di Angelo Battaglia
«Totò (il nome più palermitano) dice to’ padri di andare ad aprire il negozio, che lui ora scende». «Vicè digli che ora ci vajo». Breve dialogo con uso del dialetto siciliano tra figli di immigrati, da fare invidia ai palermitani doc, da generazioni lontani dal centro storico e che hanno una parlata alleggerita degli accenti gravi dei quartieri dei quattro mandamenti.
Ragazzi nati qui, a Palermo, e quindi siciliani, italiani, perfettamente integrati nel linguaggio, nel lavoro non sempre in nero, e che vanno regolarmente a scuola.
La via Maqueda conosciuta da tutti come “via nobiliare”, dove si affacciano palazzi e chiese in stile barocco, oggi spopolata dei negozi con nomi rimasti nella memoria – anche di ditte e marchi prestigiosi: Barbisio, Pustorino, Libreria Dante, Vitagliano – ora è rivitalizzata da odori di spezie, vetrine dai colori sgargianti, uffici (point) per inviare denaro ai parenti lontani.
Pure nelle strade limitrofe e principalmente nei mercati storici – Ballarò e Capo, quel che resta della Vucciria – gli immigrati oltre che trovare alloggi nell’edilizia precaria e abbandonata, fatti pagare a caro prezzo da gente con pochi scrupoli, già da parecchio tempo procedono in una ripopolazione di svariate etnie, prendendo usi e costumi della città ma continuando le loro tradizioni.
Nei luoghi, nella quotidianità, nei nomi. Tante strade e piazze, “costole” della via Maqueda, ma anche del corso Vittorio Emanuele, sotto il nome “latino” hanno scritte le traduzioni arabe in eleganti caratteri.
I Nuovi negozi si moltiplicano, suppliscono a quelli palermitani che non ce l’hanno più fatta; e oltre a prodotti locali vendono soprattutto i loro, continuando a tenere viva la loro tradizione, per farli sentire un po’ come se fossero nei paesi di origine, che hanno lasciato per guerre, povertà, dittature e genocidi, quasi sempre le cause degli spostamenti migratori.
Il cosiddetto “fenomeno” di immigrazione, e non “invasione” come qualcuno sostiene, è il tema attualissimo e del futuro.
È chiaro che l’illegalità si insinua nei vari spostamenti di questi flussi. Gente senza scrupoli carica a più non posso gommoni e imbarcazioni fatiscenti nel tentativo di attraversare il Mediterraneo, mare che ormai non conta più quante vite umane ha inghiottito.
Donne, bambini spesso non accompagnati e uomini disperati in cerca di un domani migliore per loro e i propri figli, spesso affidati, per toglierli dalla fame e dalle guerre, ai cosiddetti “scafisti”. Che provano a fare sbarcare clandestinamente anche dei veri e propri delinquenti insieme con le persone che fuggono da patrie non più vivibili.
Passeggiata lungo la via Maqueda, dai Quattro Canti a piazza Verdi (teatro Massimo). Luogo decisivo nella storia di Palermo. Sul finire del XVI secolo, data la pressante richiesta dei nobili che, assieme al clero, chiedevano spazi e aree per costruire i loro palazzi, conventi e chiese, si costruì la strada in onore del viceré Bernardino de Cardines, duca di Maqueda (dal 1598 al 1601). L’apertura della strada, conosciuta come “strada nuova”, comportò una grande quantità di lavori di sbancamento e distruzione di interi quartieri medievali, rivoluzionando l’assetto urbanistico della città: tagliava perpendicolarmente il preesistente Cassaro, formando una nuova arteria che divise la città in quattro mandamenti (Kalsa, La Loggia, Capo e Albergheria).
Palazzi rivitalizzati, ora, saracinesche rialzate, coloratissimo va e vieni: sconfitti i decenni bui in cui tanti negozi dall’oggi al domani non riaprivano. Le iniziative degli immigrati, con i loro market, i loro bazar, la loro allegria hanno provocato un effetto trainante che ha indotto moltissimi giovani palermitani ad aprire bottega: ecco l’odore delle arancine, delle panelle e crocchè, i colori delle coppole siciliane, bed and breakfast in palazzoni e palazzetti, la movida che si riunisce già nel pomeriggio.
Giovani, turisti, anziani rincuorati. E immigrati di numerose etnie che si sentono al sicuro in quella strada spagnolesca con le traverse sinuose, molto simili alle strade dei loro paesi. Tutti in uno dei pezzi della Palermo multietnica dove si mescolano tatuaggi, piercing, chador e abaya, pantaloni alla turca, bermuda e short, giocolieri, musicisti da strada, biciclette scampanellanti e anche interpreti di mestieri dimenticati, come il fotografo di strada. Una rinascita nella quale i bambini immigrati vengono portati a spasso dentro “passeggini” italiani.
Dialoghi Mediterranei, n. 38, luglio 2019
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Angelo Battaglia, conseguiti gli studi a Roma, rientra a Palermo sua città natale dove vive e lavora. Appassionato sin da piccolo dal disegno artistico e dalla fotografia, inizia la sua opera creativa con mostre personali, collettive, pubblicazioni e concorsi fotografici. Nel 1998 si iscrive alla U.I.F. (Unione Italiana Fotoamatori), riuscendo a sperimentare e perfezionare la tecnica fotografica. Predilige il reportage, realizza numerosi video-slide a tema e cura un blog fotografico, apprezzato dalla critica specializzata e dagli studiosi dei linguaggi della percezione visiva.
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