il centro in periferia
di Settimio Adriani
L’estate da poco tramontata ha regalato un’inattesa novità alle montagne del Cicolano, territorio nel quale i cambiamenti sono tutt’altro che frequenti. Per la prima volta, sull’altopiano dell’Aquilente si sono visti due giovani africani al seguito del bestiame in monticazione. In quell’area, dove tutti conoscono tutti, la nuova presenza non è passata inosservata e la voce si è diffusa rapidamente. Un po’ per curiosità, un po’ per dare loro il benvenuto, in perfetta controtendenza rispetto all’andazzo generale, io e mio fratello Bernardino abbiamo raggiunto quei ragazzi col pretesto di consegnare loro le stampe di alcune foto, scattate qualche giorno prima, dopo aver ottenuto il loro consenso, chiaramente espresso a gesti.
L’approccio è stato schietto e gioviale, il dono delle stampe ha rappresentato la chiave che ha schiuso le porte della fiducia. Tra cenni e parole italiane efficacemente declinate all’infinito, il dialogo, dapprima difficoltoso, si è subito dimostrato possibile. Inizialmente, timorosi che la nostra visita fosse finalizzata al controllo dei documenti, i ragazzi ci hanno prontamente mostrato i permessi di soggiorno; rassicurati sul fatto che non fosse quello il motivo della nostra presenza, il ghiaccio residuo si è sciolto definitivamente.
Incuriositi dalla nostra richiesta, Kamara Lamin e Ceesay Samba, così si chiamano i nostri giovani ospiti, ci hanno brevemente raccontato le loro storie. Entrambi provenienti dal Gambia, pur consapevoli del concreto rischio di morire affogati nel Mediterraneo e della strisciante avversione razzistica del nostro Continente, hanno affrontato l’ignoto per dare alle rispettive famiglie il futuro che la loro terra d’origine non garantisce.
Kamara è nato a Bansang il 18 agosto 2000 ed è arrivato a Trapani a bordo di un gommone. Figlio unico, con il suo lavoro sostiene un’intera famiglia composta da sette persone. Era uno studente, poi si è dedicato all’agricoltura, soprattutto alla coltivazione di grano e arachidi. È qui da un anno e tre mesi per custodire le vacche di Angelo Giuli.
Ceesay è nato a Samai il 1° settembre 1994. Come Lamin, anche lui è arrivato in Sicilia con un gommone, ma non sa dirci in quale porto sia approdato. È in Italia da sei anni. Sposato senza figli, con il suo lavoro mantiene la moglie, aiuta la madre, il padre, due fratelli e una sorella. Si occupava di agricoltura, soprattutto di grano e frutta. Inizialmente ha vissuto a Perugia in attesa di lavoro, ma le prime esperienze sono state fallimentari. Ha svolto diverse mansioni ma non è stato pagato per parecchi mesi; poi è arrivato nel Cicolano per custodire le pecore di Andrea D’Angeli. Attualmente si occupa delle vacche di Enrico Palmeri, il boscaiolo; tutto sembra procedere bene, non spende nulla per sé e riesce a mandare a casa l’intero frutto dei suoi sacrifici.
La foto in alto mostra l’ambiente nel quale lavorano: sono totalmente isolati, mancano la corrente elettrica, il telefono, il televisore, l’acqua corrente, il frigorifero per conservare gli alimenti forniti dai datori di lavoro con una certa regolarità. Ascoltare il loro racconto è stato come ripercorrere la storia che ho direttamente vissuto con la mia famiglia nei primi anni Sessanta; mio fratello Bernardino, nato nel 1969, ha invece ritrovato i racconti sentiti in casa più volte.
Nel 1959, quando la rivolta dei Mau-Mau aveva da poco vissuto il suo triste epilogo e ancora imperversava una narrazione fortemente deformata dei fatti, mio padre decise di emigrare in Kenya per dare alla sua famiglia quel futuro che la terra d’origine non garantiva. Senza mai tornare in Italia per più di sette anni, gestì ininterrottamente le pecore e le vacche del marchese Francesco Bisleti [1], possidente romano appartenente a una famiglia nobile originaria di Veroli, nel frusinate [2], che aveva un’azienda sterminata con sede amministrativa a Marula.
Non avendo speso nulla per sé, il primo stipendio che mio padre mandò interamente a casa fu di 70 mila lire, cifra che in Italia avrebbe potuto soltanto sognare. Mia madre utilizzò prontamente quella somma per affrancarsi dalla tradizionale ma non sempre sostenibile convivenza nella famiglia patriarcale del nonno paterno.
L’Africa di quegli anni non era quella attuale: l’isolamento era totale, mancavano la corrente elettrica, il telefono, il televisore, l’acqua corrente, il frigorifero. E, come se non bastasse, a Fiamignano imperversava l’opinione dell’avversità dei nativi contro i migranti europei, ritenuti sottrattori di risorse e quindi perseguitati dai gruppi rivoluzionari. Mio padre non apparteneva a quella categoria di coloni, che pure è esistita, era un semplice migrante con un bagaglio di necessità, dubbi e paure. Ma nonostante la drammatica prospettiva fatta di incertezza, pericolo e sacrifici, affrontò l’ignoto e lasciò la famiglia per riuscire a dargli un po’ di benessere.
Il timore dei ribelli Mau-Mau, descritti superficialmente e in modo assolutamente disinformato come assassini freddi e sanguinari, completava il quadro che sconsigliava chiunque a partire, perché nel senso comune la probabilità di fare una brutta fine era alta. Mio padre e mia madre non avevano gli strumenti e le capacità per acquisire informazioni corrette e oggettive; io e mio fratello Francesco, che ora non c’è più, eravamo troppo piccoli per scoprire quello che avremmo saputo molto più tardi, ovverosia che le violenze dei Mau-Mau erano dovute all’arroganza dei coloni bianchi, essenzialmente britannici, che incettavano terra fertile ed avevano ridotto la popolazione keniota in condizioni di sudditanza lavorativa e di vita miserabile [3].
Eppure, nonostante tutto, per il bene della famiglia, mio padre partì: «Il rischio vale la candela!» [4], pensò, e fece la valigia per affrontare l’ignoto. A conti fatti, stabilì che qualche anno di pericolo, ristrettezze, sacrificio e isolamento estremi gli avrebbero consentito di acquistare una casa e far studiare me e Francesco. Nel 1964 lo raggiungemmo anche noi, ma l’idea era quella di accumulare un po’ di risorse e rientrare in Italia.
L’incertezza del viaggio nel quale mia madre stava per avventurarsi con me e Francesco era totale; salvo rarissime eccezioni non si era mai allontanata dal borgo di origine, e molti le sconsigliavano di partire. Qualcuno arrivò a dirle che stava portando i figli incontro alla morte, ma lei era tanto decisa quanto preoccupata. Per tempo alcuni parenti che vivevano in città l’aiutarono a preparare i documenti per l’espatrio e ad acquistare il biglietto aereo, da sola non sarebbe stata capace. Ricordo che una mattina mettemmo il vestito della festa e prendemmo la corriera per andare a Rieti, dovevamo scattare la foto per il passaporto. Il fotografo le dovette dire più e più volte di sorridere, perché spontaneamente non riusciva a farlo. Ero il più piccolo, e per mettere al sicuro anche la mia anima, il giorno prima della partenza, mi venne somministrata la prima comunione tra le lacrime dei compaesani che affollarono in massa la chiesa per una sorta di estremo saluto.
Tutto andò però per il meglio, e il progetto di Fausto, il migrante in Africa, ebbe pieno compimento.
Improvvisamente il racconto di Kamara e Ceesay sull’indigenza e la mancanza di prospettive della loro area di origine, dei loro progetti e della loro ferma volontà di tornare in Gambia, mi hanno disorientato e confuso. Mi è parso di essere in un altro tempo e in un altro luogo, e non riuscivo più a capire se quella fosse la loro storia o la mia, anzi, della mia famiglia. Poi ho razionalizzato che, tutto sommato, è un’unica storia allo specchio, che si è dipanata tra gli altipiani dell’Africa e del Cicolano.
Tempo addietro, quando dal mio territorio si fuggiva in massa per la mancanza di risorse e prospettive, chi avrebbe mai minimamente intuito che, proprio qui, sarebbero arrivati in cerca di fortuna due ragazzi da terre dalle quali si fugge per mancanza di risorse e prospettive? Eppure è accaduto, nonostante apparteniamo alla parte povera di una nazione e un continente mediamente più ricchi, così come i nostri ospiti vengono da terre che sono la parte povera [5] di territori mediamente più ricchi.
Nel 2003, senza sospettare neanche lontanamente quanto oggi mi trovo a testimoniare, riferendomi all’esperienza africana della mia famiglia, ebbi modo di scrivere:
Quànno la troppa fame dalla tana c’ha cacciati
tra i niri a fa’ i niri bianchi ne sémo retroàti
se non fosse statu pé’ lu gran contràstu ‘é pelle
‘e condizioni sarrìanu state grosso modo quelle [6]
Ciò che è accaduto a me e mio fratello la scorsa estate rafforza l’idea che non avevo completamente torto.
Dialoghi Mediterranei, n. 52, novembre 2021
Note
[1] «Naivasha – The years rolled along, land changed hands occasionally but the biggest sale was in 1952 when the Marchese Bisleti bought Marula Estate from Sir John Ramsden».
http://www.europeansineastafrica.co.uk/_site/custom/database/default.asp?a=viewIndividual&pid=2&person=4107
[2] http://san.beniculturali.it/web/san/dettaglio-soggetto-produttore?id=10893
[3] http://win.storiain.net/arret/num115/artic6.asp
[4] «[…] col rischio sempre sotteso […] di cadere nella non controllabile mescolanza tra vero e falso». Leardo Mascanzoni, Di viaggi sentimentali e di pellegrinaggi, «Journal of Mediæ Ætatis Sodalicium», 10, 2007: 164.
[5] Sulla povertà africana attribuita al colonialismo britannico, si riporta una “pasquinata” rinvenuta affissa a Fiamignano nei primi mesi del 2021. Il Pasquino dei nostri tempi osanna il defunto calciatore Diego Armando Maradona per aver oltraggiato gli inglesi con il famoso gol di mano del 22 giugno 1986, nel Campionato mondiale di calcio del 1986: «Se lo dice Santo Diego / che gl’inglesi son gentaglia / io di certo non lo nego: / “Usan reti a stretta maglia / e con vile innato ego / prendon fieno e lascian paglia. / Prima o poi il seme si perda / di ’sta gente ch’è di merda!”».
[6] Settimio Adriani, Quartine & quartucci, Roma, Tipografia Facciotti, 2003: 157.
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Settimio Adriani, laureato in Scienze Naturali e Scienze Forestali, si è specializzato in Ecologia e ha completato la formazione con un Dottorato di ricerca sulla Gestione delle risorse faunistiche, disciplina che insegna a contratto presso l’Università degli Studi della Tuscia di Viterbo (facoltà di Scienze della Montagna, sede di Rieti) e ha insegnato presso le Università degli Studi “La Sapienza” di Roma (facoltà di Architettura Valle Giulia) e dell’Aquila (Dipartimento MESVA). Per passione studia la cultura del Cicolano, sulla quale ha pubblicato numerosi saggi.
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