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di Samuele Formichetti
Tutto ha inizio con un confine serrato, e da questa immagine che intendo partire, da una posizione netta alla quale si oppongono le vite che fuggono dalle guerre lungo la rotta balcanica.
In tutti i modi e a tutti i costi intendono valicare questo passaggio, percorrendo un viaggio impervio, caratterizzato da persecuzioni e da respingimenti violenti.
Le foto sono state scattate nelle città di Bihać, Velika Kladuša e Bosanska Bojna in Bosnia ed Erzegovina, ultimo paese della rotta balcanica da percorrere per varcare quel limite: il luogo del salto oltre il quale si vede il futuro, l’Europa, casa nostra.
Con ritmo sostenuto la macchina fotografica si avvicina per cogliere i dettagli di queste vite e poi si allontana per carpirne il contesto che dà il senso. Questo alternare di prospettive diverse vuole mantenere ben saldo il messaggio che queste vite esistono, hanno un nome.
Si scorge dagli occhi, la loro felicità non dipende dalla loro ricchezza, si vede, sono disposti a tutto: lasciare chi si è stato fino ad ora, lasciare i luoghi della vita di sempre, i ricordi.
Ma basta fermarsi a guardare ciò che rimane dei Jungle Camps per trovare tracce della loro casa temporanea che riproduce, in minima parte, quanto è stato dilaniato e mandato in frantumi, per poi essere ricostruito ancora, con mattoni o con teli, con legno e con chiodi.
Gli spazi e le cose abbandonate ritornano ad essere utili per loro, ricordano della loro vita che è stata, che cercano di ricostruirla qui, follemente, in questo passaggio. Adesso tentano un rifugio dove dormire, dove in fretta cucinare qualcosa da mangiare. Trovano legna da bruciare e fare fuoco.
Tutto questo che sembra così lontano sta a poca distanza da noi, e lo vedo: le tende isolate dei migranti, hanno come sfondo le case. Tutto questo serve ad una sola domanda: vi è ancora un luogo nel mondo per l’essere umano? Vi è un posto ancora dove poter vivere?
Il silenzio assordante delle lapidi, senza foto né nome, rimane senza pianto sotto il sole cocente e l’erba che cresce vicino. Tutto questo sembra significare la fine, ma non basta ad arrestare il viaggio. Procedono, e ancora la vita riemerge, dal disastro e dal nulla. Tra loro ci sono bambini che crescono e famiglie che portano avanti la vita.
Ancora una volta il simbolo di una repressione, scritto a caratteri cubitali su palazzi abbandonati, sembra una risposta sorda, ed echeggia nelle stanze vuote che la sorreggono – “NO CAMP”. Corre ancora tra i prati la speranza di una vita migliore, cerca qualcosa con cui giocare, rimane alla luce del sole.
In questi momenti di una pace apparente mi ritrovo a condividere sulla chat di Instagram un punto di localizzazione di Google Maps con i ragazzi che sto fotografando: so che domani saranno in un altro luogo, e la posizione indica il punto di attraversamento al confine con la Croazia.
Mi raccontano che hanno paura delle mine antiuomo, che non è possibile localizzare per via delle valanghe e le piogge che negli ultimi anni hanno modificato la conformazione del territorio. Mi raccontano degli Alì Babà che derubano i migranti dei pochi soldi e degli oggetti che possiedono.
Dal giorno dopo inizieranno quello che viene chiamato “the game”, lo spostamento notturno e il riposo di giorno, con l’obiettivo di passare inosservati. Tragico gioco che ricomincerà da capo nel caso di respingimento.
Mi dicono anche che è troppo pericoloso seguirli nell’ultimo tratto. Ho assistito a pattugliamenti giornalieri per rintracciare migranti che erano riusciti a fuggire dal vicino campo profughi di Lipa, oppure quelli che si rifugiano nelle zone fuori dalle città al riparo dagli alberi, tra la vegetazione.
Alla fine di tutto ci siamo noi, ad accoglierli in una spirale di iniquità e di contraddizioni, in un clima di odio o di indifferenza. Le persone rimangono in questi campi per anni, in una condizione oscura e precaria, dai quali non è possibile uscire.
All’assurdità delle scelte così lontane dal concetto di civiltà europea, così lontane dall’idea di condivisione e di solidarietà, la fotografia tenta di opporre il racconto di chi testimonia la propria vita contro la morte, di quanti con la loro esistenza, con la loro tenace resistenza denunciano le nostre insufficienze, sfidano le nostre ipocrisie.
Dialoghi Mediterranei, n. 56, luglio 2022
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Samuele Formichetti, da Pavia dove è nato si trasferisce nella provincia reatina dove trascorre la sua infanzia. Poco più che adolescente si approccia alle prime macchine fotografiche usa e getta, ma senza mai approfondire realmente la disciplina. Si inserisce molto presto nel mondo del lavoro scoprendo così la sua propensione alle attività pratiche di manifattura. Nel 2014 si trasferisce in Sicilia, qui accresce il suo interesse per la fotografia, compra i primi kit fotografici e acquisisce le conoscenze tecniche partecipando alle attività dell’Associazione AFI 011 con sede a Roccalumera (Messina). Si appassiona al fotogiornalismo leggendo testi da Robert Capa a Gabriele Micalizzi, mostrando particolare coinvolgimento verso ciò che documenta la guerra. Collabora con professionisti del settore e partecipa a workshop.
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