Oggi più che mai la condizione del migrante è di per sé caratterizzata da una sorta di ambiguità, di oscillazione tra due o più mondi. Si lascia la propria patria e si viaggia verso un nuovo Paese, e spesso anche una volta giunti lì il viaggio continua e il Paese d’accoglienza diventa soltanto il trampolino verso nuovi spostamenti. In taluni casi l’essere migrante ha connotazione positiva, quando ad esempio a spostarsi sono i cervelli nazionali, costretti ad esportare le proprie intelligenze in Paesi più accoglienti, come un’eccellenza nostrana da far valere all’estero. Ma la maggior parte delle volte il migrante viene connotato in modo essenzialmente negativo e con un’accezione caratterizzata da subalternità. È una persona in condizione di svantaggio, che proviene da situazioni di povertà, e che in qualche modo bussa alle nostre porte per mendicare una qualche forma di supporto, fosse anche solo un lavoro. Questo è ancor più vero quando si parla di migranti forzati, i quali non solo partono da contesti in condizioni estremamente critiche, ma spesso hanno anche subìto violenze e persecuzioni. In questo senso la posizione di svantaggio del rifugiato porta a rappresentarlo essenzialmente come una vittima, una presenza muta che, semplicemente mostrandoci le sue ferite, invoca aiuto (Malkki 1997).
Rifugiati quindi non lo si è intrinsecamente, ma lo si diventa in quanto riconosciuti come vittime bisognose di aiuto. Il rifugiato è colui che, per condizioni che vanno oltre la propria volontà, si trova in una situazione di emergenza, di straordinarietà, in uno status extra-ordinario, che lo pone quindi in condizioni di dover ricevere una qualche forma di assistenza. Essere vittima è uno stato fondamentale per appartenere alla categoria del profugo, implica avere alle spalle l’appartenenza ad una comunità che ha sofferto, che è stata costretta ad abbandonare la propria terra, e che in un certo senso è stata sradicata dalle proprie appartenenze. La storia personale deve essere particolarmente dolorosa e lacerante per poter ottenere una qualche forma di protezione giuridica, senza la quale è impossibile la permanenza nel nostro Paese.
Chiedere un rifugio significa pertanto chiedere aiuto in quanto soggetti in una condizione di estrema vulnerabilità; l‘ottenimento dello status giuridico è soltanto un primo livello delle azioni messe in campo in loro favore. Quello successivo riguarda l’essere soggetti a numerosi interventi di aiuto, finalizzati all’accoglienza e all’integrazione sul nostro territorio, decisi dalle Istituzioni e condotti solitamente da soggetti del Terzo Settore. In questo scenario il rifugiato, impersonificando il ruolo della vittima, non può che entrare in una relazione assolutamente sbilanciata con la società di accoglienza, in quanto gli interventi umanitari di cui diviene il destinatario difficilmente sfuggono ad asimmetriche logiche di potere. Il beneficiario di tali interventi infatti non può che accettare passivamente quanto gli viene offerto: un pasto caldo, un letto pulito, una sistemazione provvisoria. La risposta attesa è un ovvio sentimento di gratitudine, laddove questa sembra essere l’unica forma di reciprocità per un dono ricevuto che non può in nessun modo essere ricambiato in misura paritaria. Il migrante forzato vive pertanto l’esperienza negativa del distacco doloroso dalla propria realtà, ma anche quella di un’identità imposta dall’esterno che lo conferma nella propria condizione di subalternità.
Una chiave di lettura completamente alternativa della migrazione forzata ci viene però da un grande filosofo del ‘900, che ha fatto esperienza sulla propria pelle della condizione di esule, e che forse ci può aprire spazi di riflessione più ampi. Si tratta di Vilém Flusser, nato a Praga da una famiglia di intellettuali ebraici, ma emigrato prima a Londra e successivamente in Brasile a seguito dell’avvento del Nazismo. Flusser è stato a tutti gli effetti un migrante forzato, un rifugiato costretto ad abbandonare il proprio Paese a causa delle persecuzioni sempre più efferate nei confronti degli Ebrei, e ha quindi vissuto in tutta la sua pienezza la lacerante condizione dell’esule. Egli lascia la propria terra in un momento storico in cui il connubio patria-suolo era particolarmente enfatizzato, e laddove l’identità nazionale in termini di razza, cultura e appartenenza territoriale era stata appropriata a fini ideologici dal Nazismo con le conseguenze che tutti conosciamo. Flusser sperimenta quindi in tutta la sua violenza il vissuto dello sradicamento, quando si ritrova esule in terra straniera, una terra tanto lontana da essere addirittura dall’altra parte dell’Oceano.
Tuttavia questa esperienza, per quanto dolorosa, si rivela per lui particolarmente significativa. Gli permette infatti di riscoprire una valenza estremamente positiva nella condizione del migrante, il quale, solo, è veramente libero, in quanto ha reciso ogni legame con quanto lo lega (Bozzi 2007:18). Il passaggio muove dalla condizione dell’esule, di colui che ha perso tutto, a quella del nomade, ovvero dell’uomo libero per antonomasia. Nell’accezione comune, l’esiliato non può che trovarsi in una posizione di subalternità, in quanto non possedendo più nulla necessita quindi dell’aiuto altrui, e si trova in bilico tra due mondi senza arrivare ad appartenere a nessuno dei due. Al contrario per Flusser, l’esule è in una condizione privilegiata proprio perché l’oscillazione tra i due estremi rappresenta una sfida estrema, una tensione creativa che il sedentario non potrà mai sperimentare. Lo sradicamento, un sentimento inizialmente doloroso per chi lo sperimenta per la prima volta, diventa invece l’esperienza di una condizione di libertà totale, avendo troncato i legami con ciò che ci tiene incatenati, e che di conseguenza ci limita. L’esule diventa dunque nomade.
Riferendosi ai migranti contemporanei, Flusser dichiara che «coloro che sono stati cacciati dal loro Paese, così come si vedono occasionalmente sui nostri teleschermi non devono essere considerati degli outsider o delle vittime compassionevoli della società, ma dei modelli da seguire» (Flusser 1994b:17), perché «ci mettono davanti agli occhi ciò a cui noi dovremmo in realtà mirare» (ivi:37 cit. in Bozzi).
È evidente la provocazione insita in dichiarazioni del genere, che lasciano intuire un pensiero per certi versi rivoluzionario, ed un modo di intendere le migrazioni contemporanee assolutamente alternativo al pensare comune. L’emigrazione diventa quindi uno strumento per superare le proprie visioni limitate del mondo, qualcosa che apre nuovi orizzonti, e che attraverso nuovi incontri permette all’essere umano di andare oltre anche a forme di appartenenza identitaria territorialmente circoscritte. Al contrario, Flusser ci suggerisce che la creatività indotta dalla condizione del nomadismo non può che condurre a sperimentare forme di identità molteplici e ibride, correlate non alla stabilità bensì alla mobilità.
Sicuramente le suggestioni provocate dal pensiero di Flusser si scontrano con la realtà quotidiana di tanti migranti forzati, che non sembrano godere di nessuna libertà nell’esperienza di esuli, e che anzi sono costretti a condizioni di subalternità anche nella società di accoglienza. Va altresì fatto notare che i migranti contemporanei vengono accolti da un’Europa che sembra far riecheggiare nuovamente echi di identità culturale e territoriale, già appropriati da svariate forme di nazionalismi. Un’Europa probabilmente ben lontana da quel Brasile multietnico e meticcio incontrato da Flusser nella sua esperienza di profugo. Tuttavia il pensiero di Vilém Flusser rimane ad agitare le nostre coscienze e a ricordarci che possono esistere concettualizzazioni dei fenomeni migratori alternativi a quelli proposti dal sentire comune, concettualizzazioni in cui il migrante può reclamare una posizione paritaria all’interno della società di accoglienza, e affrancarsi dalla semplice condizione di vittima, per riappropriarsi di una nuova coscienza nomade.