di Alessio Angelo
A guardare dentro determinate realtà locali e a indagare più da vicino sui modi e i sistemi economici che regolano il reclutamento della manodopera straniera si scopre quanta distanza esiste tra il piano formale e astratto del dettato normativo e quello della prassi e della concreta applicazione dei diritti. Una distanza che diventa tanto scandalosa quanto invisibile nella gran parte delle campagne meridionali.
La contrada di Erbe Bianche negli ultimi anni è stata meta di una incontenibile ma in qualche modo occultata migrazione economica stagionale. Centinaia di migranti africani in maggioranza nativi del Senegal, del Sudan, dell’Eritrea, della Somalia e in piccola parte del Maghreb, regolarmente residenti in Italia ormai da anni, si spostano tra la fine del mese di settembre e i primi giorni di ottobre nel territorio di Campobello di Mazara alla ricerca di un lavoro certo non facile, ma accessibile.
Se dovessimo richiamare lo stato di civiltà che Italia e italiani credono di aver raggiunto dovremmo partire dal 20 maggio 1970 quando diritti, libertà e dignità vennero iscritti nello Statuto dei lavoratori. Ma siamo realisti. Siamo un popolo che non si scandalizza di fronte all’ingiustizia sociale, allo sfruttamento, allo schiavismo, alla mercificazioni dei corpi, al potere delle mafie. In questo contesto le 3 euro e 50 a cassetta per la raccolta delle olive sembrano perfino meno disumane. Il lavoro è faticoso, privo di tutele sindacali, insicuro e sottopagato eppure centinaia di lavoratori migranti con regolare soggiorno in Lombardia, Piemonte, Toscana, Sardegna, Campania e Calabria arrivano con gli aerei, con i treni e molti con le proprie auto per cercare lavoro nei campi in quei trenta o quaranta giorni della stagione delle olive. Molti di loro ne hanno sentito parlare da amici e compaesani, altri tornano sapendo quello che li aspetta. Negli ultimi anni hanno popolato uno spazio già carico delle memorie di miseria e di sofferenze prodotte dalle dolorose esperienze del terremoto del Belice, di cui ancora sono visibili le tracce. Le terre occupate da quasi un decennio sono le stesse che hanno ospitato le baraccopoli mai del tutto dismesse del sisma del 1968. Le rovine di eternit di una baraccopoli sono diventate rifugio e riparo per nuovi reietti. Un popolo che fatica ancora oggi a risollevarsi in una storica totale assenza di Stato, contrariamente a quanto si possa pensare, sembra non avere la capacità di sviluppare con i gruppi di lavoratori immigrati un incontro empatico e solidale. Ha forse paura delle nuove povertà perché è ancora incatenato alle vecchie?
Una terra sporca ha accolto gli stranieri anche quest’anno. Principio amaro di questo nuovo viaggio. Si erano sentite voci di un possibile spostamento in un posto confiscato alla mafia, forse un luogo comodo dove dormire mentre si guadagna qualcosa e si mette in moto l’economia del Paese. Dopo i primi dieci giorni di stanziamento, tra l’andirivieni di rappresentanti di associazioni e polizia municipale che promettevano uno spostamento e migliori condizioni tra l’oggi e il domani, si sono aperti i cancelli di Fontane d’oro, un bene confiscato. La recente storia di questo edificio la si può leggere nelle cronache giudiziarie; l’operazione antimafia Golem del 2009, la Golem II del 2010 e la più recente Eden del 2014 hanno dimostrato come questo oleificio fosse un’impresa legata alla mafia, ancora oggi tra le principali cause dell’impoverimento economico e dell’inaridimento culturale e civile di queste terre.
Il bene confiscato è stato recuperato e destinato temporaneamente all’accoglienza dei migranti stagionali, grazie all’impegno civile di alcuni enti e movimenti locali e nazionali che sono riusciti a ottenere l’attenzione delle istituzioni competenti. I cittadini liberi e autonomi del Collettivo LibertArea negli ultimi anni avevano denunciato le condizioni di schiavismo e reclamato il diritto all’accoglienza per le centinaia di braccianti accampati nella contrada di Erbe Bianche.
Le rivendicazioni sono rimaste inascoltate sino a quando nell’ottobre 2013 la tragedia di Ousmane Dialle, un giovane senegalese morto in seguito alla esplosione di una bombola di gas da campeggio, dentro l’accampamento, non ha richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica, dei media, della macchina umanitaria e delle istituzioni locali. Dopo la tragedia è intervenuta la Croce Rossa, dapprima con una analisi sulle condizioni umane della bidonville siciliana, seguita dall’istallazione di un presidio mobile, riuscendo in questo modo a prestare assistenza medica volontaria almeno nell’ultima parte della stagione. Presto, si sono affiancati a offrire il loro supporto gli avvocati di Adduma onlus, associazione che si occupa di prestare assistenza legale gratuita ai soggetti deboli. A portare il loro sostegno anche le associazioni nazionali Libera tramite i soci della sede trapanese e Libero Futuro oltre che la diocesi di Mazara del Vallo. Il comune ha aperto una fontana d’acqua nella contrada mettendola a disposizione degli ospiti necessari e indesiderati. Alcune televisioni nazionali e testate giornalistiche hanno realizzato e mostrato i loro servizi come richiede il più classico dei palcoscenici sul fenomeno migratorio. Con l’inverno però è ricaduto il silenzio, anche se i più tenaci non si sono arresi. Per vedere i primi risultati della lotta civile e delle conseguenze della tragedia di Ousmane si è dovuto aspettare settembre 2014, quando in seguito alle coraggiose richieste del Collettivo LibertArea e dei rappresentanti locali del Movimento Cinque Stelle il comune di Campobello ha realizzato la bonifica di Erbe Bianche, intervenendo sulla discarica di amianto a cielo aperto. Un primo passo per il bene comune. Il 6 ottobre 2014 dopo varie difficoltà iniziali la prefettura di Trapani ha concesso temporaneamente il bene confiscato alla Croce Rossa che, in collaborazione con le suddette associazioni, hanno aperto finalmente i cancelli dell’ex-oleificio Fontane d’oro ribattezzandolo Ciao Ousmane.
Il quadro cronologico dei fatti qui ricostruito e la sua rappresentazione mediatica presentano, a ben guardare, non poche e inquietanti ombre. Tuttavia il bracciante è colui che in prima persona esperisce le dinamiche di questa realtà marginale. Sul suo corpo restano iscritte le lotte sindacali, la sensibilizzazione dei cittadini rispetto allo sfruttamento agricolo e alla violenta discriminazione. Analogamente, nei corpi dei migranti è connaturata tutta la capacità di negoziare i termini della propria esistenza. Le loro voci sono di fatto ancora poco udite ma non sono affatto spente. La coercizione imposta attraverso le dinamiche della violenza simbolica e della violenza strutturale non ha ancora svuotato del tutto la loro agentività.
Dentro o fuori un recinto faticosamente conquistato e voluto dalle associazioni esterne e dalle istituzioni coinvolte, i migranti organizzano la propria vita, costruiscono allo stesso modo le case temporanee sollevando dalla terra o dall’asfalto i pavimenti per le baracche o il suolo per le tende, sfruttando i conci di tufo abbandonati nelle campagne, raccogliendo e assemblando materiali di risulta. Il riciclo degli oggetti da discarica sparso per i terreni della contrada è continuo, si trasformano i rifiuti in materiale da costruzione. Si gestisce con mille stratagemmi la insufficiente risorsa dell’acqua, necessaria per le docce e i servizi igienici del nuovo accampamento di Fontane d’oro. Non tutti quelli che sono arrivati, circa seicento anche quest’anno (ma le stime sono ancora arbitrarie), riusciranno a trovare lavoro nei campi. Le cause sono le più disparate: la crisi economica, l’assenza di piogge al principio dell’autunno che ha favorito le malattie delle piante e l’impoverimento dei frutti. Ma anche la paura del controllo poliziesco e per ultima l’Ebola e la cinica associazione che comincia a circolare tra la figura del migrante e il rischio del contagio.
Così qualcuno ha improvvisato dei piccoli negozi, la vendita di oggetti utili alla vita nel campo, un piccolo mercato: biscotti per pochi centesimi, un caffè o un thè. Pochi soldi messi in circolo creano attività. Si incentivano traffici di cose e incontri di uomini, si rigenerano spazi, si creano luoghi sacri per le preghiere collettive. Nel tempo libero si improvvisano dame da tavola con tappi e cartoni. Si gioca a carte. Girando per il campo si trovano meccanici più o meno improvvisati; venditori di semola per cous-cous, di frutta e altri alimenti. Si intrecciano insomma, in pochi ettari di terra, le vecchie lotte alla mafia con le nuove battaglie per l’affermazione dei diritti sociali elementari dei migranti, il lavoro, la dignità, la resistenza per la non riducibilità dell’essere umano: né schiavi, né assistiti, semplicemente persone.
A questi nuovi jurnateri è stato perfino tolto il diritto consuetudinario della ospitalità da parte del proprietario terriero e del contadino. Per quanto complesse siano le dinamiche del lavoro oggi, appare paradossalmente impossibile associare il contadino che nel passato si batteva per la riappropriazione delle terre, quello gridato nelle piazze dal poeta Ignazio, a quelli che oggi accettano e richiedono il lavoro nero fino a misconoscere il diritto al riposo e il dovere dell’ospitalità. I braccianti neri servono alle piantagioni ma devono rimanere invisibili, nella ambigua posizione di richiesti e respinti: è ciò che si apprende dalle poche coraggiose inchieste di giornalisti e specialisti del settore. Rimanere invisibili, nascosti alla vita cittadina per paura dell’altro forse, ma di sicuro per la vergogna di non fare abbastanza. Si avverte l’assenza delle istituzioni ma ciò che pesa di più sono l’indifferenza e la debolezza strutturale di una cittadinanza attiva. La privazione della stabilità economica subita soprattutto dalle più giovani generazioni, storicamente le più inclini al cambiamento, e in generale la difficile crisi che stiamo attraversando, rendono senza dubbio più acute ed aspre le tensioni sociali, più cieca la difesa dei benefici conquistati, più egoistica e cinica la nostra disposizione verso gli altri.
Se esiste un aspetto positivo che si rigenera nuovamente ogni anno con l’avvento dell’autunno nella terra dell’olivo e dell’olivastro è la forza con cui i braccianti venuti dall’Africa perpetuano il principio della resistenza. Nella logica del dominio la somministrazione dell’assistenzialismo presuppone corpi muti e immobili da curare e rinchiudere in una totale assenza di partecipazione. I corpi dei migranti devono essere certo salvati e curati ma posti al sicuro lontani dalle nostre città e della nostre vite. Nei centri di accoglienza le loro personalità giuridiche vengono degradate, limitate le loro possibilità di circolare, conoscere, lavorare, scioperare, partecipare alla vita.
Eppure, tra le macerie di una vecchia baraccopoli o nel recinto di quello che era il regno dei prestanome di Cosa Nostra, siamo difronte a delle sorprendenti forme di soggettività, a capacità indiscutibili che ribadiscono una irriducibile volontà di “esserci al mondo”. Autorganizzazione e autodeterminazione che lasciano trapelare la possibilità che la società del dominio possa essere trasformata dai dominati, liberati dalla complice subalternità culturale.
Dialoghi Mediterranei, n.10, novembre 2014
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Alessio Angelo, laureatosi presso l’Alma Mater di Bologna in Antropologia Culturale ed Etnologia e specializzatosi in Libro, documento e patrimonio antropologico presso l’Università di Palermo, ha svolto parte del suo percorso accademico in Spagna, in Cile e in Marocco. Si dedica allo studio e alla ricerca di temi antropologici e storici nel Mediterraneo. Ha collaborato con l’Università di Messina, l’Officina di Studi Medievali e la Fondazione Ignazio Buttitta. Attualmente lavora per l’Università di Bergamo al progetto di ricerca Euborderscapes sulla frontiera italo-tunisina.
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