlieue di Parigi

Quartieri sensibili nella banlieue di Parigi

La Banlieue francese e il Rap franco-maghrebino, la rabbia e la poesia, tra Marsiglia e Parigi 

Pur non essendoci legami troppo diretti tra il Rap delle origini e quello franco-maghrebino, in entrambi i casi tali espressioni controculturali nascono dalla tensione tra le forme organizzative socio-spaziali del potere e la condizione di vita, non sempre vissute passivamente, dei migranti o di altre categorie fragili o svantaggiate.

La banlieue materiale e immateriale, sociale e simbolica, di numerose città francesi, tra esse Parigi e Marsiglia, è stata ed è, oltre che un luogo concepito in base a una visione discriminante e coloniale, un ambito di produzione di una forma peculiare, diffusasi anche in altre parti della Francia urbana: il Rap franco-maghrebino, nato a Marsiglia circa trent’anni fa, indipendente, popolare e in alcuni casi di successo, prodotto da giovani originari del Nord Africa, figli dell’immigrazione dal Maghreb. Questi autori e queste autrici (le rapper sono poche rispetto agli uomini), alla stessa stregua dei giovani abitanti del Bronx, possono essere definiti “cittadini e cittadine incompleti”. Discendenti di una vasta compagine di migranti che giunsero in Francia, questi giovani possono essere intesi come visibili contro interpreti di una lunga storia contraddistinta dall’invisibilità dei loro genitori. I rapper, in tal senso, sono importanti attori che esprimono: da un lato la domanda di riconoscimento dei diritti concreti e non teorici di cittadinanza, dall’altro il duplice sentimento della rabbia e dell’acredine ormai incarnato nel loro difficile quotidiano.

I testi, la dura poesia, la stessa rabbia, i video che raccontano impietosamente la banlieue, sono una trama fondamentale per riflettere sulla segregazione, e per evidenziare, confrontandole, le differenti narrazioni, quella mediatica e predominante che edifica lo stigma e lo stereotipo di categoria, e quella che proviene dai rapper stessi, singolari romanzieri del romanzo della vita nella banlieue. Dai testi e nei video dei rapper, infatti, emerge la realtà autentica di una comunità tartassata, il disagio di un vissuto quotidiano sfiduciato, consumato per strada e caratterizzato da perdite, assenze, carenze e mancanza di opportunità. I brani oltre a dichiarare rabbia e rivendicazioni, hanno il potere di costruire comunità che si riconoscono nella narrazione condivisa. Spesso tale rabbia ­– che appare il sentire dominante, insieme allo sconforto – si configura come risposta “politica” e rivoluzionaria, riguardo allo spazio-ghetto della periferia e rispetto a due parametri basilari, il potere e lo status, rappresentativi dell’esistenza dolente dei cittadini francesi di origine maghrebina.

Il Rap franco-maghrebino non aiuta solo a ricostruire la parte in ombra delle storie di vita dei migranti, ma a ragionare sulle forme dello “spazio assegnato” [34] dalle politiche e dalle scelte di governo, spazio in cui i migranti sono costretti a vivere. Nodo trattato da numerosi brani, in profonda analogia con quanto accadeva al Bronx, dai rapper che negli anni ’70 privilegiavano i contenuti politici e sociali. A tal proposito è utile citare il pezzo, Le quartier dei Fonky Family [35] che raffigura il quartiere come l’unico possibile teatro di esistenze stentate, tra padri spesso assenti, madri a servizio, droga, arresti, ragazze incinte prematuramente.

Occorre specificare che, riferendosi alla “cittadinanza incompleta”, si richiama uno status concreto, un corpus di politiche, e la condizione dei migranti, destinatari di azioni (pressoché impossibilitati a rispondere in termini civici) e raccontati dal potere istituzionale e dai media in modo ambiguo, ma sempre espunti: nel contempo “cittadini” teorici e “oggetti” stranieri, da criticare e soggiogare. In tale contesto i rapper, quasi tutti nativi delle banlieue o dei sobborghi, tutti “banlieusards” [36], in prevalenza abitano i Grands ensembles (gli HLM, habitations à loyer modéré, estesi quartieri costituiti da macro isolati, spesso location delle clip) siti nelle cosiddette ZUS, Zones Urbaine Sensibles, a forte presenza e densità abitativa nordafricana. Luoghi problematici, rappresentati da moltissimi rapper, tra cui Kery James [37] che, in Banlieusards, descrive la condizione marginale e contraddittoria di chi, pur padroneggiando la “lingua di Moliere”, rimane irriducibilmente escluso.

 Il mercato immobiliare nelle aree centrali e nella “cintura” dei sobborghi parigini


Il mercato immobiliare nelle aree centrali e nella “cintura” dei sobborghi parigini

Gli IAM [38], uno dei gruppi storici della Nord Africana Marsiglia, dove su un milione di abitanti vi sono quasi 250 mila musulmani, in Les Raisons De La Colère, mettono in evidenza quanto l’incidenza della descrizione dei media dei migranti sia una delle “ragioni” della rabbia espressa. Ed è in tal senso che il Rap può essere considerato come uno dei modi di azione collettiva dei giovani che vivono nelle banlieue, una voce da ascoltare per costruire strumenti non impositivi che possano innescare nuovi percorsi per migliorare le condizioni, favorendo anche forme partecipative e di autorganizzazione.

Dai brani emerge la volontà di ribaltare le colpe attribuite ai migranti dallo Stato, come pure le responsabilità delle istituzioni, come notano i Fonky Family in Haute tension o i Supreme NTM [39] in Odeurs de soufre, la mancanza di politiche sociali, e quell’individualismo che contribuisce a disegnare l’“inferno” delle banlieue.

Le ZUS, dove sorgono i quartieri ghetto, identificate con la legge 96-987/1996, sono assai numerose: delle 751 inizialmente identificate, 718 erano in ambito metropolitano. La Legge, definendo tali zone, attesta che esse siano oggetto di aiuti ed esenzioni. Abolite nel 2015 e sostituite dai distretti prioritari (quartiers prioritaires), rappresentano una porzione di un più ampio contesto, infra urbano o periferico, interessato solo in parte da contratti urbani mirati alla coesione sociale. Successive leggi, nel 2003 e nel 2005 hanno affrontato, con programmi di rinnovamento urbano sempre in modo sostanzialmente debole o autocrate, la ristrutturazione dei quartieri caratterizzati dalla presenza dei Grands ensembles, dove vivono altissime quantità di residenti.

La genesi della periferia-ghetto e la sua modificazione, lenta e stratificata, vanno ricondotte alla interrelazione tra scelte politiche e fenomeni migratori, e possono essere esplorate anche tramite le “fonti non convenzionali” [40], tra cui cinema e letteratura che mostrano l’abitare marginalizzato, le culture presenti, le identità in rapporto ai fenomeni storici, urbani, spaziali e di potere.

La formazione degli insediamenti periferici in Francia (le cosiddette “cités”) – interconnesse al processo di “ridefinizione” delle baraccopoli dove inizialmente abitavano i migranti – ha radici alla fine dell’Ottocento (1880 circa) quando, post e durante la fase di esordio dello sviluppo industriale (1850-1918), iniziarono a giungere in Francia milioni di persone dal Maghreb. Intorno al 1910, infatti, nelle fabbriche francesi vennero assoldati numerosi lavoratori algerini, concentrati a Parigi, Marsiglia o nella Regione del Pas-de-Calais [41].

Rapper franco-maghrebini

Rapper franco-maghrebini

Con la Prima Guerra mondiale, e poi dal 1921 al 1955, la migrazione maghrebina, a dominante algerina, aumentò ulteriormente. Dapprima i “lavoratori coloniali” sostituirono nelle fabbriche i francesi in guerra, ma già dal 1916 fu reclutato circa un milione di migranti, di cui i tre quinti furono impiegati nell’esercito, molti di essi morirono, mentre la maggioranza dei sopravvissuti fu rimpatriata nel primo dopoguerra. Un fenomeno analogo si riscontrò anche durante il Secondo Conflitto mondiale. In seguito, quasi 3 milioni (nel 1962, circa 5,2 milioni) di migranti arrivarono in Francia dalle ex colonie [42], attratti da incentivi e politiche del Governo. Dal 1954 al 1975 si registrò, nonostante un maggiore controllo sull’immigrazione, un aumento demografico, macroscopico nelle cinture urbane esterne abitate dai migranti (già nettamente caratterizzate dai Grands ensemble).

Quando negli anni ‘50 la grande onda migratoria rese più impellente la costruzione di abitazioni, le politiche francesi governative, soprattutto dal 1953 al 1960 e sino al ’75, iniziarono a pianificare i quartieri residenziali che, secondo le teorie espresse, avrebbero dovuto risolvere il disagio abitativo dell’enorme mole di coloro che già dimorava nelle bidonville. I Grands ensemble – edificati a basso costo, una distorsione esasperata del modello “Le Corbusier” – che avrebbero dovuto rimpiazzare le baraccopoli, si configurarono, invece, come vere e proprie città alienanti che manifestavano e producevano, ab origine, segni di deterioramento sociale e fisico. Localizzati in varie città industriali, a Parigi a Est e Nord, e in alcune aree Est più centrali, oltre che nelle corone periferiche, ancor oggi rendono evidente la difformità interna dell’immensa banlieue parigina (L’Area metropolitana è costituita da 780 comuni).

La banlieue contemporanea, a Parigi già in parte “tratteggiata” durante la fase haussmanniana, e a Marsiglia (soprattutto nei quartieri a Nord, dove vivono i musulmani del Maghreb e quelli originari delle Comores; o nel Vecchio porto) connessa soprattutto allo sviluppo industriale e dei cantieri navali, registra ancor oggi una crescita demografica (soprattutto a Parigi “centro” vi è un trend inverso) e non è omogenea. Nella Capitale è costituita da molteplici ambiti dove vivono e lavorano i benestanti definiti Français de souche (“Francesi dalle radici”, con riferimento alla discendenza e all’etnia caucasica) e da un ampio contesto degradato e fatiscente caratterizzato da disoccupazione (ben oltre il 50-70%) [43], uso e traffico di droga [44], dispersione e abbandono scolastico, carenza di servizi e spazi pubblici, criminalità.

Luogo di malessere sociale, di proteste (dal 1968, quando erano definite “Banlieues rouge”, fino ai giorni nostri), le banlieue, sono e furono un epicentro in cui prevalsero da un lato terribili misure repressive (es. il “massacro di Parigi” del 1961) e dall’altro, inizialmente, alcune rivolte pacifiche, come la Marche puor l’égalité et contre le racisme (“la marche des Beurs”) [45], del 1983, da Marsiglia, definita da Harlem Désir, fondatore di Sos Racisme e dal 2012 segretario del Partito socialista francese come «l’irruzione nel dibattito politico dei figli dell’immigrazione» [46].

I primi quartieri per i migranti a Lione

I primi quartieri per i migranti a Lione

Alle forme di protesta sociale poco organizzate, soprattutto per l’atteggiamento governativo rigido e non incline a costruire un dialogo peer to peer, a seguito della grande disillusione collettiva dei giovani consapevoli di essere “cittadini incompleti”, prevalsero azioni come quelle del 1995 e del 2005, culminate nei roghi e nelle rivolte iniziate a Clichy-sous-Bois [47] e poi diffuse in molte aree urbane. Episodi raccontati in alcuni pezzi, es. Banlieusard di Kery James o in Niquer le système di Sniper [48], dove si afferma: «La France accueille à bras ouverts (…) Mon coeur abrite la souffrance des colonies».  

È quindi proprio nei testi dei rapper che si legge con chiarezza, oltre alla rabbia, il racconto di tale disinganno, come afferma Youssoupha [49] in À force de le dire [50], per ribadire la propria storia di vita e la propria collera, il disincanto rabbioso oramai cronicizzato dall’assenza di azioni, dallo sfruttamento, dalle derive del consumismo, dalla lunga storia di vessazioni, e soprattutto dell’organizzazione capitalista, dalla diseguaglianza come condizione ineluttabile, dalla mancanza di qualità dei luoghi di vita, efficacemente rappresentati nelle clip di moltissimi brani [51].

La Banlieue abitata dai franco-maghrebini, oltre a essere un ghetto, si traduce nei testi (vedi, Ma ville e ma vie, di Naps [52]), in un gravoso confine interno, interiorizzato, ambiguizzante, che separa i luoghi centrali da quelli periferici e che soprattutto divide i cittadini privilegiati dagli altri. Luogo da distruggere, da amare, da cui fuggire, denso di conflitti, da ricusare sia materialmente, sia per le narrazioni istituzionali (i media hanno equiparato il flusso dei migranti, a un’“invasione verticale di barbari” [53], definiti da Sarkozy, tra i politici più odiati e più duri, “racaille”, feccia).

Le prospettive interpretative statali (quella di Sarkozy e di molti politici precedenti e successivi), che ignorano le difficoltà delle generazioni presenti e antecedenti [54], restituiscono, infatti, i giovani con stereotipi standardizzati (arroganza, violenza, pericolosità); mentre le politiche – che hanno generato il binomio migranti/spazio – producono segregazione e dispute difficili da sanare, che innescano netta opposizione e violento odio verbale reattivo, senza intermediazioni: come afferma Mister You, in Lettre au président [55].

La Fonky Family a Marsiglia, nel 1990

La Fonky Family a Marsiglia, nel 1990

Le risposte, dirette e gravide d’odio dei rapper, declinate con un linguaggio che deride il lessico borghese, sono in tale assetto funzionali a ricreare una propria alterità, tra l’essere rifiutati e il voler essere cittadini francesi, non omologati. Il Rap, quindi, esprime un dissenso preciso, mantenendo la propria durezza e “indistruttibilità”, distinguendo i giovani testimoni (i rapper) dalla “massa” («Naître pour n’être qu’un numéro de dossier», dice Sinik [56], in Zone Interdite), considerata dai francesi “puri” e dai media, rovinosa e indifferenziata (secondo una tradizione descrittiva miope e strumentale, presente fin dall’inizio delle migrazioni dei maghrebini in Francia).

Come apprendiamo dal già citato brano, Les Raisons De La Colère (IAM), il Rap si configura come una duplice “pratica urbana”, di rivolta e di “resilienza” sociale [57] e, in un certo senso, di ri-territorializzazione più simbolica che materiale (tra appartenenza e avversione per i luoghi), di chi ha imparato a difendersi e a manifestare con i testi (il racconto) e le azioni (le rivolte). A differenza del Rap delle origini, nei brani dei rapper francesi prevale nettamente sia l’aspetto sociale e politico, oltre quello di appartenenza a una cultura diversa e non accettata dalla Nazione ospitante, sia quello religioso, mentre grande evidenza viene data alle condizioni materiali di vita, come dice il rapper Sinik, in Sarkozik, «Bienvenu en banlieue (…) le ghetto français».

In questo quadro, che mette in luce gli atti statali e istituzionali e il mancato “diritto alla città” [58], è utile sottolineare da un lato la rigidità e la “sordità” delle istituzioni, dall’altro quanto le azioni locali più proficue siano mosse da Associazioni di quartiere del terzo settore (es. Le réseau régional des sociétés de migrants; Enfants d’aujourd’hui, Monde de Demain; Approches Cultures et Territoires, a Marsiglia) o dalle parrocchie, che puntano a un’azione sul campo, per trasformare la rabbia ricorrente, a volte paralizzante o autolesiva, in riscatto civico. Quella rabbia che tracima dai brani di numerosi artisti e artiste, tra queste Keny Arkana che, in La Rage [59] ne spiega il radicamento e le innumerevoli declinazioni.

Dai testi e dai video, inoltre, emerge la stretta relazione con la strada («La rue c’est ma femme les voyous m’appellent papa», come si afferma ne L’Itinéraire di Mister You [60]), e il radicamento urbano [61] (ai quartieri e soprattutto a Marsiglia, «Ma putain de vie, c’est le quartier mais le quartier c’est pas le vie», ne Le quartier di Fonky Family), il forte sentimento di appartenenza ai luoghi, emozioni consustanziali di tale incompletezza, tra l’essere francesi (pur volendo mantenere le proprie radici) e l’essere considerati per sempre con un ossimoro: (colpevoli) cittadini temporanei e stranieri. Va sottolineato, dunque, quanto nei testi dei rapper il rapporto con la strada, luogo cardine sia degli scontri, sia delle relazioni sociali, manifesti tale duplicità, tra attaccamento e odio critico: il rapper Jo Le Phéno, in La Rue [62] ne descrive gli aspetti rischiosi e le regole autoprodotte, mentre Kamelancien, coerentemente, in Le charme de la tristesse, con amara ironia, enfatizza quanto il quartiere “marchi” le persone, mentre gli IAM, nel bellissimo brano già nominato, Les Raisons De La Colère [63] mettono in luce il contraddittorio radicamento con la strada, quasi fosse l’unica grande pedagoga, dispensatrice di insegnamenti pratici.

Keny Arkana, La Rage

Keny Arkana, La Rage

Come già anticipato, a seguito delle ondate migratorie, alla crisi abitativa e alla trasformazione della Nazione da rurale a urbana, furono edificati, ai bordi delle città dense, i Grands Ensembles e gli HLM, attraverso le ZUP (Zone à Urbaniser par Priorité), introdotte in Francia nel 1959 [64]. Gli HLM, che danno una repressiva forma spaziale alla repressiva forma politica, sorsero massivamente tra la metà degli anni ’50 e i primi ’60. Voluti dai tecnocrati e dai politici francesi, applicarono i principi di un’urbanistica autoritaria e di un modello storicizzato che trasferiva la prassi del potere centralizzato (politico e in questo caso relativo al sapere urbanistico di tipo elitario) sullo spazio.

Gli HLM trapiantarono sul territorio del Novecento le derive delle città segregate del secondo Ottocento e del Movimento Moderno, dei dettami costruttivi (cemento armato), dell’organizzazione formale dello spazio (macro-isolati; spazi pubblici assenti o dal disegno “metafisico”; penuria di aree verdi ridotte a qualche sporadico albero) e della conseguente viabilità interna. Gli estesi quartieri disconnessi dalla “città centrale”, costituiti da spazi omologati, senza servizi comuni, edificati con materiali a basso costo, divennero subito crocevia di contraddizioni, disagio e rivolta, rappresentazione esplorabile della responsabilità delle istituzioni e della collisione tra culture differenti non dialoganti. Va ricordato che gli HLM furono promossi dall’amministrazione francese, mentre H. Lefebvre scriveva un saggio sulla Comune di Parigi e apriva un fecondo ragionamento sul “diritto alla città”, come si dirà più avanti.

 Gli IAM, Les Raisons De La Colère (dal video, ph. 1)


Gli IAM, Les Raisons De La Colère (dal video, ph. 1)

Inizialmente gli estesi alloggiamenti furono occupati anche dalla classe media (poi trasferita in aree centrali o suburbane, collegate e servite) e da altri gruppi, come peraltro sostiene lo scrittore di origine algerina Nadir Dendoune [65], nato nel 1972 e cresciuto nell’Ile Saint-Denis, a Nord di Parigi. Egli con chiarezza spiega che, se nei primi anni ’80 ancora gli HLM erano abitati da persone a basso reddito, francesi, europei dell’Est, oltre a neri e arabi, nel corso di un ventennio crebbe la presenza di immigrati provenienti dalle ex colonie nordafricane. In quel contesto socio-abitativo – pessime scuole, nessuna azione governativa, disoccupazione endemica – la periferia migrante divenne un ghetto-prigione da cui è davvero molto difficile evadere. Appare superfluo sottolineare le analogie con il Bronx degli anni ’70.

Ancor prima degli HLM le bidonville divennero la “casa” dei numerosi migranti, giunti in Francia fin dagli anni ‘40, sia quando le politiche nazionali favorirono l’immigrazione dal Portogallo e soprattutto dal Maghreb, sia in seguito al flusso per il ricongiungimento familiare. Nel 1970 il 6% della popolazione francese, infatti, era “straniera” (termine ricorrente nel linguaggio politico, dei media, in quello comune e nei testi rapper, (vedi, Bavure 2.[66] di Jo le Phéno) e in gran parte abitava gli HLM. Trasposizione distorta del “sogno” dell’abitare collettivo, tali insediamenti tradussero in spazio abitato l’opportunismo economico e politico francese che ghettizzò uomini e donne attratti dalla promessa di diventare “cittadini/e francesi”.

L’esclusione dalla città centrale, fisica e simbolica, la strutturazione spaziale interna, rendeva gli HLM alieni alle culture dei migranti (alla cultura di chiunque, in realtà [67]), mentre rendeva, soprattutto in precedenza, difficoltosa ogni forma di auto-organizzazione [68], dimostrando come l’urbanistica top-down, al servizio di una politica dispotica e reazionaria, esautorasse qualità fondamentali, ma pericolose per le istituzioni, quali: partecipazione, autodeterminazione civica, concertazione, integrazione sociale. Bloccando la mobilità sociale, l’ordine autocrate, contrario al modo in cui un centro cittadino esprime la propria vitalità, con la suddivisione in rigide zone funzionali, produceva quartieri di “detenzione sociale” e comunità sofferenti e straniate, rendendo difficile, per il quotidiano dei migranti, non solo il dialogo tra le culture, ma la possibilità di reagire civicamente.

Gli IAM

Gli IAM

È in tal senso che il Rap, nato in seno ai ghetti, può essere inteso quale strumento “politico” e interpretativo, una “pratica sociale”, come suggerisce M. Certeau [69], da esplorare per ricostruire un quadro applicabile in vari contesti. Che declinazioni assumono i testi? Quali i sistemi di circolazione dei brani? Quali e in che modo i luoghi sono scelti o rappresentati? L’insieme stesso dei brani, le parole e i temi (ricorrenti), la musica, la gestualità, gli outfit, i luoghi, ci pongono davanti all’altra verità del contesto confermando che i “testi”, frammenti della “storia culturale”, non esistono senza i propri paratesti.

I pezzi si oppongono ai report computazionali delle istituzioni e dei media, includono un “discorso” sulle storie di vita (elaborate da specifici insider) e coniano un “linguaggio” [70] specifico e potente come un’arma («Je retranscris les joies et larmes les cris et drames, Dénonce l’État et ses méfaits car la bouche est une arme», in Niquer le système, di Sniper), dai cui emergono, oltre agli irrisolti già trattati, la restituzione dello spazio urbano, il potere, la disoccupazione, le disparità, le regole e la loro negazione (vedi Sarkozik di Sinik, «J’représente le block parce que la rue ça me concerne, J’arrive d’un monde ou la violence à tous les droits»), le speranze, le fughe, il rapporto con il femminile (nodo che andrebbe approfondito[71], sia per la schiacciante maggioranza di maschi tra i rapper, sia per la narrazione machista e sessista che spesso emerge sia nei testi, che nei video) e le identità religiose, questioni trattate in numerosi lavori dei rapper tra cui Kamelancien [72] che, ne Le poème du droit chemin, ribadisce quanto la retta via della fede e dell’osservanza possa essere salvifica.

Sinik Sarkozik

Sinik Sarkozik

Attualmente, pur non essendo possibile un censimento preciso, in Francia sono stimati circa 5 milioni di musulmani. Viene valutato, altresì, che di essi il 35% sia di origine algerina, il 25% marocchina e il 10% tunisina. Un insieme spesso identificato attraverso la religione vista come minaccia al modello laico francese, ancor più dopo il 2001. Tale stigma, narrato dai testi dei rapper, concorre alla percezione e all’auto-percezione dei giovani franco-maghrebini: essi, “marchiati” dalla propria origine araba e islamica [73], manifestano la propria opposizione con una sorta di orgogliosa resistenza che vuole confutare le colpe attribuite, come nota Sinik, in D.3.32, «Aucun remord, aucune putain d’excuse à présenter». Opposizione condivisa dalla maggioranza dei musulmani che rivendicano l’integrazione e la capacità di adattamento dialettico dell’islam ai contesti [74], come sostenuto da Azzedine Gaci (capo del consiglio regionale musulmano a Lione) [75].

Un aspetto ricorrente nei testi è dato dalla denuncia presente ai metodi della polizia e della giustizia. Tra il 1995 e oggi, possono essere citati innumerevoli casi di rapper sotto processo. Nel 1995 il gruppo Ministère A.M.E.R [76] fu posto sotto accusa per Sacrifice de poulets (poliziotto in gergo) e per l’istigazione all’omicidio, dal Ministro dell’interno Jean-Louis Debré. Nel 1996 per i brani Police e Mais qu’est-ce qu’on attend pour foutre le feu? un membro dei Supreme NTM fu condannato a tre mesi di carcere anche per aver gridato «Nique la police».

Migranti

Migranti

Nel 2002 Nicolas Sarkozy, allora Ministro degli interni, denunciò Hamé [77], dei La Rumeur, e nel 2003 Sniper (peraltro accusati anche di antisemitismo e definiti da Sarkozy «criminali che disonorano la Francia» [78]) per aver diffamato la polizia. Tra i brani incriminati, entrambi di Sniper, Jeteur de pierres, un forte testo politico di accusa (contro la mancata cittadinanza «J’écris et j’crie juste le combat d’un peuple qui s’bat pour sa patrie» e il potere colonizzatore, «puissance colonisatrice», che costringe: «a danse entre les balles pour esquiver un couvre-feu») e La France (del 2001) che mette in evidenza il grande tradimento della madre Francia («La France est une farce et on s’est fait trahir»), la democrazia fittizia, i rapporti di causa ed effetto esistenti tra le azioni di governo e le azioni dei migranti [79]. Tali frammenti, affrontando le condizioni del contesto in modo diretto e potente, rendono chiaro come siano nate quelle reazioni che non vanno certamente legittimate, ma possono essere considerate mezzo per svelare e capovolgere la narrazione istituzionale.

In questa storia di cittadinanze mutilate e lacunose, va osservata la dinamica conflittuale che, in più occasioni, mette in evidenza le strategie e i limiti del potere francese, nonché la castrazione delle attese generali e delle esigenze connesse all’abitare e al quotidiano dei migranti. Come afferma Rosaldo, l’idea statalista del «sedetevi e zitti. Sarete i benvenuti fintanto che vi adatterete alle nostre norme» [80], si fonda ovviamente sulla collocazione dei migranti nello “spazio prigione” degli HLM, luogo devastante sul quale riversare l’odio provato, come sostengono i Fonky Family, in Sans rémission: «Pourquoi on se calmerait, On vit pas dans des palmeraies». In tal senso la periferia degli HLM si mostra come strumento del controllo vessatorio, piuttosto che “errore” riconosciuto o spazio fluido di transizione da modificare, per esempio secondo le riflessioni valoriali di Lefebvre.

Tra i rapper che descrivono la realtà dell’abitare nei quartieri sensibili, Niro [81], in due brani, VivaStreet e Live in the ghetto, si segnala anche per un graffiante B/N, e per il “montaggio” urbano, dove la rappresentazione della strada assurge a metafora della condizione generale che spinge a vivere il quotidiano come se si trattasse di una guerra: «On vit ghetto, on meurt ghetto donc on meurt très tôt», proseguendo in inglese «Life in the ghetto is not easy not at all, You gotta be a soldier or you really gonna fall».

Jo Le Phéno, La Rue (dal video, ph. 4)

Jo Le Phéno, La Rue (dal video, ph. 4)

Per evidenziare la profonda antitesi tra l’idea di spazio urbano portata avanti dalle politiche francesi, e l’illuminata visione di Lefebvre è utile richiamare, anche se in sintesi, i principi dello studioso francese sul diritto alla città, utili a chiarire come durante la fase di realizzazione dei quartieri ghetto per i migranti, esistesse la possibilità di varare significative politiche in contrasto con quanto effettivamente accaduto. Se Marx aveva identificato il proletariato come fulcro della rivoluzione, Lefebvre identificava una differente categoria, quella dei soggetti urbani (gli abitanti) portatori del diritto alla città, pur mostrandoci come tale diritto non fosse né dato in sé, né sempre conseguentemente esercitato. Occupandosi delle dinamiche di produzione dello spazio, riflettendo sul ruolo del capitalismo e dei processi collegati quali attivatori di standardizzazione dello spazio, spesso disegnato dalla pianificazione razionalista, Lefebvre aveva messo in luce la crisi della città novecentesca, pianificata dall’urbanistica asservita al capitale o dai meccanismi della rendita.

 La marche des Beurs


La marche des Beurs

Tale pianificazione, organizzando geometrie, confini e funzioni, castrava la complessità urbana, esautorando la popolazione non appartenente alla élite politica, sociale o economica, annullando le possibili trasformazioni dello spazio urbano nel tempo, originate “dalla base”. La pianificazione razionalista e le sue derive avevano da un canto prodotto, proprio mentre Lefebvre [82] scriveva (nel 1968, nel 1970, nel 1972), teorie e realizzazioni mirate a migliorare la qualità della vita delle persone, dall’altro avevano smarrito il senso profondo dell’urbano, dato sia dal valore d’uso, che dall’“opera”.

Le cités francesi degli HLM, infatti, pensate ed edificate secondo il valore di scambio, obliteravano il valore sociale e quello collettivo inibendo l’uso e la produzione dello spazio in modo più libero e autodeterminato. Ed è in tal senso che Lefebvre parla di diritto all’opera, identificando con esso, in sintesi, non solo l’uso dello spazio ma la possibilità di trasformarlo e di pensarlo collettivamente insieme a una sua evoluzione non eterodiretta nel tempo. Tale prezioso diritto non avrebbe dovuto essere, però, elargito, secondo un iter top-down, da un potere istituzionale che avrebbe consentito, demagogicamente, gradi di libertà agli abitanti, ma avrebbe dovuto essere alimentato dall’uso e dai meccanismi di appropriazione (non di proprietà) e dallo stesso diritto alla città (vedi: Lefebvre; Marcuse; Harvey; Friedmann; Don Mitchell; Susan Parnell; Edgar Pieterse; Salzano) intesi come parte dell’opera. Possibile se lo spazio urbano fosse concepito come sistema complesso in evoluzione e come valore comune da costruire collettivamente.

L’opera urbana alla Lefebvre era ed è, quindi, dicotomica alla standardizzazione capitalista e sarebbe stata la linfa collettiva che avrebbe consentito agli abitanti di sperimentare relazioni e rapporti esterni ai vincoli interni al potere che aveva, invece, prodotto le cités HLM e i modi di abitare connessi. Un «gruppo si appropria uno spazio, quando [...] lo modifica secondo i propri bisogni e le proprie possibilità» scrive Lefebvre. Perché ciò accada è necessario, però, che lo spazio sia co-progettato in itinere (non pensato solo da gruppi elitari, tecnici, politici, o da stakeholders), sia flessibile e nasca anche dall’osservazione, dalla ricerca sul “marquage social” e urbano degli abitanti, dalla loro libertà di immaginazione e di azione, scoprendo gli indizi ambientali nelle loro diverse declinazioni. Facendo ricorso a tutte quelle espressioni di desiderio presenti che, seppur non totalmente esplicite o intenzionali, incidono il territorio, costruendo il paesaggio quotidiano con un metodo antitetico a quello che produsse le rigide “cités HLM”.

Niro, Live in The Ghetto (dal video, ph. 1)

Niro, Live in The Ghetto (dal video, ph. 2)

Aver ignorato le pratiche culturali e urbane degli abitanti, la loro capacità appropriativa e trasformativa, e le azioni repressive hanno, nel tempo, innescato e alimentato disagio e sottomissione sociale, potenziando la segregazione, soprattutto nelle cités francesi. Se le politiche urbane successive non hanno realmente affrontato i nodi del contesto, il governo ha condannato e perseguito i comportamenti dei giovani delle banlieue, nei quartieri sensibili, con i presidi di polizia, percepita come forza di occupazione e, paradossalmente, come interlocutore principale, in assenza di contatto diretto con le istituzioni. Ancor più dopo il 2003, quando Sarkozy, con una precisa scelta governativa, soppresse la polizia di prossimità, fornendo precise indicazioni sulle modalità di intervento in quei territori di margine dove si vive una quotidiana opposizione che alimenta la distanza tra le istituzioni e migranti, come efficacemente rappresentato dai Supreme NTM (in La Fièvre) e da La Fouine [83] in Capitale du crime: vi si descrive la guerriglia con la polizia quale braccio armato del potere che sottomette, sostenendo (vedi, Banlieue Sale musique in Capitale du crime2) che «La rue n’a pas de règle».

La visione duale tra il potere e i banlieusards, porta a riflettere su un altro termine, dal valore dirimente: “insicurezza”. Presente nei testi dei rapper (vedi, Banlieusards di Kery James), secondo un’ottica tesa a mostrare quanto il quotidiano sia rischioso e labile, compare con altra accezione nella definizione delle ZSP, acronimo che dal 2012 designa le zone de sécurité prioritaire, ambito pattugliato (dai gendarmi) che «souffre plus que d’autres d’une insécurité quotidienne et d’une délinquance enracinée (…) connaît depuis quelques années une dégradation importante de ses conditions de sécurité» [84]. È pertinente in tal senso il riferimento alla BAC, la Brigade anti-criminalité [85] di Marsiglia creata nel 1992, peraltro coinvolta in un difficile caso giudiziario nel 2012, quando alcuni agenti furono arrestati per traffico di stupefacenti e racket. La vicenda, raccontata dal film BAC Nord, del 2021 di Cédric Jimenez, assume una visione ideologizzata, descrivendo i poliziotti come innocenti. Tale restituzione, proprio in quanto orientata, mostrando il contesto periferico di Marsiglia e i giovani abitanti per lo più neri, cliché violenti e armati, fa riflettere sullo stigma e sulle rappresentazioni prevalenti [86] negate dalla versione dei rapper e da altri romanzieri e cineasti, come ad esempio Hafsia Herzi [87]. La giovane regista, nel suo Bonne mère, del 2021, racconta il ruolo di una madre che vive una quotidianità a tratti disperata, nei “quartieri sensibili” Nord di Marsiglia.

Niro, Live in The Ghetto (dal video, ph. 1)

Niro, Live in The Ghetto (dal video, ph. 1)

La ricorrenza dei “nodi” trattati dal cinema, dalla letteratura, e dai fenomeni controculturali, tra cui il Rap con la Banlieue Banlieue Sale musique (di La Fouine), mostra, nelle varie declinazioni (testi, video, arte, street art, performance e relativi linguaggi), un articolato “sistema” di reazioni e repliche ai “contrassegni” imposti, alle condizioni di vita e alle scelte dei politici. La “rete culturale” che emerge dai prodotti dei e delle rapper, dei registi/e, dagli scrittori e dalle scrittrici, dagli artisti/e ancor più quelli che hanno origini maghrebine, configura un macro-insieme eterogeneo e potente dal quale la politica e la cultura ortodossa francese dovrebbero imparare[88], per dar vita a un confronto tra insider [89] differenti che metterebbe in discussione scelte e orientamenti, come quelli portati avanti dallo stesso Sarkozy. Questi, soprattutto durante il suo mandato come Ministro dell’Interno, ha avuto un ruolo chiave rinforzando, nell’immaginario francese, i caratteri negativi della banlieue maghrebina e dei suoi abitanti, caratteri fondati sul “nesso” migrante-spazio urbano.

Oltre all’immaginario eterodiretto, le condizioni reali, strutturatesi nel tempo, soprattutto dal secondo dopoguerra a oggi, i fenomeni in corso, le preponderanti e unilaterali rappresentazioni del sistema di governo, hanno concorso a bloccare sia la mobilità sociale (negli anni ’80 furono varate alcune politiche, non troppo efficaci, per l’integrazione unicamente delle ridottissime élite dei migranti) [90], sia le reazioni organizzate, la cui carenza contribuisce ad alimentare la disillusione e a fomentare l’opposizione. In questa banlieue abbandonata dove si registra il 70% di astensione al voto e che le voci istituzionali più retrive definiscono il “territorio perduto della Repubblica”, vigono vendetta, auto-regolamento di conti, attività criminale, mentre vi alligna non solo la rabbia e lo sconforto, ma oscure forme di resistenza conflittuale nate dalla mancata interazione con le istituzioni «avare», come ci ricordano i Fonky Family, in Sans rémission: «De Mars on part en croisade, Contre l’état avare, Représente les quartiers dit sensibles» (dove “Mars”, sta per Marsiglia). 

Un quadro che marca quanto le diversità, ricchezza potenziale, siano divenute pretesto di colpevolizzazione, come afferma La Fouine, in Capitale du crime: «On sera toujours exclus même si nos cheveux sont défrisés». Il breve documentario, Le plafond de verre del 1992 di Sophie Bissonnette, e ancor più il documentario Le plafond de verre / Les Défricheurs [91] del 2004, di Yamina Benguigui (francese di origine algerina) ­– che apre una finestra sui migranti di seconda o terza generazione, minoranze questa volta diversamente “visibili” che hanno conseguito una formazione superiore – mostra i costi aggiuntivi della segregazione spaziale e sociale: limitando le aspettative di miglioramento, l’immagine residua della “banlieue” corrisponde, comunque, a un piccolo Maghreb senza un domani [92], dove tutti esperiscono il rifiuto di una identità e di radici considerate non integrabili, tra speranza e sconfitta. Tema presente in numerosi testi da cui tracimano rassegnazione e attese, tra essi ­C’est ma vie di Lacrim [93], dove in un ipotetico dialogo con i propri figli, si auspica un diverso futuro, richiamando la rabbia, come ci ricordano gli IAM in Le Raisons De La Colére, e riferendosi all’enorme peso di un destino segnato anche per le persone meno fragili. 

Ne Il decalogo delle periferie, M. Augé, riflette retrospettivamente sul processo di migrazione, affermando che le politiche hanno considerato e considerano i migranti come “temporanei”: essi, prosegue l’antropologo, si sentirono accettati solo in apparenza, percependosi come cittadini di serie B [94], pertanto stranieri. Come nota U. Beck (in Melotti [95]) essi furono e sono, dalle restituzioni più vicine al potere, narrati come inammissibili, talvolta come “superflui in rivolta”, ai quali si imputa un dichiarato rifiuto delle regole. È facile, in tal modo, per il potere centrale autore di politiche discriminanti presentare i quartieri dei migranti come polveriere pronte ad esplodere, con narrazioni che, nota Alan Touraine, sottolineano come nel mondo capitalista, le persone sono definite per ciò che fanno non per ciò che sono. Intellettuali come Adil Jazouli [96], che fin dagli anni ‘90 ha posto in luce la questione giovanile, mostrano, di contro, come la banlieue sia un concentrato non solo di rabbia, ma anche di speranza e vita. 

L’immersione nel Rap­ fin dalle sue origini americane (testi, video e location scelte nei clip) – evidenziando un proficuo slittamento prospettico sul piano empirico per esplorare gli intrecci e i conflitti tra le narrazioni e tra le culture potenzialmente ibridate, le azioni, le pratiche locali e le costruzioni globali generalizzanti delle istituzioni francesi e nordamericane – oltre a mostrare l’interrelazione tra le culture imposte e le culture reattive (le uniche realmente contaminate) di alcuni migranti, pone in evidenza la reazione delle comunità (alcune più coese e  resilienti, altre meno), e la questione giovanile in rapporto al passato e al disagio quotidiano vissuto da specifici gruppi di abitanti. Abitanti americani e francesi, cittadini e cittadine solo in teoria, descritti come latori di uno specifico schema comportamentale, erano e sono forzati a vivere in uno spazio loro assegnato, degradato e rigido, il quartiere del Bronx e gli HLM, le quali forme, concepite attraverso precise idee, modalità programmatiche e progettuali, riflettono le derive urbanistiche e civiche, elaborate tramite un progetto autoritativo e non partecipato, e in virtù di un controllo sullo spazio urbano che non tiene conto delle comunità insediate e della loro cultura.

 I graffiti nel Bronx, anni ‘70


I graffiti nel Bronx, anni ‘70

Diventa interessante, allora, esplorando la nascita del Rap e le sue declinazioni in tali differenti ambiti geografici, notare, anche, come, per quanto attiene la comunità nera, il Rap sia stato una tra le molteplici modalità tramite cui la comunità si è strutturata e ha acquistato coesione e coerenza interna, mentre per ciò che riguarda la comunità franco-maghrebina il ruolo del Rap non abbia rivestito analoga forza, ma sia rimasta più strettamente legata ai giovani.

Ciò che  appare comune, invece, risiede negli esiti delle politiche urbane intrecciate a quelle federali e nazionali, non solo relative allo spazio, che hanno, in ambedue i casi studiati, prodotto alienazione e una “periferizzazione” intenzionale[97] che racconta, da un lato, il riproporsi della modalità di segregazione di matrice ottocentesca (il connubio fabbrica-residenza operaia, l’invisibile esterno al “centro”, descritto da Engels) e dall’altro la supremazia del capitalismo maturo quale agente sulla formazione dei contesti socio-spaziali, rappresentando gli effetti di governo che hanno colpito duramente le popolazioni più deboli, quelli cui alienare i diritti. Un fenomeno, complesso e rovinoso, che, riguardando ambiti non solo francesi o nordamericani, può assumere valore generale.   

Dialoghi Mediterranei, n. 62, luglio 2023 
 [*] Questo saggio nasce dalla sintesi e dall’integrazione di un contributo da me presentato al Convegno internazionale: Peoples and Cultures of the World, tenutosi, dal 30 giugno al 1 luglio 2022, presso Università degli Studi di Palermo. Il mio saggio, intitolato “Le ragioni della rabbia”. La “cittadinanza incompleta” e l’urbanistica francese, tra diritto alla città, HLM, migranti e Rap, qui richiamato, ha costituito la struttura portante per la parte inerente al Rap franco-maghrebino, ed è stato integrato da una ricapitolazione relativa agli approfondimenti da me condotti per il recente PCTO da me diretto presso il Liceo Cannizzaro di Palermo (aprile-maggio 2023). Il PCTO (Rap e Cinema), costituito da alcune lezioni sul Rap inteso come forma di rivolta sociale e come pratica di ri-territorializzazione, ha previsto una parte laboratoriale (con i rapper palermitani Picciotto e Othello Man che hanno lavorato con gli allievi e le allieve di alcune classi del Liceo) e ha puntato a ricostruire le origini del Rap stesso, nel contesto newyorchese del Bronx. Si sottolinea che, per quanto attiene i contributi dei rapper franco-maghrebini, si è preferito riportare alcuni frammenti tratti dai testi, per la loro estrema pregnanza e per la stretta connessione con le dinamiche di potere e di trasformazione spaziale, qui analizzate. E si è preferito non tradurli, soprattutto per le contaminazioni linguistiche, per la persistenza di numerosi termini arabi e per l’uso del Verlan. 
Note
[1] James J. Brown (1933-2006), nato a Barnwell, nella Carolina del Sud, attivo dal 1954, fu tra gli indiscussi riferimenti dei giovani rapper newyorchesi; il brano funk e R&B: Give it up or turnit a loose, https://www.youtube.com/watch?v=BjsdJiGwkj8, del 1969 è in tal senso un capolavoro emblematico, essendo legato agli esordi dell’Hip Hop, dato che lo stesso Kool Herc poneva su due piatti le copie del pezzo, contenuto nell’album Sex Machine, eseguendo un esteso mix del breakdown delle percussioni.
2 Carmichael, all’epoca presidente dello Student Nonviolent Coordinating Committee, coniò il termine durante la marcia dei neri americani attraverso lo stato del Mississippi, nel 1966.
[3] Nell’agosto del 1960, King incontrò J. F. Kennedy, in campagna elettorale, che sostenne la posizione dei diritti civili e di voto dei neri. Quando Kennedy ottenne la nomination invitò King a tenere un discorso, ma dovendo invitare anche il competitor, R. Nixon, l’iniziativa non fu portata avanti.
[4] Vd. M. Berman, Modernism in The Streets: A Life and Times in Essays, Verso Book, London & New York City, 2017.
[5] Moses, nato nel 1888 e morto nel 1981, fu attivo a New York dalla metà degli anni Venti agli anni Sessanta del Novecento. Figura polarizzante e controversa, ebbe un macro obiettivo, mirato a una specifica “utopia concreta”: riformare NYC, attraverso un modello ideologico e una razionalizzazione funzionale tecnico-amministrativa, che contrastava la diffusione dei poteri in ambito gestionale, teneva assai poco in conto le pratiche quotidiane delle persone (anzi le avversava), non si curava della stratificazione storica da preservare, né in senso estetico, né in senso sociale o civico. Affermando, “tu puoi disegnare qualunque immagine voglia su una lavagna pulita o assecondare ogni fantasia, quando progetti Nuova Delhi, Canberra o Brasilia, ma quando agisci in una metropoli tanto densa e costruita devi aprirti la “strada” come se usassi un’ascia da macellaio”, Moses esprimeva appieno la sua pragmatica filosofia, come nota R. Caro, in The Power Broker: Robert Moses and the Fall of New York, Knopf, 1974.
[6] Vd. J. Stromberg, “Highways gutted American cities. So why did they build the”, May 11, 2016, in «Vox», disponibile al sito: https://www.vox.com/2015/5/14/8605917/highways-interstate-cities-history.
[7] K. Wilhite, “Decentering Whiteness: Race, Democratic Citizenship, and Multiethnic American Suburbs”, in «Journal of Urban History», 1-7, March 6, 2023.
[8] Un interessante film, Suburbicon (di G. Clooney, del 2017, soggetto dei fratelli Coen, col. 105 min.) racconta il conflitto interrazziale scatenatosi a seguito dell’insediamento di una famiglia nera, in un contesto residenziale xenofobo, nella emblematica cittadina modello caratterizzata da abitazioni unifamiliari tipo. Contraltare a Suburbicon potrebbe essere Fences (di e con D. Washington, del 2016, col. 138 min.) che narra la storia di una coppia nera a Pittsburgh (un netturbino e una casalinga), e del loro figliolo Cory. Il film, che affonda nella carne viva della discriminazione razziale, è tratto da una pièce di un importantissimo drammaturgo americano (figlio di un tedesco e di una afroamericana), August Wilson.
[9] Vd. K.-Y. Taylor, “How Real Estate Segregated America”, in «DISSENT», Fall, 2018; P. Mullins, “Color and Conformity: Race and Integration in the Suburb”, in «Archeology and Material Culture», Sept 2022.
[10] Strumento cardine di tale visione e frutto del primo Novecento, il Regional Plan of New York and its Environs (1929-31). Un ambizioso strumento urbanistico di area vasta che ambiva a una sorta di ridisegno utopico della New York del XX secolo, fondato su due parole chiave: ricentralizzazione e infrastrutturazione ferroviaria. Manhattan sarebbe stata il centro vitale, il fulcro dell’economia, della cultura e delle relazioni sociali, accessibile, secondo l’idea del Piano, grazie a un sistema di trasporti di massa ampliato, estremamente raffinato e strutturato, quello delle ferrovie. Reputato in quella fase l’unico possibile per connettere i 5 Distretti con la Regione urbana e con il resto del Paese. Tra gli scopi del Piano vi era quello di decongestionare Manhattan sia dagli usi industriali presenti, che da quelli definiti impropri (alcune produzioni soft, es quella dell’abbigliamento), compiendo una netta inversione di tendenza rispetto al trend di sviluppo urbano che sino a quella fase temporale si era compiuto (senza alcun piano), non solo a Manhattan, ma nell’intera Greater New York. Tema cardine era quello del controllo e della interconnessione che, in seguito e non solo in ambito strettamente urbano, Robert Moses sviluppò con la creazione delle highways.
[11] I dati di produzione delle auto in Nord America in quella fase erano in ascesa: un americano su sei era impiegato nel settore e nell’indotto relativo. Gli Stati Uniti divennero il maggior produttore di automobili del pianeta, mentre nelle città sorgevano drive-store, drive-restaurant e cinema drive-in. Ogni americano con un buon lavoro possedeva un’auto. Il decennio successivo alla Seconda Guerra Mondiale iniziò con l’immatricolazione di 25 milioni di automobili; la rete autostradale, già dal 1955, era concepita come un sistema di supporto in cui muoversi velocemente, istituiva un paesaggio nuovo, sgranato e fortemente comunicativo, anche per i numerosi cartelloni pubblicitari.
[12] Pur essendo un tema pressante sin dal XIX secolo, il 1949 fu uno spartiacque con l’introduzione dell’Housing Act che offriva sussidi federali per le riqualificazioni urbane; vd. William J. Collins, Katherine L. Shester, Slum Clearance and Urban Renewal in the United States, National Bureau of Economic Research, 2011, disponibile al sito: www.nber.org/system/files/working_papers/w17458/w17458.pdf.
[13] Vd. R. Caro, “The Power Broker I. The best bill-drafter in Albany”, in «The New Yorker», 14 July 1974; R. Caro, “The Power Broker II. If the End Doesn’t Ju- stify the Means, What Does?”, in «The New Yorker», 21 July 1974; R. Caro, “The Power Broker III. How Robert Moses Got Things Done”, in «The New Yorker», 4 August 1974; R. Caro, “The Power Broker IV. Point of no Return”, in «The New Yorker», 11 August 1974. I saggi di Caro, oltre la già citata biografia, restituiscono nel dettaglio le azioni e le strategie di Moses e mettono in luce anche l’enorme quantità di funzionari amministrativi, politici, banchieri, persino sindacati coinvolti nelle operazioni di pianificazione e di gestione urbana, in connessione con una economia eterodiretta, locale e nazionale.
[14] Pur essendo un tema pressante sin dal XIX secolo, il 1949 fu uno spartiacque con l’introduzione dell’Housing Act che offriva sussidi federali per le riqualificazioni urbane; W. J. Collins, Katherine L. Shester, Slum Clearance and Urban Renewal in the United States, National Bureau of Economic Research, 2011, disponibile al sito: www.nber.org/system/files/working_papers/w17458/w17458.pdf.
[15] Alcuni servizi come parchi o piscine pubbliche erano raggiungibili percorrendo tunnel la cui altezza, durante l’era Moses, era stata progettata in modo che non potesse essere attraversata dagli autobus. I neri che, per ovvie ragioni, in gran parte non possedevano le automobili e quindi erano costretti a spostarsi in autobus o con la metropolitana, non erano spesso in grado di raggiungere i servizi e le attrezzature pubbliche.
[16] Vd. Ad esempio, oltre al corpus di romanzi e saggi dello scrittore, il frammento di un’intervista, rilasciata a K. Clarck nel 1963, disponibile al sito: https://www.youtube.com/watch?v=T8Abhj17kYU.
[17] F. Schiavo, “Due Città. Dalla forma urbis ottocentesca alla metropoli contemporanea: la retorica dello spazio”, in «Dialoghi Mediterranei», n. 31, maggio, 2018, disponibile al sito: http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/due-citta-dalla-forma-urbis-ottocentesca-alla-metropoli-contemporanea-la-retorica-dello-spazio/.
[18] Se i film spesso costruivano stereotipi, vd. I guerrieri della notte (1979), Bronx (1993), Bronx 41 distretto di polizia (1981), American Gangster (2007), Il Padrino (1972), Green Book (2018), Vampires vs. the Bronx (2020), The Get Down (2016), Dollari sporchi (1995), I migliori del Bronx (1991), alcuni documentari ricercano le ragioni storiche, vd. The Bronx Was A “War Zone” In The 1970s | Street Justice: The Bronx, disponibile al sito: https://www.youtube.com/watch?v=VhChJ4sEw84;
Who Burned the Bronx? PBS Film “Decade of FireInvestigates 1970s Fires That Displaced Thousands, disponibile al sito: https://www.youtube.com/watch?v=x3Tyj0AQu0o.
[19] E. Goffman, Stigma. L’identità negata, Ombre Corte, Verona, 2003.
[20] J. Jonnes, South Bronx Rising. The Rise, the Fall, and Resurrection of American City, Fordham University Press, Fordham, 2022.
[21] H. Marsala, “Addio a Phase 2, pioniere dell’hip-hop. Il mondo del writing perde un fratello e maestro”, in «Artribune», 14 dicembre, 2019, disponibile al sito: https://www.artribune.com/arti-visive/street-urban-art/2019/12/addio-a-phase-2-pioniere-dell-hip-hop-il-mondo-del-writing-perde-un-fratello-e-maestro/; vd. “Intervista a Phase 2”, disponibile al sito: http://adammansbach.com/other/phase.html; A. de Palma (a cura di), Introduzione, in Culture Aerosol. Storie di writers, Odradek, Roma, 1998.
[22] Del 1991, tratta dell’incremento dell’uso del crack. Del regista statunitense di origine messicana, Mario Cain Van Peebles, il film ambientato nel 1986 a New York, vanta un interessante cast, tra cui Ice-T un rapper statunitense che vive a Los Angeles. La colonna sonora (non solo Hip Hop), l’album si intitola Music From The Motion Picture New Jack City, contiene brani di Ice-T, Christopher Williams, Guy, Jonny Gill, Keith Sweat, Danny Madden, Queen Latifah, Color Me Badd, Essence, F.S. Effect. A forte impronta R&B, Swing e Soul, oltre che Rap.
[23] Contraltare cultura bianca inaccessibile ai neri, Saturday Night Fever, film del 1977 diretto da John Badham, narra la vita di Tony Manero, alcune clip: la danza di Manero: https://www.youtube.com/watch?v=fT42ocqmI9s;
Tony & Stephanie, Tango, scene alla dance school: https://www.youtube.com/watch?v=e-nTfgDy7pM;
Tony & Stephanie: https://www.youtube.com/watch?v=z7G1y70Al0A
[24] Vd. l’intervista: “Cindy Campbell y DJ Kool Herc raccontano la nascita dell’Hip Hop”, disponibile al sito: https://www.youtube.com/watch?v=btXVvpwgHcQ
[25] Vd. https://youtu.be/WY-Z6wm6TMQ; vd. sempre di Sugarhill Gang, Apache (Jump on it), disponibile al sito: https://www.youtube.com/watch?v=YKhi9ITkRgA,
[26] Intervista, “Kool Herc “Merry-Go-Round” technique”, disponibile al sito: https://www.youtube.com/watch?v=7qwml-F7zKQ. “Kool DJ Herc, Merry Go Round”, come avviene il passaggio da un vinile all’altro, come si mixano i suoni con la drum machine, disponibile al sito: https://www.youtube.com/watch?v=Hw4H2FZjfpo.
[27] Tecnica di manipolazione dei vinili, che consente ai DJ di produrre una nuova base ritmica, mediante il turntablism creando musica mediante giradischi e mixer.
[28] “The Bronx Anthem: Origin of Hip Hop”,
a proposito delle origini del rap e dell’Hip Hop nel Bronx, disponibile al sito: https://www.youtube.com/watch?v=v1jtZwV_zL4;
The Get Down, S1, Ep1, Intro, disponibile al sito: https://www.youtube.com/watch?v=NME-en3qYQw
[29] Vd. Sugarhill Gang, il brano, Rapper’s Delight, del 1979, disponibile al sito: https://www.youtube.com/watch?v=mcCK99wHrk0; o Birthday Party, del 1981, dei Grandmaster Flash and Furious Five.
[30] Vd. The Message, dei Grandmaster Flash and The Furious Five, del 1982, il testo tradotto:
È come una giungla a volte/Mi chiedo come faccio a non finire sotto/Vetri rotti ovunque/La gente piscia sulle scale, sai che a loro non importa/Non sopporto l’odore, non sopporto il rumore/Non ho soldi per andarmene, immagino di non avere altra scelta/Topi in soggiorno, scarafaggi nel retro/Drogati nel vicolo con una mazza da baseball/Ho cercato di scappare ma non sono riuscito ad andare lontano/ Perché un uomo con un carro attrezzi ha preso possesso della mia macchina/Non spingermi perché sono vicino al baratro/Sto cercando di non perdere la testa/A volte è come una giungla/Mi chiedo come faccio a evitare di andare sotto/Stare in piedi appeso davanti a me fuori dal finestrino/guardando tutte le macchine che passano, ruggendo mentre soffia la brezza/pazza signora, che vive in un sacco/mangiando dai secchi della spazzatura, era una strega frocio/ha detto che ballerà il tango, salta il fandango leggero/Una principessa di zirconi sembrava aver perso i sensi/Giù al peep show a guardare tutti i brividi/Così può raccontare le sue storie alle ragazze a casa/È andata in città ed è diventata così sediziosa/Doveva farlo prendi un magnaccia, non ce la farebbe da sola/A volte è come una giungla/Mi chiedo come faccio a non finire sotto/Mio fratello se la cava male, ha rubato la TV di mia madre/Dice che guarda troppo, semplicemente non è in salute/Tutti i miei figli di giorno, Dallas di notte/Non riesco nemmeno a vedere la partita o la rissa di Sugar Ray/Gli esattori mi chiamano al telefono/E spaventano mia moglie quando non sono a casa/Ho un’educazione da barbone, inflazione a due cifre/Non riesco a prendere il treno per andare al lavoro, c’è uno sciopero alla stazione/Neon King Kong in piedi sulla mia schiena/Non riesco a smettere di girarmi, si è rotto il “sacroiliaco”/Emicrania, membrana cancerosa/A volte penso che sto impazzendo/Giuro che potrei dirottare un aereo!/A volte è come una giungla/Mi chiedo come faccio a evitare di affondare/Mio figlio ha detto, papà, non lo so non voglio andare a scuola/Perché l’insegnante è un idiota, deve pensare che sono uno stupido/E tutti i bambini fumano spinelli, penso che sarebbe più economico/Se trovassi un lavoro, se imparassi a fare lo spazzino /O ballare al ritmo, trascinare i piedi/Indossare camicia e cravatta e correre con i brividi/Perché è tutta una questione di soldi, non è una cosa dannatamente divertente/Devi avere una truffa in questa terra di latte e miele/ Hanno spinto quella ragazza davanti al treno/l’hanno portata dal dottore, le hanno ricucito il braccio/hanno pugnalato quell’uomo proprio nel cuore/gli hanno fatto un trapianto per un nuovo inizio/non posso camminare per il parco perché è così pazzo dopo il tramonto/tieni la mano sulla mia pistola perché mi hanno messo in fuga/mi sento un fuorilegge, ho rotto la mia ultima mascella di vetro/sentendoli dire: “ne vuoi ancora?”/vivere su un’altalena/A volte è come una giungla/Mi chiedo come faccio a evitare di sprofondare/Un bambino nasce senza uno stato d’animo/Cieco alle vie dell’umanità/Dio ti sta sorridendo ma è anche accigliato/Perché solo Dio sa cosa passerai/Crescerai nel ghetto vivendo di second’ordine/E i tuoi occhi canteranno una canzone chiamata odio profondo/I posti in cui suoni e dove stai/Sembra un grande vicolo/Ammirerò tutti i truffatori/Teppisti, magnaccia e spacciatori e i grandi affaristi/Guidare grandi auto, spendere venti e decine/E vorrai crescere per essere proprio come loro, eh/Contrabbandieri, scrambler, ladri, giocatori d’azzardo/borseggiatori ambulanti, persino mendicanti/tu dici che sono figo, eh, non sono uno stupido/ma poi finisci per abbandonare il liceo/ora sei disoccupato, tutto non vuoto/camminando in giro come se fossi un bel ragazzo Floyd/Diventato un ragazzino rapinatore, ma guarda cosa hai fatto/Sono stato inviato per un’offerta di otto anni/Ora la tua virilità è stata presa e tu sei un Maytag/Trascorri i prossimi due anni come un frocio sotto copertura/Essere usato e maltrattato per servire come l’inferno/Finché un giorno, sei stato trovato impiccato morto nella cella/Era chiaro che la tua vita era persa/Avevi freddo e il tuo corpo oscillava avanti e indietro. Ma ora i tuoi occhi cantano la triste, triste canzone/di come hai vissuto così in fretta e sei morto così giovane/a volte è come una giungla/mi fa pensare a come faccio a evitare di affondare.
[31] Vd. Grandmaster Flash & The Furious Five, The Message, disponibile al sito: https://www.youtube.com/watch?v=0g-Yk9F2mM8.
[32] Fino dagli anni ‘70 la diffusione del crack, diffuso tra le categorie socialmente svantaggiate, che esplose ulteriormente tra il 1984 e il 1990 anche per i costi decisamente più bassi di quelli di altre sostanze stupefacenti, era già rilevante. La dipendenza si sviluppava già dalla prima dose e l’uso provocò un numero altissimo di decessi. Nel 1986 Keith Haring dipinse un murales in East Harlem, intitolato Crack Is Wack. Dopo il completamento del murales Haring fu arrestato per vandalismo dal New York City Department of Parks and Recreation. Vd. “Keith Haring’s Crack is Wack mural – From illegal to protected”, in Public Delivery, 2017, disponibile al sito: https://publicdelivery.org/keith-haring-crack-is-wack/; K. McGrath, “A Major Keith Haring Mural in New York City Gets a Second Life”, in «Architectural Digest», Retrieved, December 4, 2019.
[33] Vd. M. Hale, Review, “The Get Down”, is “West Side” with Rappers and Disco Queens”, in «The New York Times», August 11, 2016. Per il poema di Ezekiel, The Get Down, S1, Ep1, https://www.youtube.com/watch?v=h1SZoWjkdEg. L’incipit onomatopeico, “Boom, then crash”, ha un forte effetto sull’ascoltatore, preparandolo a ciò che il poema dirà successivamente. Il testo:
Boom, then crash /The shattering of glass /I dive to the floor /(il vetro frantumato/ mi tuffo a terra) Busted my ass /What the hell was that?Was all that I said/Then I seen the pool of blood (ho visto la pozza di sangue e ho visto che mia madre era morta)/Then I see my moms was dead/No emotion in the commotion (nessuna emozione)/I wasn’t even sad/Even when I learned the bullet was meant for my dad/Vietnam made pops crazy/He was already half dead/So Why couldn’t it had him that they shot in the head?/All the news that fits the print/Momma’s death went unreported, not a whiff, word, or hint/They don’t care about us nigga is how my pops explained/But i didn’t know I was a nigga until my dad proclaimed It (La morte di mamma non è stata denunciata, non un soffio, una parola o un accenno. A loro non importa di noi, negro, è come ha spiegato mio padre. Ma non sapevo di essere un negro finché mio padre non l’ha annunciato)/Six months later my pops was dead too/Drug related shots fired/His skin turned cold blue/On the news that night the president’s wife got a new hairdo/The news guy said I like it, how about you?/No word about my pops on the post or CBS/Why was that you ask?/Take a fucking guess/And yeah why is that?/Is what politicians should be asking/But/who’s got time for questions/When your skiing up in Aspen/Bronx get gun shots to the head/And all yall swerving us as hasbeens (Al telegiornale quella sera la moglie del presidente si è fatta una nuova pettinatura. Il tizio del telegiornale ha detto che mi piace, e tu? Nessuna parola sui miei pop sul post o sulla CBS. Perché hai chiesto? Prova a indovinare, cazzo. E sì, perché è così? È quello che dovrebbero chiedersi i politici. Ma chi ha tempo per le domande? Quando scii ad Aspen, Il Bronx riceve colpi di pistola alla testa. E tutti voi ci state facendo deviare )/My mom was so lovely she would have made your head spin/Level the playing field and y’all see who really win/And yeah I got anger/But i don’t let it take me down/Cause my/momma taught me better/And she holds me up when I fall down/Rest in Peace Ma/Don’t worry about your son/Someday i’ll make you proud/Because yeah I am the one.
Alcuni versi: “Vietnam made pops crazy/He was already half dead”, ci ricorda che molti veterani del Vietnam hanno sofferto e ancora soffrono di disturbo post traumatico da stress, il padre del protagonista ritorna, come si dice nel testo, a casa “mezzo morto”; All the news that fits the print”, la morte della madre, narrata nel testo, non viene riportata dalle news, ciò evidenzia come la stampa sia pilotata e insabbi le storie di vita dei quartieri sensibili. “Rest in Peace Ma/Don’t worry about your son/Someday i’ll make you proud”, rispecchia la relazione del protagonista con la madre, con la quale egli comunica come se scrivesse una lettera. La madre può stare tranquilla dato che il figlio la renderà orgogliosa grazie alla sua unicità.
[34] Vd. C. Caniglia Rispoli, A. Signorelli (a cura di), La ricerca interdisciplinare tra antropologia urbana e urbanistica, Guerini, Milano, 2008.
[35] Un importante gruppo marsigliese Hip Hop, noto anche come FF, tra i pionieri del genere, attivo dal 1994. Composto da Le Rat Luciano, di origine spagnola e martinicana, e numerosi altri rapper tra cui Sat e Don Choa, e da un ballerino di breakdance. Insieme ad Akhenaton (IAM) gli FF parteciparono alla colonna sonora del film del 1998, Taxxi, di Luc Besson.
[36] Si rimanda anche all’omonimo film del 2019 diretto da Kery James e Leïla Sy, una regista militante, nata nel 1977, di madre francese, padre senegalese e fondatrice nel 2004 del collettivo antirazzista Devoirs de mémoires che ha lo scopo principale di preservare la storia relativa alla schiavitù e alla colonizzazione francese. Oltre a ciò il collettivo tratta e si impegna contro la lotta al razzismo e alle discriminazioni connesse, a prescindere dall’etnia. Di recente il collettivo si è speso per combattere l’altissima astensione al voto nelle banlieue, invitando i giovani a iscriversi alle liste elettorali con una iniziativa chiamata Devoir de réagir. Il film Banlieusards con Kery James e Chloé Jouannet, distribuito e prodotto da Netflix, tratta di una famiglia, i Traoré ­– composta da tre figli e da una madre – che abita in un sobborgo di Bois-l’Abbé, tra i comuni di Chennevières-sur-Marne e Champigny-sur-Marne. La pellicola è di grande interesse anche perché mostra le possibili traiettorie di vita dei giovani delle banlieue e perché consente, ascoltando i dialoghi dei protagonisti, di riflettere sui differenti punti di vista (Stato/Abitanti) e sulle responsabilità dello Stato rispetto alla condizione delle periferie, anche grazie a un ottimo artificio narrativo, fondato sull’eloquenza.
[37] Membro del gruppo Rap Mafia K’1 Fry nonché tra i fondatori del gruppo Hip Hop Thug Life, Kery James è nato in Guadalupa, nel 1977, poi convertitosi all’islamismo; si è trasferito con la famiglia nel 1984 a Orly, un sobborgo di Parigi, caratterizzato da numerosi quartieri classificati ZFU (Zones Franches Urbaines, “zone sensibili” dove dominano gli alloggi collettivi HLM) alcuni attualmente in ristrutturazione. Sono ZFU: La Pierre au Prêtre, Les Hautes Bornes, Calmette, Les Tilleuls, Les Aviateurs, Les Navigateurs.
[38] Gli IAM (pronuncia: I am), pionieri e rilevanti protagonisti del panorama Hip Hop e Rap, sono un gruppo fondato a Marsiglia nel 1984-85. Composto da: Akhenaton (nato nel 1968 nel Dipartimento Bouches-du-Rhône il cui capoluogo è Marsiglia, la famiglia è di origini italiane), convertitosi all’islamismo è anche produttore; Imhotep (nato in Algeria nel 1960) DJ, producer e tecnico del suono, oltre che rapper, vanta un’alta formazione scolastica, non troppo diffusa tra i rapper, e una carriera da insegnante, durata alcuni anni; Shurik’n (distintosi anche per il ruolo da solista e con il fratello), è nato nel 1966, a Marsiglia; Khéops; Kephren.
[39] I Suprême NTM (l’acronimo sta per “Nique ta mère”), è stato fondato nel 1989 ed è composto da due artisti, riconosciute colonne portanti dell’Hip Hop francese, originari del dipartimento Senna-Saint-Denis (nell’Île-de-France). I testi, che registrano le lotte e i disagi, sono densi di questioni sociali; vedi, ad esempio: Police; Le monde de demain; La Fièvre, Odeurs de Souffre, Paris Sous Les Bombes.
[40] Vd. F. Schiavo, Parigi, Barcellona, Firenze: forma e racconto, Sellerio, Palermo, 2004; F. Schiavo, Lo schermo trasparente. Cinema e Città, Castelvecchi, Roma, 2022; vd. es. La Haine, 1995 di M. Kassovitz; Les Misérables, 2019 di Ladj Ly; Athena di R. Gavras del 2022, ambientato a Essonne, un dipartimento nell’Île-de-France, comune citato in Sarkozik («Essone c’est la West Coast») o in D.3.32, entrambi di Sinik; Dheepan di J. Audiard del 2015. A tali film noti va aggiunto un patrimonio più indipendente di corti, serie e film, tra essi Taxxi, che vedono i rapper franco-maghrebini protagonisti.
[41] A. Fadloullah, “Colonizzazione ed emigrazione in Maghreb”, in R. Cagiano De Azevedo, “Migration et cooperation au développement”, «Etudes démographiques» n. 28, Direction des affaires sociales et économiques, edizioni del Consiglio d’Europa, 1994.
[42] Dalla metà degli anni ‘50 gli stati dell’Africa settentrionale furono caratterizzati dalla presenza di movimenti indipendentisti. Libia, Egitto, Tunisia e Marocco divennero indipendenti rispettivamente nel 1951, 1952, 1956. L’Algeria, colonia francese dal 1883, dopo un lungo conflitto (La battaglia di Algeri, 1956-1962) nel luglio del 1962 ottenne l’indipendenza. Immediatamente dopo più di un milione e mezzo di profughi si riversarono in Francia.
[43] Le cui cause possono ascriversi a questioni esogene ed endogene, generali e locali. Tra quelle generali va segnalata il fenomeno di deindustrializzazione che ha riguardato l’intera Europa, tra fine degli anni ‘70 e gli ‘80.
[44] Questione ricorrente nei brani dei rapper.
[45] Il 3 dicembre 1983 giunsero a Parigi circa 100 mila giovani, che erano partiti, solo una decina, da Marsiglia. Il film del regista Nabil Ben Yadir, La Marche, narra la marcia che vide protagonisti un gran numero cittadini francesi di origine maghrebina, figli di immigrati. In quell’anno Mitterrand aveva ricevuto un gruppo di essi e concesso un diritto: la carta di soggiorno di 10 anni per gli immigrati, diritto superfluo e non richiesto dal gruppo in quanto i giovani erano già di nazionalità francese. Partiti il 15 ottobre 1983 da Marsiglia avevano percorso verso Nord l’intera Nazione per denunciare il razzismo e chiedere che si garantisse l’uguaglianza dei diritti. A Lione, da un agente, fu gravemente ferito Toumi Djaïdja che aveva difeso un amico aggredito da un cane poliziotto.
[46] Vedi, A.M. Merlo, “La marcia lunga trenta anni”, in «il manifesto», 29 novembre, 2013, disponibile al sito https://ilmanifesto.it/la-marcia-lunga-trenta-anni.
[47] Comune nel dipartimento della Senna Saint-Denis (Nord-Est della corona parigina) tra gli ambiti dove vi è una grande concentrazione sia di Grands ensemble, sia di migranti della prima e seconda generazione provenienti dalle ex colonie, che di un alto tasso di giovani.
[48] Gruppo fondato, nel 1997, originario della Val-d’Oise, è composto da El Tunisiano (nato nel 1979, di origine tunisina), Aketo (nato nel 1980, di origine algerina), Black Renégat/Blacko (nato nel 1979, originario de La Reunione) e di DJ Boudj (nato nel 1980, di Saint-Denis).
[49] Rapper di origini congolesi, nato nel 1979, trasferitosi a Parigi, vanta un’alta formazione e una laurea in mediazione culturale, alla Sorbonne Nouvelle ; Vd. Par AFP, “E. Zemmour fait condamner un rappeur (MAJ)”, in «Le Figaro», https://www.lefigaro.fr/flash-actu/2011/10/26/97001-20111026FILWWW00448-eric-zemmour-fait-condamner-youssoupha.php; S.A., “Eric Zemmour fait condamner une chanson du rappeur Youssoupha“, in «La Depeche», 26/10/2011, https://www.ladepeche.fr/article/2011/10/26/1201757-eric-zemmour-fait-condamner-le-rappeur-youssoupha-maj.html.
[50] Da À force de le dire di Youssoupha: On me reproche ­les memes colères/les memes foutus themes/Moi j’fais du rap populaire dans tous les sens du terme/Nos esprits sont descendus à force de les réduire alors nos speechs ne seront entendus qu’à force de les dire.
[51] Dagli HLM provengono numerosi rapper, tra cui Sniper, 113 (gruppo Hip Hop, fondato nel 1994, originario di un sobborgo di Parigi, Vitry-sur-Seine); Mafia K’1 Fry (“K’1 Fry” è un termine verlan, sta per africano); vedi, La Cerise Sur Le Ghetto, di Mafia K’1 Fry, «J’ai mangé ma part du ghetto, maintenant je veux la cerise»; Kery James. Alcuni interpreti “fotografano” fin dagli anni ‘80 la vita dei quartieri, come Renaud nel pezzo Dans mon H.L.M. che testimonia l’alta densità abitativa e il tessuto sociale ancora misto in quegli anni («Au rez-d’-chaussée, dans mon HLM, Y a une espèce de barbouze, Qui surveille les entrées, Qui tire sur tout c’qui bouge, Surtout si c’est bronzé»); Mister You, nell’album HLM2; La Swija, in H.L.M. («Tous ensemble en bas des tours, On construit nos vies dans le ghetto (…) Passe nous le mic et une instru qu’on fasse plané les tours (…) Parties de foots improvisés sur le bitume»); Rohff in L’Oseille; Tryo in L’hymne de nos campagnes o in Bidonville («Regarde là, ma ville, Elle s’appelle Bidon, Bidon, Bidon, Bidonville, Me tailler d’ici, à quoi bon? (…) Je verrais toujours de la merde, Même dans le bleu de la mer»); altri rapper scelgono gli HLM come location, es. gli IAM, ne Nés sous la même étoile, in Je suis Marseille, soprattutto in Les Raisons De La Colère; il duo PNL (originari del quartiere Tarterêts, una area sensibile, a tal proposito, vd., O. Bertrand, “La délinquance chute aux Tarterêts. La cité s’apaise”, in «Liberation», 8 mars, 1999, diponibile al sito: https://www.liberation.fr/societe/1999/03/08/la-delinquance-chute-aux-tarteretsla-cite-s-apaise_266196/. Ancora: i PNL con Le monde ou rien (location: Le Vele, a Scampia) esoprattutto con Deux Frères («J’suis pas là pour être aimé, faudra t’y faire à l’idée (…) J’ai grandi dans le zoo, Je suivais les cris dans la jungle, les pas de grand frère, Papa nous a cogné tête contre tête»), che riprende la visione della citè dall’alto così intensa come in La Haine; Jo Le Phéno in La Rue, e Bavure; e ancora i Fonky Family in Art de la Rue; o Zone Interdite di Sinik; Kamelancien in Peine de mort, e Le Cri de ma Communaute; in Capitale du Crime, Capitale du Crime2 di La Fouine o L’immortale (alle Vele), di Lacrim.
[52] Nato in un sobborgo di Marsiglia nel 1986, è di origine algerina. Il verso, «On était cachés dans le ghetto, J’avais peur de me faire cramer par mon frérot, Traîner dans le métro, on esquivait les contro», restituisce la condizione rispetto ai conflitti interni e a quelli con la polizia.  
[53] Vale la pena di riflettere su tale definizione che ripropone e strumentalizza la concezione elitaria della società e ciò che José Ortega y Gasset, nel suo La rebelión de las masas (pubblicato tra il 1927 e il 1929), identifica come “barbari verticali”: coloro che non sono stranieri, ma parlano la “nostra” lingua e vengono considerati “hombre-masa”, figli “degeneri” emersi da una società spesso totalitaria, privi di cultura e di consapevolezza individuale. Nel caso dei migranti provenienti dal Maghreb andrebbe osservato che tale definizione equivale a uno “stigma”, marcando gli sbarramenti, l’assenza di permeabilità sociale, posti dal potere francese, democratico in teoria, che definisce “cittadini” i migranti, ma li emargina e li considera una folla inferiore e senza qualità. Potrebbe dirsi, allora, che la riduzione a massa di ciò che viene chiamata folla sia compiuta, ab origine, proprio dal potere francese che ha prodotto marginalizzazione anche con la realizzazione dei quartieri destinati ai migranti. Questo tragico incardinamento, migranti/spazio, mostra come le politiche stesse abbiano prodotto una marginalizzazione poi sfociata in rabbia come unica espressione possibile. Vedi, J: Ortega Y Gasset, La rebelión de las masas, Espasa colección Austral, Barcelona,1939.
[54] Presenti solo nelle statistiche, i migranti più anziani non costituiscono alcuna minaccia per i modello francese, non agendo e non protestando.
[55] Da Lettre au président di Mister You: Cher monsieur le président va niquer tes morts/Ton discours est trop amer je répète va niquer ta mère.
[56] Nato a Parigi nel 1980 (14º arrondissement) da madre francese e padre algerino; nel 1984 la famiglia si trasferisce a Les Ulis (nella banlieue), un agglomerato edificato alla fine degli anni ‘60, non direttamente interconnesso con le linee ferroviarie. Les Ulis è sede di un grosso parco industriale, creato nel 1960, di 378 HA, con moltissime imprese che impiegano complessivamente circa 25.000 addetti. La crescita demografica ha registrato un picco all’inizio degli anni ‘80, per puoi subire un lieve decremento negli anni successivi. Tra gli anni ‘60 e i ‘70, tramite le ZUP, vennero edificate circa 10 mila residenze (sul modello HLM), e nel 1968 iniziò il trasferimento di numerosi abitanti anche se ancora l’acqua non fosse disponibile in parecchie case.
[57] Da Les Raisons De La Colère degli IAM: On a voulu me parquer mais j’ai flairé le piège à loup/Et la passion m’a enlevé et élevé comme une louve/Grain de sel dans l’océan j’ai pas voulu me dissoudre/J’ai remonté le courant jusqu’à ce qu’une autre porte s’ouvre/Il me fallait un ailleurs là bas ça sentait trop le souffre/Par manque d’envie combien des nôtres croupissent dans les douves/Laisse moi traîner ma plume sur cette route immaculée/Semer les graines les plus dures les mots les plus ciselés.
[58] È opportuno richiamare come nel tempo la questione del diritto alla città sia stata, oltre che negata, ripresa e trattata da vari documenti redatti e sottoscritti da istituzioni e/o associazioni. Tra essi, ad es., la Carta Europea di Saint Denis del 2000 (concepita come guida per l’azione), la World Charter on the Right to the City di Porto Alegre del 2005, la Carta de la Ciudad de México por el Derecho a la Ciudad del 2007, quella di Barcellona del 2000. La Carta di Saint Denis, adottata dalla Seconda Conferenza Europea delle città per i diritti umani definisce la città, luogo dove vivere la democrazia di prossimità, «come spazio collettivo che appartiene a tutti gli abitanti» (art. 1), e richiama concetti nodali, tra cui la partecipazione al diritto di cittadinanza per tutti gli abitanti, sancendo principi quali l’uguaglianza e obiettivi come l’accrescimento della consapevolezza politica di tutti gli abitanti. Vedi, Carta Europea dei diritti umani nella città, Carta di Saint Denis, in Centro di Ateneo per i Diritti Umani, Università degli Studi di Padova, disponibile al sito: https://unipd-centrodirittiumani.it/it/strumenti_internazionali/Carta-Europea-dei-diritti-umani-nella-citta/88.
[59] Nata a Boulogne-Billancourt, nel 1982, è una rapper francese, di origine argentina, tra le poche donne presenti sulla scena, produce brani potenti, dimostrando quanto, se fosse combattuto il maschilismo imperante, il Rap sarebbe un campo trasversale di espressione. Keny Arkana inizia la sua carriera nel 1996, a Marsiglia, producendo via via testi sempre più maturi e diretti verso una lotta contro il sistema, densi di rabbia, tra Rap e Reggae. Da La Rage di Keny Arkana: La rage d’être autant balafré par les putains de normes/Et puis la rage, ouais la rage d’avoir la rage depuis qu’on est môme/Parce qu’on a la rage, on restera debout quoi qu’il arrive/La rage d’aller jusqu’au bout et là où veut bien nous mener la vie/Parce qu’on a la rage, on pourra plus se taire ni s’asseoir dorénavant/On se tiendra prêt parce qu’on a la rage, le cœur et la foi.
[60] Nato a Parigi (nel quartiere di Belville, 20° arrondissement, zona Nord-orientale) nel 1985, è di origine marocchina. Nel 2006 fu arrestato per detenzione di cannabis. Nel novembre 2021 ha partecipato al progetto collettivo Le classico organisé, su iniziativa di Jul (rapper, nato nel 1990 a Marsiglia), che riunì più di 150 rapper, tra Bouches-du-Rhône e l’Île-de-France. Nel luglio 2022 fu arrestato e condannato a due anni di reclusione.
[61] A tal proposito è utile ricordare, in La Haine, del 1995, di M. Kassovitz, il “viaggio” (lungo circa un’ora) dei tre protagonisti verso Parigi. Il loro arrivo nelle aree ricche e centrali della metropoli (inizialmente sono ripresi sul tetto delle Galeries Lafayette) e il senso di straniamento da essi percepito, mostra con chiarezza come Vinz, Hubert e Saïd (un ebreo, un nero e un arabo) siano profondamente legati al luogo “brutto” (location del film: Cité de la Noé a Chanteloup-les-Vignes, circa 15 miglia a Nord Ovest di Parigi) che considerano, comunque, “casa”; vd. F. Schiavo, Lo schermo trasparente. Cinema e Città, Castelvecchi, Roma, 2022.
[62] Da Le Rue di Jo le Phéno: Elle attaque en traître, elle dit pas un mot/Remplie d’hypocrites son quotidien est parano/(…)/La rue, autrement dit la Street/Elle peut t’enlever la vie, bellek les règles sont strictes/Elle donne les crocs comme une pute avec un string/Chez elle c’est la course au khaliss/Ma gueule putain faut qu’on sprint.
[63] Brano citato anche per l’interessantissimo video in B/N, tra aree incolte e ibride e margini urbani.
[64] Istituite con il Decreto 58-1464 del 31 dicembre 1958. Presenti anche in Algeria, in quella fase ancora francese, nella sola Île-de-France furono edificate, tra il 1958 e il 1969, più di 20 ZUP, per una superficie di 5.900 HA (corrispondente circa alla metà di Parigi) con 140 mila unità abitative. La rapida procedura attuativa – l’ente locale, il comune o lo Stato, stipulavano una convenzione con un ente pubblico o una SEM (Società responsabilità limitata) che espropriava il terreno, lo attrezzava e lo rivendeva ai costruttori, con finanziamenti in parte statali e con approvazioni dei piani regolatori e dei programmi da parte del Prefetto – e una mancanza di politiche sociali adeguate hanno prodotto i quartieri ghetto-dormitorio.
[65]Vd. N. Dendoune, Nos rêves de pauvres, JCLattès, Paris, 2017.
[66] Da Bavure 2.0 di Jo le Phéno: Tous les jours des bavures judiciaires/(…)/’suis l’ennemi de Cazeneuve et du commissaire/Le parisien essaie de m’faire/La pute de proc veut qu’on m’enferme/(…)/Marre de vivre en France comme un étranger. Nel frammento vi è un riferimento a Bernard Cazeneuve, politico francese, ex membro del PS, Primo ministro dal 2016 al 2017.
[67] F. Schiavo, “Da Downtown is for People” a “The Florida Project”: nuovi attraversamenti in spazi destrutturati”, in XXIV Conferenza SIU, Dare valore ai valori in urbanistica, Worthing values for urban planning, Brescia, 23 e 24 giugno, 2022; F. Schiavo, “Titani a confronto: Caos e Ordine”, in ibd, Lo schermo trasparente. Cinema e Città, op. cit.
[68] Anche se in sintesi è opportuno notare come la forma dello spazio incida sulla auto-organizzazione e sulle reti di interazione e incerti casi, viceversa. Sia la prima che le seconde sono spesso fondate sulla morfologia eterogenea dello spazio, costituita da ambiti di dimensione variabile, da piccoli e grandi luoghi pubblici intermedi, da giardini anche condivisi, luoghi che favoriscono la cooperazione e, talvolta, il conflitto (da affrontare), attivando la formazione di uno spirito collettivo solidale che incrementa e sostiene gli atteggiamenti civici di rivolta e di “disobbedienza civile” non violenti e organizzati.
[69] Vd. M. de Certeau, L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma, 2001.
[70] Vd, G. Sabato, “Barbès, “Parigi: conflitto urbano e conflitto mediatico”, in Conflitti. Studi e Ricerche, M.P Paganini., D.  Sabbedotti (a cura di), EDICUSANO, Roma, 2020.
[71] Probabilmente legato, anche, al persistere dei ruoli (le donne e la figura della madre) e delle strutture parentali tradizionali, in prevalenza basate su una organizzazione patrilineare.
[72] Rapper di origine marocchina, è cresciuto a Le Kremlin-Bicêtre nella banlieue parigina.
[73] In alcuni contesti, es. in Nord America, equivalenti radici vengono rivendicate, dove gli Afroamericani, probabilmente per le lotte che li hanno portati al riconoscimento dei propri diritti e per il diverso assetto politico, possono vantare quelle origini che costruiscono la loro identità; origini che, nel caso dei franco-maghrebini, vengono utilizzate come parte dello stigma e in tal senso rispecchiano la mancata conquista dei diritti di cittadinanza.
[74] H. Astier, “French struggle to build local Islam”, in BBC NEWS, 14 November, 2005, http://news.bbc.co.uk/2/hi/europe/4430244.stm.
[75] H. Astier, “Ghettos shackle French Muslims”, in BBC NEWS, 31 October 2005, http://news.bbc.co.uk/2/hi/europe/4375910.stm.
[76] Gruppo Hip Hop, fondato nel 1988. L’acronimo A.M.E.R., Action, musique et rap; Agent du Ministère Éloquent et Radical. 
[77] Regista e rapper, nato a Perpignan (Sud della Francia), di origina algerina, figlio di un lavoratore agricolo analfabeta, che si trasferì negli anni ‘50 in Francia, Hamè, oltre ad aver collaborato con il gruppo La Rumeur (fondato a Élancourt nel Dipartimento di Yvelines, nell’ Île-de-France, nel 1995, composto da quattro rapper, noto per un costante attivismo, con particolare attenzione ad alcune vicende come il “massacro di Parigi” del 1961), ha studiato cinema alla Sorbonne e ha curato la regia di numerosi tra i video del gruppo. Dopo una borsa di studio di un anno alla New York University, Hamé è tornato in Francia e ha diretto: Je ne suis pas le gardien de mon frère (un corto, che ha ricevuto il sostegno del CNC); con Canal Plus ha firmato per un musical Hip Hop e, sempre sui temi dell’immigrazione post coloniale ha scritto un lungometraggio, Faux. Dal 2002 è stato coinvolto in numerosi procedimenti legali, tra cui quello mosso da Sarkozy, che lo ha, denunciato per uno scritto in cui Hamé poneva in luce, anche citando le opinioni di sociologi e accademici, l’insicurezza dei quartieri migranti e il ruolo repressivo della polizia e del potere.
[78] Vd. S.A., “Nicolas Sarkozy s’en prend au groupe Sniper”, in «OBS nouvel.com», disponibile al sito: https://web.archive.org/web/20071014082156/http://archquo.nouvelobs.com/cgi/articles?ad=societe/20031105.OBS9287.html&host=http://permanent.nouvelobs.com/.
[79] Da La France degli Sniper: En tant que citoyen, non en tant que chien/La France nous ronge à un point /de ne plus avoir confiance en son prochain/Législation conçue pour nous descendre/Frères derrière les barreaux et maintenant/Y penseraient que l’on pourraitse render/On est pas dupes, en plus on est tous chaud/Pour mission, exterminer les ministres et les fachos/Car de nos jours, ça sert à rien de gueuler, de parler à des murs/À croire que le seul moyen/de s’faire entendre est de brûler des voitures/Un putain de système haineux, cramé mais après tout ça avance pas/Et je sais que ça les arrange si on se bouffe entre nous/Soit-disante/démocratie aux yeux d’un peuple endormi/(…)/Le système, voilà ce qui nous pousse à les haïr/La haine, c’est ce qui rend nos propos vulgaires/On nique la France sous une tendance/de musique populaire/On est d’accord et on se moque des répressions/On se fout de la république et de la liberté d’expression/(…)/Nous on baisse pas la tête on est pas prêt de s’avouer vaincus/Des frères béton tous victime de trahison/T’façon si y aurait pas de balance y aurait personne en prison/La délinquance augmente même les plus jeunes s’y mettent/Pèttent des bus/parlent de braquage et à l’école ils raquettent/Des rondes de flics toujours là pour nous/pourrir la vie/Attendent de te serrer tout seul et de font voir du pays/Emeut qui explose ça commence par interpellation/Suivie de coups de bâtons et ça se finit par incarcération/T’façon on se démerde, mec ici on survie.
[80] Vd. R. Rosaldo, Cultura e verità: rifare l’analisi sociale, (a cura di) M. Canevacci, Meltemi, Roma, 2001.
[81] Di origine marocchina, nato nel 1987 a Blois, dove nel 1959 fu edificata una ZUP (Zone à Urbaniser par Priorité), in zona Nord.
[82] Vd. H. Lefebvre, Il diritto alla città, Marsilio, Padova, 1976; H. Lefebvre, La produzione dello spazio, Moizzi, Milano, 1976.
[83] Nato nel 1981 a Trappes («J’ai grandi à Trappes la où le crime régnait», dice in Banlieue sale music), nella periferia interna alla “corona” a Ovest di Parigi; di origini marocchine è un imprenditore e produttore.
[84] Vd. Ministère de la Justice et Ministère de l’Intérieur, “Création de 49 nouvelles Zones de Sécurité Prioritaires (ZSP) – dossier de presse”, Ministère de l’Intérieur, 15 novembre 2012. Localizzate soprattutto nel Nord (oltre che anche nella Francia del Sud, es. a Marsiglia) “ospitano” moltissimi abitanti, es. la ZSP di Roubaix-Wattrelos-Tourcoing, comprende sedici quartieri e 90 mila abitanti.
[85] La BAC è presente anche a Parigi, nella periferia interna (Hauts-de-Seine, Seine-Saint-Denis, Val-de-Marne), e nella estesa banlieue (Seine-et-Marne, Yvelines, Essonne, Val-d’Oise). Con l’abolizione della polizia locale nel 2003 da parte del ministro dell’Interno Sarkozy, la BAC è la prevalente espressione della polizia nelle aree sensibili.
[86] Vd. F. Lemercier, “Recensione: Bac Nord”, in «Cineuropa», 14 luglio 2021.
[87] Francese di origine algerina e tunisina (da parte dei genitori) è nata a Manosque nel Sud della Francia. Nota per aver interpretato Rym, in La Graine et le Mulet del 2007, di Abdellatif Kechiche (francese, di origine tunisina).
[88] Sarebbe auspicabile la nascita di un luogo, o una rete di luoghi interconnessi, gestito dai diretti interessati – una sorta di cultural urban center dei migranti, complementare a importantissimi centri di ricerca e azione esistenti, come gli Osservatori sulle Banlieue – che accolga e diffonda i prodotti, consentendo di rendere lo “sguardo altro”, la visione oppositiva, un punto di forza della rivolta. Considerazione che, ovviamente, mette in luce aspetti già evidenziati, tra cui la difficoltà di organizzazione; la mancanza di fondi necessari per strutturare luoghi di aggregazione e diffusione culturale.
[89] Vd. F. Schiavo, Parigi, Barcellona, Firenze: forma e racconto, op. cit.
[90] Tralasciando le questioni più complesse e la condizione dei giovani.
[91] È utile ricordare che “plafond de verre”, dall’inglese, glass ceiling, è un concetto che si affermò intorno agli anni ‘70; i n precedenza vedi, The Invisible Wall (di E. Kazan, del 1947); nel 1984, nella rivista americana Working Woman; nel 1986, Wall Street Journal, rimanda a una serie di barriere artificiali e a una struttura gerarchica dove i vertici non siano accessibili a gruppi o soggetti specifici, per disprezzo classista, discriminazioni razziali o sessiste.
[92]Vd. A. Bertho, Les Enfants du chaos. Essai sur le temps des martyrs, Éd. La Découverte, Paris, 2016.
[93] Francese di origini algerine, nato nel 1985, Lacrim trascorre un’adolescenza segnata da carcere e riformatorio, nella cité Anatole-France. Nel 2009 si trasferisce a Marsiglia collaborando anche con Keny Arkana, Le Rat Luciano, Alonzo, Rim’K e Mister You. Nel 2012 viene condannato a 4 anni, per una rapina. Il successo giunge in seguito, caratterizzato anche da collaborazioni con rapper americani. Anatole-France è attualmente oggetto di una massiva riqualificazione (anno orizzonte, 2025), qui richiamata solo in sintesi, il cui iter e il progetto andrebbero approfonditi per comprendere come e se gli obiettivi tengano conto degli abitanti attualmente insediati o se l’operazione, che prevede anche alcune demolizioni, non ripeta il cliché dell’autoritarismo urbano che produsse gli HLM.
[94] Come sostiene l’antropologo «Patrick Weil, nel suo libro La Francia e i suoi stranieri cita le cifre fornite dal ministero della Giustizia, secondo cui nel 2002, ad esempio, 30.262 giovani hanno scelto di acquisire la nazionalità francese prima dei 18 anni, 15.425 l’hanno acquisita automaticamente al compimento dei 18 anni, mentre solo 110 l’hanno rifiutata», vd, “Il decalogo delle periferie”, in «La Stampa», 15 settembre 2006.
[95] U. Melotti, “Immigrazione e conflitti urbani in Europa. Migration and urban conflicts in Europe”, in «Quaderni di sociologia», n. 43, 2007.
[96] Sociologo, ideatore e direttore del programma Banlieuescopies, interno al Ministère de la Ville dal 1997, èstato tra i fondatori dell’Observatoire National des Zones Urbaines Sensibles; dal 2015 fa parte della Plateforme internationale Violence et sortir de la violence, della Fondation Maison des sciences de l’homme come codirettore dell’Observatoire des radicalisations. È una voce significativa anche per la sua origine marocchina, che lo porta con empatia a comprendere le condizioni di vita dei migranti, oggi cittadini francesi; vd. di A. Jazouli: L’action collective des jeunes Maghrébins de France, CIEMI/L’Harmattan, Paris, 1986; Les années banlieues, Seuil, Paris, 1992; Une saison en banlieue. Courants et prospectives dans les quartiers populaires (prefazione di Tahar Ben Jelloun), Plon, Paris, 1995.
[97] Per lo specifico caso francese, anche se alcune fonti raccontano la vicenda dei Grands ensembles come la storia del fallimento di un progetto nato sulla scorta di buone intenzioni, di contro ritengo che esso fin dall’inizio sia nato come conseguenza di una urbanistica autoritaria, del post colonialismo e di un programma consapevole di marginalizzazione, voluto delle amministrazioni locali e nazionali. 
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Flavia Schiavo, architetto, architetto del paesaggio e PhD in Pianificazione Territoriale. E’ prof.ssa Associata presso la Università degli Studi di Palermo, dove insegna Urbanistica (Laurea in Urbanistica e Scienze della Città) e Laboratorio di Progettazione urbanistica (Corso di Laurea in Architettura). È componente del Collegio dei docenti del Dottorato di ricerca in Architettura, Arti e Pianificazione. Ha al proprio attivo numerose pubblicazioni (saggi e monografie), in italiano e in inglese, che sviluppano articolati temi di ricerca: fonti non convenzionali (letteratura e cinema per interpretare città e territorio); linguaggio urbanistico; partecipazione, conflitti, azioni e pratiche bottom-up in ambito urbano; parchi e giardini; sviluppo e questioni sociali, economiche e antropologiche nel contesto della Rivoluzione Industriale; arte, culture urbane e contaminazioni. Tra i titoli delle monografie: Parigi, Barcellona, Firenze: forma e racconto, 2004, Sellerio, Palermo; Tutti i Nomi di Barcellona, 2005, FrancoAngeli, Milano; Piccoli giardini. Percorsi civici a New York City, 2017, Castelvecchi, Roma; Lettere dall’America, 2019, Torri del Vento, Palermo; New York: entre la tierra y el cielo, Ediciones Asimétricas, Iniciativa Digital Politècnica, Barcelona, Madrid, 2021; Lo schermo trasparente. Cinema e Città, Castelvecchi, Roma, 2022; Nata per correre. New York City tra il XIX e gli inizi del XX secolo, Aracne, Roma, 2023; 8 lezioni newyorchesi. La Democrazia delle Città, la Democrazia della natura, Il Sileno edizioni, Cosenza, 2023. Fa parte di Comitati scientifici di prestigiose collane editoriali (FrancoAngeli) e di Riviste del settore. Ha organizzato seminari, simposi, meeting, convegni nazionali e internazionali e ha condotto lunghi periodi di ricerca in Italia e all’estero, in Europa (UAB, Barcellona) e recentemente negli Stati Uniti (Columbia University, New York City). 

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