di Gianluca Serra
La crisi ucraina sembrerebbe aver catapultato l’Europa in dinamiche storiche analoghe a quelle del “secolo breve” (1914-1991). Mentre Paesi neutrali come la Finlandia e la Svezia decidono di entrare nel dispositivo di difesa dell’Alleanza Atlantica, nelle capitali europee cresce la percezione del rischio di dover tornare a fronteggiare un nemico “convenzionale” sul proprio territorio in conflitti armati ad ampio spettro e alta intensità. In risposta a tale minaccia, i governi di numerosi Stati membri dell’Unione Europea (UE) hanno annunciato sostanziali incrementi delle spese per la difesa, in alcuni casi anche al di sopra del 2% del Prodotto Interno Lordo (PIL), obiettivo fissato in sede NATO già nel 2006 e ribadito in sede UE nel 2017. La sola Germania ha messo in bilancio spese militari per 100 miliardi di euro nel 2022 (contro i 53 del 2021), sfondando ampiamente il tetto del 2%. L’Italia si è impegnata a portare le proprie spese militari al 2% del PIL (oggi all’1,4%) entro il 2028 passando da 25,8 a circa 38 miliardi di euro all’anno.
Quello del riarmo – termine poco elegante ma di sicuro impatto comunicativo che indica l’aumento della spesa pubblica per commesse militari – è un tema altamente polarizzante in una società democratica e pacifista. Non mi avventurerò a sostenere la tesi della sua necessità né mi soffermerò a trattare del suo rapporto con la cogenza del principio costituzionale del ripudio della guerra, pur rimanendo abbastanza convinto che, nella contingenza storica odierna, la deterrenza militare sia la più credibile alleata della diplomazia.
Mi sembra invece più interessante, sul piano pratico, l’argomento economico del costo-opportunità secondo cui ogni euro per spese militari, quando non comporta un euro in più di prelievo fiscale, è comunque un euro in meno per sanità, cultura, scuola e altre politiche sociali ed economiche che accrescerebbero il livello di civiltà della nostra società. D’altra parte, tenendo a mente l’ingiustificata aggressione armata della Federazione russa sul territorio ucraino, mi chiedo, senza avere una risposta definitiva, se avremmo ancora questa civiltà di relativo benessere e diritti laddove non fossimo in grado di difenderla contro chi dall’esterno potrebbe un giorno minacciarne l’esistenza.
In questo breve articolo resterò piuttosto sul piano del comune cittadino e mi chiederò se nei meccanismi giuridico-istituzionali della grande famiglia di 27 Stati dell’UE esiste un metodo “intelligente” per spendere meglio, e in prospettiva anche meno, al fine di garantire la sicurezza militare del continente e la stabilità del sistema internazionale. Perché politicamente mi attrae e corteggia l’idea che ogni euro risparmiato sulle spese militari possa andare a finanziare asili, biblioteche, formazione per chi ha perso il lavoro, sussidi ai più fragili e agli indigenti, ovvero semplicemente una riduzione della pressione fiscale secondo il principio costituzionale dell’equità. Con queste premesse, vorrei brevemente presentarvi due documenti di freschissima edizione, fra loro idealmente collegati, che mi consentono di riflettere sul tema sopra tratteggiato.
Il 9 maggio 2022, la “Conferenza sul futuro dell’Europa” ha reso pubblico il suo rapporto finale [1] nel quale sono compendiate le raccomandazioni rivolte dai cittadini europei alle tre principali istituzioni dell’UE (Parlamento, Consiglio e Commissione) nel quadro di un lodevole esperimento di consultazione diretta finalizzato a stimolare l’attività legislativa europea e, in prospettiva, anche una riforma dei Trattati [2]. I cittadini consultati hanno espresso l’auspicio di un’UE che si erga sulla scena mondiale quale attore capace di contribuire alla pace e alla sicurezza nel quadro dell’ONU, delle norme del diritto internazionale e nel rispetto delle alleanze esistenti, vale a dire la NATO. Ambiziosi sono anche gli strumenti che i cittadini hanno associato al conseguimento di tale obiettivo. Fra esse merita di essere menzionata la costituzione di un esercito europeo permanente per garantire l’autodifesa collettiva di qualunque Stato membro che dovesse cadere vittima di aggressione da parte di uno Stato terzo nonché per operare fuori dalle frontiere comuni preferibilmente sotto mandato del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e in ogni caso senza competere o duplicare strutture e sforzi messi in campo dalla NATO [3].
Fatta la debita tara alla rappresentatività del campione consultato, sembrerebbe pertanto esistere, al livello del cittadino medio europeo, un’autorappresentazione normativa del ruolo dell’Unione che travalica le odierne competenze e realizzazioni in materia di difesa e richiederebbe una coraggiosa modifica dei Trattati in senso marcatamente federale. Non può che essere tale, infatti, un esercito europeo e le relative strutture politiche di comando e controllo, atteso che “la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla in mano ai militari” come vuole un adagio attribuito a Georges Clemenceau. Non ci si illuda sui tempi della sua realizzazione.
L’inerzia delle sovranità nazionali in materia di difesa è storicamente nota e non ammette salti quantici né voli pindarici. L’auspicato esercito europeo, per parafrasare il celebre discorso di Robert Schuman del 1950, non potrà farsi tutto d’un colpo secondo un piano predefinito ma prenderà forma e consistenza gradualmente attraverso “realizzazioni concrete” che creeranno anzitutto una “solidarietà di fatto” fra gli Stati membri. Sviluppi in tal senso sono già riscontrabili nella Bussola Strategica adottata dal Consiglio dell’UE il 21 marzo 2022 [4], laddove si è stabilito di costituire entro il 2025 un modulo europeo di 5000 soldati, e relativi apparati militari, dispiegabile in tempi rapidi in teatri di crisi, nonché di stabilire le procedure per l’attuazione dell’autodifesa collettiva europea (Art. 42.7 TEU) e la gestione di missioni militari condotte con forze armate di Stati membri sotto il comando e il controllo del Consiglio (Art. 44).
Si aggiungano a queste dichiarazioni d’intenti gli sforzi finora già fatti. Dal 2017 ad oggi, la Cooperazione Strutturata Permanente (PESCO) ha messo in cantiere ben 60 progetti intergovernativi, a geografia variabile, per la creazione di capacità di difesa impiegabili anche nel quadro della già esistente “Politica di Sicurezza e Difesa Comune” [5]. Dal 2021, il Fondo Europeo di Difesa, dotato fino al 2027 di 8 miliardi di euro [6] a valere sul bilancio dell’UE, fornisce supporto finanziario a progetti di ricerca e sviluppo transnazionali che hanno l’ambizione di posizionare il comparto difesa continentale sulla frontiera tecnologica e dotare così gli Stati membri dell’Unione di autonomia strategica e superiorità operativa in tutti i domini operativi (terrestre, marittimo, aereo, cibernetico e spaziale).
Veniamo ora al secondo documento che più da vicino ci proietta nel tema annunciato in apertura. Il 18 maggio 2022, la Commissione Europea e l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza hanno adottato una comunicazione congiunta [7] in risposta a un compito che era loro stato assegnato in occasione della riunione dei Capi di stato e di governo tenutasi a Versailles l’11 marzo 2022, ovverosia quantificare il divario di investimenti nel campo della difesa e proporre misure concrete per colmarlo.
La prima parte della comunicazione snocciola dati che plasticamente dimostrano come, nell’ultimo ventennio, il trend della spesa militare europea (+19.7%) non ha tenuto il passo con gli incrementi che si sono invece registrati negli Stati Uniti (+65.7%), in Russia (+292%) e in Cina (+592%). Il mancato adeguamento all’obiettivo del 2% del PIL è velatamente considerato la principale causa di questo gap.
La seconda parte della comunicazione propone un metodo per canalizzare verso una spesa più efficace ed efficiente le risorse finanziarie stanziate in ciascuno Stato membro, specialmente nella fase odierna in cui si annunciano consistenti incrementi. Si tratta, invero, dell’embrione di una strategia di politica industriale su scala paneuropea per il settore della difesa, logicamente e funzionalmente raccordato al suaccennato Fondo Europeo di Difesa. I suoi elementi caratterizzanti sono sintetizzati nello slogan “investire insieme, meglio e in prodotti europei” (“to invest together, better and European”).
“Investire insieme” significa per ciascuno Stato membro non cadere nella tentazione di rivolgersi alla propria industria nazionale così esacerbando i già esistenti e gravi problemi di interoperabilità tecnica fra sistemi d’arma. In ambito UE, risultano in uso ben 178 sistemi diversi (contro i soli 30 americani): 17 tipi di carro armato, 20 tipi di veicoli da combattimento per fanteria, 27 tipi di obice, 29 tipi di cacciatorpediniere/fregata e così via. Un incubo dal punto di vista della gestione logistica (ricambistica, manutenzione, aggiornamento) e operativa (cioè in un teatro di guerra). L’inefficienza che ne risulta non ha un numero esatto ma è stimata nell’ordine di diversi miliardi di euro (fra 25 e 100 miliardi all’anno).
“Investire meglio” significa concentrare gli sforzi finanziari su bisogni comuni, così come definiti attraverso gli strumenti analitici coordinati dall’Agenzia Europea di Difesa (AED), nella quale per tre anni mi pregio di aver prestato servizio. Sulla base di dati e informazioni periodicamente ricevute dagli Stati membri, l’AED elabora, e tiene aggiornato, un “Piano di sviluppo delle capacità” (CDP) ove sono individuate le priorità comuni per ciascun dominio operativo. Un secondo esercizio iterativo, noto come “Revisione coordinata annuale sulla difesa” (CARD), consente all’AED di supportare gli Stati membri nella sincronizzazione dei piani di investimento nazionali così da individuare progetti, rispondenti a priorità CDP, da attuare congiuntamente.
“Investire in prodotti europei” significa proteggere e far crescere le catene del valore esistenti a livello continentale evitando di importare prodotti extraeuropei. Non per finalità puramente protezionistiche ma per promuovere la sovranità tecnologica e l’autonomia strategica dell’UE nella difesa così da stabilire superiorità in tutti domini operativi e, in definitiva, in un’accresciuta deterrenza convenzionale verso qualunque potenziale avversario. Si tenga presente che circa il 60% della spesa militare degli Stati membri (200-220 miliardi di EUR nel 2020-2021) si rivolge verso sistemi d’arma prodotti al di fuori dell’Unione, principalmente negli Stati Uniti. Pur nel persistente ancoraggio alla NATO come principale strumento di difesa collettiva nel futuro prevedibile, l’UE dimostrerebbe con un tale indirizzo di politica industriale l’intenzione di compiere un primo coraggioso sganciamento dalla dipendenza tecnologica dall’indiscussa potenza statunitense. Il centro di gravità fra le due sponde dell’Atlantico inizierebbe a ribilanciarsi, dopo ottant’anni, in modo più adeguato alla statura economica, storica e ideale del vecchio continente. Si toglierebbe carburante a quella doxa, trasversale a vari partiti e movimenti in molti Stati europei, che non senza buone ragioni considera l’UE asservita agli interessi di Washington.
Per attuare il progetto dell’illustrato slogan, la comunicazione congiunta propone ai co-legislatori europei la creazione di un centro di competenza per programmare e gestire congiuntamente gli acquisti della difesa per tutti gli Stati membri. Amministrata nel breve termine dalla Commissione col supporto dell’AED, tale centrale-acquisti verrebbe affiancata da un fondo speciale europeo, con una dotazione nella fase-pilota 2022-24 di mezzo miliardo di euro a valere sul bilancio comune. Il fondo, che andrebbe esteso e accresciuto nel medio e lungo periodo, co-finanzierebbe acquisti di prodotti militari europei effettuati da gruppi di almeno tre Stati membri. Ne beneficerebbero specialmente i prodotti e le tecnologie derivanti da azioni cooperative di ricerca e sviluppo già co-finanziate dal succitato Fondo Europeo di Difesa. Inoltre, tali acquisti verrebbero esentati dall’imposta sul valore aggiunto laddove risultanti nella comproprietà di quanto acquistato da un gruppo di Stati membri appositamente costituitisi in un “consorzio di capacità’ di difesa europea” (peraltro utilizzabile anche come formato per progetti PESCO).
Le necessarie basi giuridiche per l’attuazione del progetto di ampio respiro sopra affrescato, potrebbero essere adottate, a trattati invariati, già a partire dai prossimi mesi. L’idea di una centrale d’acquisto per le necessità dei Ministeri della Difesa di 27 Stati membri costituisce un’innovativa e tangibile manifestazione dei princìpi giuridici di solidarietà e sussidiarietà su cui s’incardina l’intero progetto d’integrazione europea. L’ennesima, e certamente non l’ultima applicazione del principio dell’integrazione “per funzioni” (o funzionalista) inaugurato proprio dall’evocato discorso di Schuman 72 anni or sono. Si tenga presente che nel 2020, sulla base di dati relativi a soli 11 Stati membri, solo l’11% della spesa per prodotti di difesa (stimata in 37 miliardi di euro) è stata effettuata congiuntamente, il resto (89%!) individualmente o con Stati non-UE.
La pratica di acquisti congiunti attraverso una stazione appaltante europea sarebbe non solo un considerevole passo in avanti nella direzione di un esercito comune dell’Unione, così come auspicato nelle conclusioni della sopra richiamata “Conferenza sul futuro dell’Europa”, ma anche un segnale concreto per accrescere la legittimità della costruzione europea nella percezione del cittadino comune. E qui torno al cogente argomento economico presentato in apertura: ogni euro risparmiato sulle spese militari sarebbe un euro in più per il progresso della civiltà europea, per colmare divari in favore di persone e territori più bisognosi, per accogliere con dignità chi fugge da guerre e catastrofi naturali, per integrare l’altro-da-noi, per prendersi maggiore cura di una popolazione che invecchia e procrea sempre meno, per lottare contro la disinformazione, per rafforzare il nostro sistema di democrazia, Stato di diritto, libertà e diritti fondamentali che, per quanto imperfetto, rimane pur sempre il più alto livello storicamente mai raggiunto dall’umanità.
La legittimità dell’UE si costruisce col pubblico dibattito e informando i cittadini sulle scelte politiche e le conseguenti iniziative legislative e attività amministrative. Entrando in un nuovo ospedale, in una nuova biblioteca, in una nuova scuola sarà d’ispirazione poter trovare una targa che recita: “Bene pubblico realizzato con i risparmi sulle spese militari”.
Dialoghi Mediterranei, n. 56, luglio 2022
Note
[1] Il rapporto è consultabile online in lingua inglese: https://futureu.europa.eu/pages/reporting
[2] Sulla Conferenza, cfr. https://futureu.europa.eu/pages/about
[3] Cfr.: 65 ss., 88 ss., 135 del rapporto citato alla nota 2.
[4] Il testo della Bussola Strategica è consultabile online anche in lingua italiana: https://data.consilium.europa.eu/doc/document/ST-7371-2022-INIT/it/pdf
[5] La Politica di Sicurezza e Difesa Comune (PSDC) non è creazione recente. La sua nascita, sia pure sotto diversa titolazione, risale al trattato di Maastricht (1992). L’attributo “Comune” è novazione introdotta dal trattato di Lisbona (2008). Prima di allora, la PSDC era PESD, ove “E” stava per “Europea”. Tale aggettivo rivelava il proposito giuridico degli estensori del trattato di Maastricht: render chiaro, sin dalla scelta lessicale, che non si trattava di una politica “comunitaria”. Il livello d’integrazione che sottendeva la PESD era, infatti, di natura sostanzialmente pseudo-confederale, cioè intermedio tra metodo comunitario e metodo intergovernativo. La sostituzione di “Europea” con “Comune” segnala un approfondimento dell’integrazione, che resta tuttavia ancora a metà del guado verso il possibile, ed auspicabile, esito di una piena comunitarizzazione.
[6] Poiché il Fondo opera in regime di co-finanziamento rispetto a risorse proprie mobilitate dal comparto industriale e a contributi nazionali, è stimabile un effetto di moltiplicazione dell’investimento pari a 5 volte il valore dello stanziamento europeo (circa 40 miliardi di euro).
Fonte: https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/pl/memo_17_1476
[7] La comunicazione è consultabile online in lingua inglese: https://ec.europa.eu/info/sites/default/files/joint_communication_-_defence_investment_gaps_analysis_and_way_forward_0.pdf
______________________________________________________________
Gianluca Serra, dottore di ricerca in diritto europeo, è autore di numerose pubblicazioni scientifiche in prestigiose riviste giuridiche nazionali e internazionali sui temi della tutela dei diritti fondamentali della persona e della ricostruzione dello Stato in contesti post-bellici. Dal 2020, dopo varie esperienze lavorative nella funzione pubblica internazionale (in Afghanistan, Somalia, Estonia, Belgio), è dirigente dell’agenzia europea per gestione operativa delle frontiere comuni esterne, con sede a Strasburgo.
______________________________________________________________