Chi ha alle spalle studi di carattere antropologico pare sia destinato o vocato, spesso quasi o del tutto inconsapevolmente, a una profonda analisi del proprio vissuto. Vissuto proprio e degli altri, in relazione al contesto materiale – legato ai luoghi – e sociale che viene a modellarsi attorno all’antropologo stesso, suo malgrado. In tali situazioni, che vi sia spesso inconsapevolezza ne è la prova il fatto che non esiste un ‘diario di bordo’ ma la sola, nuda e cruda esperienza ‘sul campo’, condotta senza una cosciente intenzione di identificarla come tale, per quanto abbia lasciato il proprio ‘graffio’ nell’animo di chi l’ha vissuta. È la conclusione di una tale esperienza involontaria – involontaria anche nelle condizioni che l’hanno portata a termine – che porta l’antropologo a ‘rinsavire’ e a ricordare di possedere, nel bene o nel male, quel bagaglio culturale che adesso quasi lo costringe a fermarsi sulla realtà attraversata, per guardarla e ripensarla finalmente con occhio critico. Il campo di cui si sta parlando è quello minato, ambiguo e spesso stremante del lavoro, e del lavoro in una città dalle più che note mille contraddizioni come Palermo, presso una piccola attività come una tipografia situata nel cuore del centro storico. Esistono diversi elementi idonei all’identificazione di un ottimale terreno su cui lo sguardo di un antropologo possa concentrarsi, rilevando un tipo di sostanza che va ben al di là di quella che a un primo impatto può essere percepita da un qualsiasi cliente, ma che può senz’altro essere ben nota a un salariato, soprattutto se questi ha affrontato determinati tipi di studi, nel momento in cui si trova a svolgere un’attività che ha dovuto imparare da zero senza che alcun organo di formazione lo preparasse preventivamente. In tal modo, tale sostanza può non solo essere percepita ma anche deframmentata, decostruita e analizzata dal soggetto in questione.
Come accade in tutti i luoghi di lavoro che accolgono più dipendenti, all’interno dei locali della tipografia in oggetto viene a crearsi una sub-strutturazione sociale assimilabile a quella di una qualsiasi famiglia ‘occidentale’, dove la figura principale del genitore o, per meglio dire, del capofamiglia, è convertita in quella del ‘titolare’. I figli sono quelli che ricevono un numero variabile di privilegi. I figliastri non hanno alcun tipo di privilegio, nemmeno dal punto di vista legale. La tipografia, in effetti, diventa la casa, lo stesso tetto sotto il quale più persone agiscono, secondo il ruolo loro implicitamente affidato, perché la famiglia intera non vada in rovina. Tali comportamenti sono tutti diretti al soddisfacimento della clientela, cioè della fonte di guadagno perché la famiglia possa ricavare il necessario sostentamento.
Passo adesso più al concreto dell’esperienza vissuta, che riguarda la mia persona. Non posso fare a meno, per questo, di esprimermi in prima persona, tanto l’esperienza di cui sto trattando ha segnato la mia vita da ogni punto di vista.
Secondo la categoria famiglia/azienda cui s’è fatto cenno, sono in grado di affermare di non aver rivestito il ruolo di un figlio che godesse di particolari privilegi, se non in sporadiche occasioni. Da anni ho iniziato a percorrere la strada professionale del grafico creativo, lavorando con i più utilizzati software di grafica finalizzata alla stampa e solo marginalmente al web. Dopo aver inviato decine, forse centinaia di curricula, sono riuscito a guadagnare delle esperienze importanti presso studi grafici e pubblicitari. Quella che mi mancava, e che adesso ho metabolizzato e portato a termine, era proprio quella all’interno di una tipografia. Sono stato contattato in seguito all’ennesimo invio di un mio curriculum, recandomi sul luogo dello sperato lavoro con mille aspettative, pensando e sperando che finalmente avrei conquistato un’occupazione che mi permettesse di portare a casa il pane quotidiano.
Il primo giorno sono stato accolto tra ampi sorrisi e paciosi complimenti sul lavoro da me svolto in passato, presentato su un portfolio recante immagini di locandine, biglietti da visita, pieghevoli e loghi aziendali da me ideati, e mostrato con il fine di evidenziare la metodologia del mio lavoro, giudicato dal titolare della tipografia come interessante e certamente utile all’attività. Mi venne, però, subito detto che non avrei dovuto occuparmi soltanto della progettazione grafica, ma assumere anche una serie di mansioni da me mai svolte prima di allora. Per questo motivo iniziai un periodo di prova, naturalmente senza alcun contratto di sorta. La retribuzione era anch’essa minima, rispetto alle ore di lavoro: 130 euro cash a settimana, iniziando alle 8.45 e terminando alle 19.30, con una pausa pranzo pressoché di facciata di appena un’ora e mezza, senza la possibilità di poter tornare a casa per un piatto di pasta, a causa dell’eccessiva distanza da casa.
Man mano che la mia esperienza andava evolvendo, i 130 euro si trasformarono in 150, poi in 170. Il lavoro era duro, dai ritmi così serrati da impedirci, talvolta, di poter andare al bagno. I clienti entravano dalla porta senza sosta, uno dopo l’altro e talvolta a frotte, come se prendessero un appuntamento tutti insieme nello stesso momento, nonostante non si conoscessero fra loro. Intanto, il mio ruolo di grafico non riusciva ad apparirmi del tutto chiaro: mi ritrovavo sempre più spesso a dover fare fotocopie per studenti, a stampare locandine o altri tipi di file portati già pronti dai clienti, piuttosto che ideati e preparati da me. Finalmente, fui giudicato ‘degno’ di essere messo in regola dopo appena cinque mesi, e per di più a tempo indeterminato. Un miraggio, pensai, soprattutto in tempi come questi. Ma non riflettevo ancora su come il termine ‘indeterminato’ fosse affatto sinonimo di ‘infinito’. La parola, infatti, indica qualcosa che non è determinata, che ha inizio oggi e nessuno sa quando potrebbe finire. Inoltre, la stipulazione di una tale tipologia di contratto ha tolto di mezzo l’opportunità di poter usufruire di leggi apposite per un’assunzione priva di determinate spese, da parte del datore di lavoro, presso altri posti occupazionali, se non dopo aver oltrepassato un ulteriore periodo infernale di disoccupazione pari a due anni. Parlo in particolare della legge 407 del 1990. Pensavo potesse essere la giusta occasione per sfruttare la mia disponibilità al lavoro insieme a una tale legge, andando incontro alle esigenze di un datore di lavoro spesso vessato da tassazioni al limite del concepibile, per nulla incentivato ad attivare nuove assunzioni.
Iniziò quindi la mia avventura ‘in regola’. Avevo una busta paga dove veniva indicato l’importo esatto, al netto di ogni ‘zavorra’ statale, del mio compenso. In teoria, avrei dovuto finalmente percepire una somma dignitosa, di ben oltre i 1.000 euro al mese (talvolta ne risultavano anche 1.200), con un orario certamente ridimensionato in base alle regole contrattuali. La realtà dei fatti era però ben diversa. L’orario di lavoro non era per nulla diminuito e i bonifici bancari mensili a mio beneficio, da parte del titolare della ditta, non superavano mai gli 800 euro. L’aggiunta dei ‘famosi’ 80 euro in busta paga da parte del governo, alcuni mesi dopo la mia assunzione effettiva, non aveva pure causato alcun effetto. Dovetti parlare apertamente al mio datore di lavoro del fatto che vi fosse almeno quella sommetta in più da calcolare nello stipendio, piuttosto che lasciarlo nel suo conto in banca insieme alle altre 2/300 euro mensili che mi appartenevano e di cui lui si appropriava regolarmente in maniera indebita. La scusa di tali arbitrarie ‘trattenute’ stava nel fatto che non avevo ancora raggiunto l’optimum della mia efficienza lavorativa, per cui avrei dovuto ancora migliorare per poter aspirare all’aumento dello stipendio pari a quello indicato sulla busta paga.
Intanto, avevo imparato a usare macchinari all’avanguardia come stampanti digitali professionali, ma anche plotter per stampe di grandi formati. Avevo appreso a rilegare ad anelli metallici o in plastica, a plastificare, a stampare su cd ma anche a svolgere mansioni che avrebbero dovuto competere solo al datore di lavoro, come l’ordinazione del toner per le stampanti e la compilazione delle fatture. Pur raramente, è anche capitato che spazzassi per terra e più spesso che andassi a svuotare i cestini della spazzatura ricolmi di grandi quantità di scarti. In più, avrei dovuto soddisfare i clienti per partecipazioni di nozze, di battesimo o di comunioni, per fotocopie di dispense universitarie e spesso anche di libri fotocopiati, nonostante sia notoriamente vietato. Ma la cosa che più mi pesava era rimanere da solo a reggere l’attività di stampa, mentre il titolare si allontanava per ore o per giornate intere per le più svariate ragioni. Allora rimanevo inerme davanti alla folla ansiosa e impaziente, travolto da mille richieste di stampe il più delle volte immediate e urgenti, da espletare in pochi minuti. L’impostazione della stampante, per ogni file, doveva essere per forza diversa, e per questo occorreva un certo tempo per ogni cliente, anche secondo la tiratura e la tipologia di file. Non sopportavo le lamentele dei clienti per la mia lentezza, quando non era materialmente possibile fare più presto di quanto non facessi già. Ma la cattiva metodologia con cui era stata gestita l’attività fino ad allora li aveva abituati ad avere tutto e subito, da parte di chi, però, svolgeva quello stesso lavoro da qualcosa come venti anni. In più, alla fine, assumevo lavori di grafica, ma solo ancora marginalmente e a prezzi decisamente fin troppo stracciati, quasi a sminuire e disprezzare il lavoro di riflessione e creatività necessario per ogni realizzazione destinata ad andare in stampa. Inoltre, il mio impegno di grafico non veniva effettuato in una stanza a sè stante, lontano dal chiasso della folla impazzita, così da favorire la concentrazione: la mia postazione si trovava infatti proprio ad appena un metro e mezzo dal bancone presso il quale veniva servita la clientela. Per questo ero in continuazione disturbato durante il lavoro per il quale avevo inviato il curriculum, ed ero costantemente costretto a lasciare ciò che stavo facendo per dedicarmi ad altro, dovendo ricominciare ogni volta la riflessione che mi stava portando a sviluppare una determinata interfaccia grafica.
In tutto ciò, il mio stipendio non cresceva. Mi appariva sempre di più come la carota posta davanti al mulo perché camminasse più velocemente, senza mai raggiungerla. La mia stazza fisica non è mai stata quella di un ‘Marcantonio’, eppure iniziai a dimagrire ulteriormente per lo stress, nel tentativo di fare tutto il possibile per migliorare le mie prestazioni. Eppure ogni sforzo sembrava vano, con il datore di lavoro che non perdeva occasione per lamentarsi della mia presunta bassa resa. Decisi allora di ricominciare a distribuire curricula via e-mail, senza però avere alcuna risposta positiva. Iniziai a sentire la puzza del mio licenziamento, soprattutto in seguito a un incidente che mi ha visto coinvolto, a causa del quale mi ruppi anche un piede e di conseguenza dovetti entrare in malattia per due mesi. Proprio in tale occasione, il titolare dell’attività si sentì costretto a chiamare un altro aiutante per l’eccessiva mole di lavoro: stavolta era un grafico laureato in design all’Accademia di Belle Arti, che era già stato un cliente della tipografia alcuni mesi prima. Nessuno mi avvisò in merito: dovetti immaginarlo da me, dato che mi venivano chiesti per e-mail dei file grafici su cui avevo lavorato in passato ma che adesso dovevano essere modificati… non da me. Facendo una visita a sorpresa al negozio, trovai infatti quell’altro ragazzo seduto alla postazione che era stata mia fino a circa un mese prima. Fui allora tranquillizzato dal titolare, con frasi che affermavano l’assoluta transitorietà della situazione.
Visto che la mia postazione era ancora occupata, al mio rientro mi sentii costretto a prendere posto al piano di sopra del locale, dove si trovava un appartato e polveroso ufficietto fornito di scrivania e sedia. Iniziai quindi a riprendere il mio lavoro con lentezza, anche a causa del persistere di alcuni disturbi fisici all’arto destro inferiore. Il caso volle che vi fossero degli importanti lavori d’impaginazione di un paio di saggi scientifici e di una raccolta di prose e di poesie, che in qualche modo giustificava la mia assenza al piano di sotto, dove continuava a esservi diretto contatto con la clientela. Credevo e speravo di aver finalmente individuato la mia nicchia ‘familiare’, all’interno di quell’azienda, dopo oltre un anno e mezzo di assoluta confusione. Ma tale ‘idillio’ non andò oltre alcuni mesi. Il fatto che non avessi più un posto al piano di sotto, a contatto col pubblico, determinò la mia automatica esclusione dai giochi, soprattutto perché il ragazzo che mi aveva rimpiazzato durante la convalescenza si era rivelato molto più conforme ai desideri e ai ‘solletichi’ professionali del datore di lavoro. Era davvero molto bravo, lo dico con onestà, soprattutto nel ‘mettersi in tasca’ il titolare con un modo di fare molto più coinvolgente del mio. Non lo biasimo: lui ha fatto i suoi interessi, e certamente non desiderava danneggiarmi, certo com’era che io e lui avremmo formato una squadra più che adatta affinché l’attività commerciale diventasse maggiormente efficiente e organizzata. Ma la scusa di un taglio al personale, a causa di eccessive spese tracciabili, non mi ha lasciato scampo, nonostante per legge avrebbe dovuto essere l’ultimo arrivato a essere scartato.
Eppure, rifletto tuttora a quanto la tipografia fosse in grado di guadagnare in nero a settimana, e penso a cosa sarebbe successo se tutto ciò che non veniva dichiarato lo fosse invece stato. Forse il problema delle eccessive spese tracciabili, e quindi dei licenziamenti, non avrebbe avuto luogo. O forse si erano solo venute a creare le condizioni adatte per metter su una scusa che potesse finalmente congedarmi. Perché ero diventato scomodo? Perché non ero solo il dipendente che aveva osato assentarsi per ben due mesi in seguito a un incidente, ma anche l’unico che non aveva peli sulla lingua e che aveva sempre chiesto, invano, i propri diritti di lavoratore? Non lo saprò forse mai.
Domando perdono per l’eccessiva enfasi. Mi rendo conto di come la mia non sia un’esperienza a sè stante né l’unica, a Palermo come altrove. Mi riesce difficile descrivere certe situazioni con un distacco accademico, ma mi auguro, non so come, che l’esperienza appena riassuntata possa portare qualcuno a mettere in atto delle riflessioni importanti, e forse anche risolutive, sulla drammatica situazione occupazionale italiana e, in particolar modo, siciliana.
Tornando all’analisi in senso stretto del contesto sub-sociale della tipografia in questione, il ‘capofamiglia’ possiede di fatto ogni diritto di vita o di morte sui ‘familiari’ subalterni. Le sue azioni mirano di continuo a riportare il cosmos in seguito a presunti caos verificatisi ai danni dell’attività di sostentamento della ‘famiglia’. Nessuno ha diritto di replica, nessuno ha il diritto di svolgere il ruolo di consigliere. Le decisioni vengono prese nonostante ai ‘familiari’ possano sembrare inopportune, se non addirittura controproducenti per la stessa attività. In nessun modo viene tenuto in conto l’impossibilità legale – che si attenga, cioè, a delle regole sociali e non più sub-sociali – di fotocopiare un libro coperto da diritti di copyright o di licenziare un dipendente ‘illicenziabile’. In tal senso, la sub-società tende ad acquisire un’identità strutturale avulsa da regolamentazioni sociali in senso stretto, pur avendo a che fare con la società attraverso il contatto diretto con una clientela che fornisce lavoro e che, quindi, la nutre. Essa, dunque, acquisisce la propria ‘linfa vitale’, la propria ragion d’essere, dalla società, pur non recependone regole e limiti, se non in modo funzionale al benessere della ‘famiglia’ e, in particolare, del suo ‘capofamiglia’.
I ‘figli’, per guadagnare un posto di favore nella gerarchia ‘familiare’ e acquisire privilegi, devono mostrarsi affabili alle decisioni del ‘capofamiglia’, potendosene lamentare solo in contesti sociali o sub-sociali non espliciti, pena la degradazione a ‘figliastri’. Questi ultimi non sono più ritenuti indispensabili all’attività di sostentamento della ‘famiglia’ e, quindi, possono essere sacrificati, tolti di mezzo, con la falsa motivazione di un miglioramento delle condizioni economiche dei familiari restanti. Ma alcuni dei ‘figliastri’ sono anche coloro che non godono di alcun tipo di diritto sociale ma solo sub-sociale – i lavoratori in nero. E in tal senso sono posti al gradino più basso della scala gerarchica ‘familiare’, rimanendo in completa balìa delle decisioni del ‘capofamiglia’, che nel frattempo tenta di svincolarsi da determinate responsabilità affidandole ad alcuni tra i ‘figli’ – come la compilazione delle fatture aziendali o l’ordinazione dei toner per le stampanti – che se dovessero mostrarsi in disaccordo potrebbero doverne affrontare le conseguenze.
Tra fratelli e fratellastri vi è un rapporto di collaborazione non sempre chiaro, per cui non appare scontato dove finiscano le competenze dell’uno e dove inizino quelle dell’altro. Tale manifestazione di cattiva organizzazione dipende ancora una volta dal ‘capofamiglia’, che tenta di ricavare il massimo profitto con il minimo sforzo e, dunque, con una gestione approssimativa dei propri ‘familiari’, ognuno dei quali è tenuto a svolgere diverse mansioni, condotte a volte, per questo motivo, con un’efficienza approssimativa. Ciò crea ancora una volta le basi per delle ammonizioni o per dei declassamenti, e solo questo rappresenta il motivo per cui ognuno dei ‘figli’ tenti di sbagliare il meno possibile, non sempre con successo.
Le pause dall’attività di sostentamento sono brevi e poco funzionali a una effettiva riassunzione delle facoltà fisiche e mentali dei ‘familiari’, finalizzate alla corretta esecuzione del lavoro. Tale mancato recupero contribuisce in maniera significativa a un abbassamento del livello di concentrazione e dell’efficienza lavorativa, causando paradossalmente un danno maggiore all’attività, nonostante sia proprio il ‘capofamiglia’ a stabilire rigidamente gli orari che scandiscono i tempi delle operazioni. Il compenso e l’orario di lavoro appaiono tra loro incongruenti e inadeguati rispetto agli standard sociali. Sono, infatti, anch’essi frutto di direttive che trovano attuazione solo nell’àmbito sub-sociale della tipografia. Così, per i lavoratori in regola, non vi è solo la parte di tassazione prescritta dallo Stato, ma anche una tassazione sub-sociale, per cui il compenso non appare congruo – per difetto – a ciò che compare sulla regolare busta paga mensile. La mancata fatturazione premette alti guadagni esentasse, che hanno un loro riflesso nel pagamento dei lavoratori in nero – ovvero dei ‘figliastri’. Ma non solo: dell’avanzo di tali somme, che va ben oltre il pagamento degli stipendi dei ‘figliastri’, beneficia soltanto il ‘capofamiglia’, che ne dispone anche per fini privati.
Non appaia scontata la conclusione che, all’interno di un’attività economica come quella appena descritta, di ideali rispettosi dei diritti democratici, eppure tuttoggi tanto sventolati da ogni istituzione, sembra non esservi traccia. O, forse, tale osservazione potrebbe invece apparire ovvia, se non riuscissimo a liberarci da ciò che ormai appare così scontato da costituire una degradante, drammatica normalità. E non soltanto perché, come è ovvio che sia, deve esservi un ‘capofamiglia’ che si trovi all’apice della ‘piramide’, grazie al fatto di aver avviato un’attività commerciale ed economica e di aver preso con sé chi non ha investito denaro ma solo il proprio tempo e le proprie capacità professionali; ma anche perché le cellule ‘familiari’ lavorative si ritrovano inspiegabilmente vessate da istituzioni nazionali, regionali e comunali, senza che vi sia un’effettiva cura relazionale in grado di mediare tra la struttura sociale e quella sub-sociale di una qualsiasi attività commerciale ed economica. Si creano così le condizioni ideali per scompensi che, dalla sfera sub-sociale, si ripercuotono ovviamente nella sfera sociale.
Secondo il campione esaminato, le cui caratteristiche sono confermate da numerose altre testimonianze, inerenti ad altri luoghi di lavoro analoghi, ogni cellula opera per conto suo, recependo solo una parte delle legislazioni in vigore riguardanti la gestione di un negozio, di uno studio, di un locale, ecc. Di contro, i titolari delle attività si ritrovano quasi costretti a dover gestire il contesto di cui sono a capo con regolamentazioni interne incoerenti con le direttive di legge. Dunque, si giustificano licenziamenti e guadagni in nero, senza che vi sia alcuna possibilità del raggiungimento di un loro reciproco equilibrio, e ciò al fine di tentare di non abbassare il livello di guadagno, prima di tutto personale. Per effetto di questo contesto in cui tutto si tiene e tutto si autoregola all’interno di un perverso cortocircuito, il processo lavorativo si caratterizza non solo per una produttività di modesta qualità ma anche per un ancor più basso contenuto di democrazia nelle relazioni contrattuali e nei percorsi professionali.
Dialoghi Mediterranei, n.15, settembre 2015
________________________________________________________________
Lorenzo Mercurio, è laureato in Antropologia Culturale ed Etnologia specialistica presso l’Università di Palermo. Ha intrapreso la strada professionale del grafico pubblicitario, svolgendo collateralmente mansioni di antropologo presso associazioni culturali e ONLUS. Ha scritto il romanzo Hierà. Strade fra le onde e collabora col musicista Franco Vito Gaiezza per la redazione di testi. È interessato ai fenomeni migratori e alle forme contemporanee della comunicazione.
________________________________________________________________