di Nino Giaramidaro
Dopo il saluto rivolto alle tribune si giravano verso l’altra metà del campo, schierati lungo il diametro del cerchio di centro campo. Un saluto quasi sull’attenti. La partita cominciava con il centravanti che passava il pallone ad una mezz’ala perché iniziasse l’attacco verso la porta avversaria. 1950, prima non ricordo molto bene. Qualche nome: Correnti Calafiore Riccobono Schillaci – forse trisavolo di Totò – e Volk Tarantino, in trionfo per un rigore parato, Ettore Saffiotti, Francolino “Barracchedda” portiere, Pregaz che segnava dal calcio d’angolo, Sergio Vergazzola ex giocatore di serie superiori, un ginocchio in disordine, allenatore e giocatore quando le cose si mettevano male.
Lo schieramento adesso si è avvicinato alle tribune a favore di telecamere, vip e altri illustri senza perdere tempo per il saluto agli anonimi del lato opposto. Il centravanti dà le spalle al portiere avversario e il calcio d’inizio arriva nelle retrovie, spesso ai terzini. Giocano molto meglio i nuovi divi, anche se scoprire il loro ruolo e se ne hanno uno è una cabala: niente più 9 centravanti, 2 e 3 terzini e così via sino all’11 ala sinistra – Gigi Riva –. Un’ala destra (7) ha il numero 18, ma non è detto può avere il 94, e non è più ala, si chiama in altro modo e dovrebbe “aggredire gli spazi” o “involarsi lungo l’out”. C’è anche il 99, cifra che surclassa pure il lotto.
Forse è l’età, ma mi viene il sonno davanti alla Tv a seguire quel va e vieni orizzontale con tappa fondamentale fra i piedi del portiere e quei radi attaccanti disoccupati e spesso sorpresi da un traversone – chiamato cross – inopinato e liberatorio.
Saltabeccava allegra e incurante sotto gli ulivi appesantiti nell’erba rincuorata dalle piccole piogge di questa tardissima estate. Un’upupa. Forse sorda: indifferente al quieto rumore dell’auto sulla stradella a pochi passi. Aveva movenze allegre, senza memoria delle turpi dicerie che l’hanno inseguita nei secoli.
Erano le 11 a tutti gli orologi e il sole non faceva complimenti. L’upupa, forse esibizionista, continuava a non mostrare pudore per la presenza umana e meccanica. Saltellava, a volte con la mossa del cavallo, e scandagliava con beccuccio attento fra quelle erbette sotto ulivi.
Quel bipede civettuolo continuava a mostrarmi la sua zelante indifferenza. L’emozione che provavo non ci azzeccava con la lunga storia di scrittori e poeti che l’avevano relegata nel regno dei morti, fra cimiteri e immonde carogne sino al buio antelucano.
Una coincidenza che dalla memoria, a folate come di un vento pieno di buchi, va e viene in quel fazzoletto di oliveto. È il luogo in cui ci intratteniamo: quasi l’ultimo miglio della Via Sacra – almeno per me – di Selinunte, nel tratto dove si estingue la contrada Gaggera e comincia l’estesa terra di Manicalunga, una delle necropoli più grandi e saccheggiate della città. Che cosa spera l’upupa con quella ricerca che ora mi appare più concitata che allegra?
È trascorso tanto tempo che nemmeno gli aruspici più affilati ci sanno suggerire una odierna certezza sui misteri dell’uccelletto. Che come le cose più belle contiene un destino che solo l’immaginazione può svelare.
Dal fronte del lavoro giungono numeri e motivazioni dei non tornati a casa. Cifra imprecisa, circonfusa da grande indignazione come di tutte le cose che si dimenticano il giorno successivo. Morti sul lavoro con inchieste subitaneamente aperte e successivo e regolamentare sparpagliamento. Sì, pene più dure per i responsabili, vigilanza e maggiore attenzione ai sistemi di sicurezza. Comunicati che sembrano ricalcati da quelli di ieri e l’altro ieri.
Quando ero ragazzo diventava un evento indimenticabile un morto nei cantieri. Anche omicidi e altre tetraggini passavano per la cruna dell’ago. Intrigavano, soprattutto nelle attese dal barbiere, le avventure del ladro atleta che saltava, nuovo Fantomas, da un tetto all’altro e spariva col bottino come un’ombra che cammina. Oppure le disgrazie la cui eco sorvolava rapida tutto il paese che debordava pochissimo dalle mura medievali.
Il giovane orologiaio Mirabile di corsa sul passaggio a livello della via Madonna del Paradiso rimase col tacco di una scarpa incastrato nei binari mentre sopraggiungeva il treno. I tre ragazzi “rover scout” che in una scampagnata giocavano con un fucile, e partì un colpo. Credo che il giovane morto si chiamasse Sammartano. Lo sgomento cittadino per l’annegamento del cacciatore Morrione, esperto e prudente, nel lago Preola o ai Gorghi Tondi. Giovanni Marrone si faceva chiamare Ballarin perché giocava nello stesso ruolo del Ballarin del Grande Torino: terzino. Venne trovato assassinato in una losca casupola all’inizio dello stradone per Marsala.
Guardo il rosso di sera in questo crepuscolo di fine agosto, l’auspicio è quello di una miracolosa correzione nel lavoro: non più operai che hanno impiegato la vita ad imparare il loro mestiere messi a farne un altro sconosciuto, nemmeno lavori che devono essere eseguiti insieme ad altri, affidati, con assillo, ad un solitario operaio. La sapienza è la prima misura di sicurezza su un’impalcatura, dentro una cisterna, alla guida di un trattore. Tutto nel tempo dovuto, perché la fretta suggerisce gesti incontrollati, scorciatoie micidiali, itinerari che nascondono i letali passi falsi. Lo sanno anche coloro che non corrono rischi nell’istigare chi lavora.
La strage delle innocenti. Dall’inizio dell’anno sino al 15 agosto 125 donne assassinate (“La Repubblica”), più di una ogni tre giorni: un conto aperto perché si aggiungono nuove vittime per coltello – quanti coltelli rusticani nella nostra era di globalizzati – di ex o di uomini per i quali un no si cancella col sangue.
Anche questo flagello viene condannato con parole alte, e si affollano i partecipanti all’esecrazione. Ma tutto rimane com’è, pure se le uccise avevano chiesto aiuto alla forza pubblica, oppure non l’avevano chiesto perché credevano tale richiesta senza speranza. Sembra che i nostri codici non considerino la possibilità che un uomo possa infierire sulla moglie, sorella, fidanzata, amica o amante. E madre. Presumibilmente a causa della fredda indifferenza nei confronti delle donne le quali – anche per non pochi rappresentanti l’autorità – non è ancora sicuro che abbiano l’anima. Ci sono stati magistrati inquisitori che interrogando la vittima di uno stupro hanno ritenuto di fondamentale importanza sapere se i jeans erano stretti o no.
Non ricordo di queste efferatezze, c’erano i coltelli anche in quegli anni di dopoguerra, ma regolavano sgangherati conti fra uomini, che se la vedevano in via Maddalena – dico de relato – e in pochi altri luoghi scogniti. E quelli che tiravano di coltello erano traditi da un dondolare il braccio destro come fosse senza forza, e la mano con le dita strette, quasi a cuneo. Non ricordo femminicidi, ma gli anni del passato sono tanti. Le leggende che ho ereditato se la prendono con i parricidi e si sono incarnate in generazioni e generazioni: dal generico “ammazzapatri” allo specifico “’nfurnapatri”. Oggi, siamo nel momento della vergogna e dobbiamo saperlo e farlo sapere.
Carretti e barili, sinonimi di passato. Scomparsi. Bisogna cercarli nella memoria sfruttando anche le labili tracce di avvenimenti anche di importanza marginale, di eventi che furono memorabili. Mazara del Vallo primi anni ’60. Nello slargo del “portello”, davanti alla dogana, si radunarono i carrettieri, tolsero sottopancia e capezzone a muli asini e cavalli per mettere le aste dei carretti in su: tutte quelle aste, sembravano braccia levate per dare forza al malcontento di quegli uomini solitari, accompagnati nel loro quotidiano andare dal ritmo delle ruote (lu scusciu di lu carrettu), qualche colpo di “zotta” e da canzoni d’amore, di speranza, di rassegnazione: La pampina di l’alivu, ‘U sciccareddu, E vui durmiti ancora…
Non ricordo che cosa rivendicasse quell’imponente e mai vista protesta. Ma nella foto c’è il trenino tirato dalla “paparella”, piccola motrice che caricava per lunghi percorsi lo zibibbo di Pantelleria, le cassette di pesce ricoperte di ghiaccio, i barili di sarde salate. Gli itinerari dei carretti si accorciavano sempre di più in attesa di camion, camioncini e treruote.
Le grandi parole dei padroni siciliani erano olivo vino e frumento. Hanno resistito. Soprattutto i primi due insieme con blasoni rispuntati da un oblio annoso tanto da far dimenticare estensioni agricole a perdita d’occhio, lavoratori con le guance sucate sottoposti all’assabinirica.
Questi ultimi aristocratici che si aggirano dentro oleifici e alla debita distanza dagli “alberi diraspatori” sembrano uguali a chiunque: né un cappello e nemmeno uno stivale che faccia la differenza. Ma sono gli eredi, coloro ai quali non sono giunte le zolfare e le industrie del sommacco: dai medicamenti ai coloranti, alle conce.
Su alcuni muri di Palermo resistono le frecce – fondo azzurro – con la scritta “Ricovero”, e sembrano giovani. E ben poco hanno potuto le successive mani di pittura: la scritta “Duce a noi” rimane indelebile, lì dirimpetto all’Albergo delle Povere palermitano, a lato della “Fontana dei Dragoni”. Dicono per via del tannino del sommacco, delle premiate aziende che sarebbero antiche di quasi un secolo se il progresso non avesse scelto l’obsolescenza pressoché programmata.
È vero, conteneva – e contiene – quantità ragguardevoli di tannino. Roba che non usa più. I farmacisti, dediti ai prodotti sintetici, non sanno più nulla del sommacco, nemmeno se è detto summaq; conciai, tintori, fabbricanti di lacche e vernici evanescenti gli hanno voltato le spalle: tutto l’altro costava di meno e, soprattutto, durava quanto le strisce pedonali. Il “Rhus coriaria” è ora sospinto ai margini delle strade occidentali dell’Isola. Si insinua fra ruderi e rovine. Caparbio quasi che fosse una testa siciliana. Forse vuole ricordare qualcosa che rischia l’obsolescenza immeritata, come i muri di pietra o il Cretto di Burri, sudario che dissolve le memorie della zappa di Gibellina, quella vera, quella distrutta e non più ricostruita.
Dialoghi Mediterranei, n. 57, settembre 2022
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Nino Giaramidaro, giornalista prima a L’Ora poi al Giornale di Sicilia – nel quale, per oltre dieci anni, ha fatto il capocronista, ha scritto i corsivi e curato le terze pagine – è anche un attento fotografo documentarista. Ha pubblicato diversi libri fotografici ed è responsabile della Galleria visuale della Libreria del Mare di Palermo. In occasione dell’anniversario del terremoto del 1968 nel Belice, ha esposto una selezione delle sue fotografie scattate allora nei paesi distrutti.
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