Il sistema italiano di accoglienza dei rifugiati, lo SPRAR, pone una forte enfasi sul tema dell’integrazione, come momento in cui il beneficiario, ormai legittimato a rimanere in Italia in virtù dello status conseguito, si accosta al contesto entro cui auspica di inserirsi. Le fasi precedenti al conseguimento dello status sono cariche di ansia per l’ancora richiedente asilo, il quale si accosta all’audizione presso la Commissione Territoriale con estrema preoccupazione per l’esito. La procedura italiana per il riconoscimento dello status di rifugiato prevede infatti l’ascolto della storia del richiedente asilo da parte di una Commissione Territoriale, nominata dal Ministero dell’Interno, la quale deciderà della veridicità di quanto raccontato e di eventuali prove prodotte a supporto della propria vicenda. L’audizione è la sede in cui si deciderà del proprio futuro. Non è sempre facile essere in grado di raccontare la propria storia in modo coerente e credibile. A volte, ad esempio, i molti traumi subiti non consentono un ricordo esatto, oppure si hanno delle resistenze a rievocare certe memorie particolarmente dolorose. Tuttavia, il resoconto della propria vicenda personale è fondamentale per l’ottenimento dello status di rifugiato, e non è raro che vengano coinvolti appositi Centri di medicina legale per la certificazione di tracce, non solo fisiche, lasciate da eventuali torture subite, in modo che venga non solo riconosciuto un danno oggettivo dell’individuo, ma anche la sua eventuale difficoltà nel ricordare traumi passati.
Una volta ottenuto un esito positivo, la rievocazione della propria storia passa però, in un certo senso, in secondo piano, in quanto i beneficiari dello SPRAR accolti nelle strutture di accoglienza della relativa rete, avviano la cosiddetta fase dell’integrazione, che è invece completamente rivolta verso il futuro. Durante questo periodo, che dura dai sei mesi all’anno, il beneficiario viene sostenuto in un percorso che ha la finalità di renderlo autonomo da tutti i punti di vista, in modo che allo scadere dei termini, egli possa essere equiparato in tutto e per tutto ad un cittadino italiano. In questo percorso la funzione fondamentale degli operatori SPRAR è quella di introdurre il beneficiario alla realtà italiana con gradualità, accompagnandolo in un processo di conoscenza e orientamento, e fornendogli gli strumenti e le informazioni necessarie affinché possa infine muoversi in autonomia. In questo senso gli operatori SPRAR tendono a porsi come anello di congiunzione tra il beneficiario, che arriva con tutta una serie di vissuti ed aspettative verso il futuro, e la società italiana, di cui si sentono “esperti”.
Ci si trova davanti ad un difficile equilibrio da costruire e rispettare, che vede ai due poli opposti l’attenzione al beneficiario in quanto individuo con le sue potenzialità e caratteristiche personali, e dall’altro l’inconscia percezione che il rifugiato, in quanto ignorante della realtà in cui si trova, sia una sorta di “tabula rasa” da riscrivere completamente, da orientare sulla base delle possibilità che l’Italia offre. Ispirati da questo sentire, gli operatori spesso definiscono il Centro di Accoglienza come una sorta di anticamera al vivere sociale italiano, un’incubatrice che prepara i propri ospiti alla vita sociale esterna (Van Aken 2008: 140). Lo SPRAR stesso sancisce questo mandato dell’operatore laddove, nel manuale operativo destinato al personale delle strutture di accoglienza, dichiara che «l’operatore accompagna e affianca il beneficiario per risolvere le questioni della quotidianità (sulla base dei servizi garantiti dai progetti SPRAR, come sopra indicati) e diventa un “ponte” per la conoscenza del territorio e della comunità locale» (Manuale Operativo per l’Attivazione e la Gestione dei Servizi di Accoglienza e Integrazione per Richiedenti e Titolari di Protezione Internazionale, 4).
D’altra parte il beneficiario si percepisce come tutt’altro che una tabula rasa. È vero che spesso quando arriva in Italia ha una conoscenza molto limitata dei servizi e delle modalità attraverso cui servirsene. Tuttavia, le reti di appartenenza dei connazionali, o semplicemente altri stranieri/rifugiati con cui entra in contatto, contribuiscono a fornire da subito un sapere di base relativo al “come funzionano le cose”. Il passaparola è sovente il veicolo primario di condivisione delle informazioni, che porta alla costituzione di un background informale, ma fondamentale, della società in cui ci si trova a vivere. Non di rado questo sapere di base entra in conflitto con la proposta fatta dagli operatori dei Centri, che tendono invece a muoversi attraverso canali più istituzionali, e che per certi versi ritengono di conoscere meglio la realtà italiana. Ecco quindi che la relazione tra beneficiari e operatori SPRAR porta alla luce una profonda contraddizione nelle modalità di accompagnamento dei rifugiati all’interno del sistema di accoglienza. Da un lato, abbiamo le dichiarazioni di intenti dello SPRAR, che mira a perseguire l’integrazione dei propri beneficiari attraverso la valorizzazione delle loro risorse personali. D’altro canto, però, l’osservazione diretta delle dinamiche all’opera all’interno delle strutture di accoglienza mostra che la relazione tra beneficiari e operatori SPRAR è tutt’altro che paritaria, in quanto, pur senza intenti ideologici, è lo staff a definire cosa vada fatto per inserirsi appieno nella realtà italiana, e quali siano gli strumenti e le risorse necessarie per attuare questo percorso.
Inoltre l’implicita asimmetria della relazione d’aiuto tra operatori e beneficiari rischia di portare ad una costruzione del rifugiato come soggetto debole, che ne limita profondamente il ruolo attivo. Di per sé il rifugiato è colui che, per condizioni che vanno oltre la propria volontà, si trova in una situazione di emergenza, di straordinarietà, in uno status extra-ordinario, che lo pone in condizioni di essere costretto a ricevere aiuto. I nostri modelli di assistenza tendono però ad estendere questa rappresentazione del rifugiato a quella della vittima. Utilizzare il paradigma della vittima significa categorizzare il rifugiato non solo come soggetto bisognoso di aiuto immediato, ma anche e soprattutto come essere indifeso, passivo e silente. Quindi, una volta conseguito lo status e aver ottenuto la protezione dal punto di vista legale, l’accento sulla storia individuale, fondamentale nella fase precedente all’audizione, viene meno per lasciare invece il posto ad una classificazione dell’individuo all’interno della categoria generale del “rifugiato”, dove le singole specificità scompaiono. L’obiettivo dichiarato dalle strutture di accoglienza è quello di emancipare i propri beneficiari, renderli il più possibile autonomi, promuovendo le risorse personali di ciascuno. Il paradosso è che nel momento in cui l’individuo viene etichettato come rifugiato, si innesca un processo di categorizzazione che ne enfatizza l’identità “passiva”, portando ad un esito diametralmente opposto. Le persone rischiano quindi di entrare in una logica assistenzialistica, che le spinge a loro volta a non cercare di emanciparsi ma di rimanere il più possibile sotto l’ala protettiva dei servizi.
Va notato inoltre che gli enti gestori delle strutture di accoglienza si muovono in una dimensione professionale caratterizzata da una forte connotazione etica. La maggior parte di essi appartiene a organizzazioni di impronta religiosa, che enfatizzano l’amore fraterno verso gli ultimi, oppure di orientamento politico, con una forte tendenza verso l’ideologia dei partiti della sinistra, che promuove il tema dell’uguaglianza e della non discriminazione. Questo particolare aspetto valoriale si riflette nella relazione di aiuto che si viene a creare tra assistiti e assistenti, con la propensione a far passare l’elargizione di risorse come qualcosa di assolutamente gratuito e dovuto in termini di solidarietà e uguaglianza sociale. In realtà, questa erogazione tanto neutra non è, in quanto suggerisce una posizione di intrinseca inferiorità del rifugiato, il quale viene implicitamente vincolato da un forte debito di gratitudine nei confronti dei Servizi da cui è preso in carico. È qui all’opera un’intensa azione di categorizzazione del rifugiato, che, in quanto destinatario di un dono (i servizi offerti) che non presuppone ricambio, è in qualche modo costretto a ricambiare quanto meno con la gratitudine, e quando questa non avviene, la persona viene vista come ingrata se non addirittura sovversiva al sistema.
La relazione di aiuto, importante strumento pedagogico, nell’esprimere la sua evidente asimmetria diviene quindi anche una potente dinamica identitaria. Il rifugiato, nell’identità che gli viene imposta dal contesto di accoglienza, viene rappresentato come persona indifesa, passiva e colma di gratitudine per l’aiuto ricevuto, o viceversa come subdolo e ingrato nel caso in cui rifiuti l’aiuto elargito e scelga altre vie. In questi termini il rifugiato raramente è colto nella sua individualità, ma al contrario tende ad essere costruito come un soggetto “generale”, parte della categoria omogenea della vittima, al massimo declinata solo attraverso le singole nazionalità, in rappresentazioni spesso viziate da stereotipi.
Il passaggio invece dall’idea di vittima a quella di persona vulnerabile sembra consentire di mantenere un maggior accento sul ruolo attivo del rifugiato. Percepire le proprie vulnerabilità vuol dire essenzialmente non dimenticare la propria storia, continuare a ricordare chi si è e da dove si proviene, e soprattutto mantenere una voce per raccontare. La dignità che scaturisce dal poter avere una voce e dichiarare le proprie identità molteplici, anziché quell’unica identità di rifugiato imposta dal contesto, permette di uscire dai circuiti di marginalità in cui si rischia di scivolare quando eccessive sono le tendenze verso l’assistenzialismo. In questa accezione, ottenere protezione significa quindi mantenere viva la propria storia passata anche dopo l’audizione, ricreare legami importanti con la propria comunità e non dimenticare chi si è stati, e chi si vuole essere nel futuro.
La memoria delle violenze subite è fondamentale per ricordare chi siamo, soprattutto quando non abbiamo più un luogo di riferimento che ci consenta un’appartenenza culturale radicata al territorio. L’unico luogo possibile è quello della terra perduta, riappropriabile solo attraverso la memoria. Reclamare protezione diventa allora un modo per guardare al futuro, senza rimuovere il passato, riaffermando le nostre appartenenze attraverso la proclamazione della nostra storia. Significa in qualche modo rifiutare un’identità imposta dall’esterno, e uscire dal paradigma della rassegnazione e della passività, per giocare un ruolo maggiormente attivo, per quanto questo ruolo possa differire da quello immaginato dai Servizi. Dare spazio al rifugiato come persona vulnerabile vuol dire riconoscere anche un tempo differente, una scansione delle scelte da compiere diversa da quella dettata dalle Istituzioni, una cronologia progettuale in primis centrata sull’individuo, e non sulla categoria omogenea dei “rifugiati-vittime”.
Dialoghi Mediterranei, n.11, gennaio 2015
Riferimenti bibliografici
Harrell- Bond, B. E., 2002, “Can Humanitarian Work with Refugees Be Human?”, in Human Rights Quarterly, vol.4 (1) (2002): 51-85.
Malkki, L. H., 1997, “Speechless Emissaries: Refugees, Humanitarianism, and Dehistoricization”, in Fog Olwig, K. and Hastrup, K. (ed.) 1997. Siting Culture. The Shifting Anthropological Object, London: Routledge.
Manuale Operativo per l’Attivazione e la Gestione dei Servizi di Accoglienza e Integrazione per Richiedenti e Titolari di Protezione Internazionale, Roma: Servizio Centrale SPRAR.
Van Haken, M. (ed.), 2008, Rifugio Milano. Vie di Fuga e Vita Quotidiana dei Richiedenti Asilo, Roma, Carta
Van Haken, M. 2005, Rifugiati. in Antropologia, vol.5 (2005), Roma: Meltemi.
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Chiara Dallavalle, già Assistant lecturer presso National University of Ireland di Maynooth, dove ha conseguito il dottorato di ricerca in Antropologia culturale, è coordinatrice di servizi di accoglienza per rifugiati nella Provincia di Varese. Si interessa degli aspetti sociali e antropologici dei processi migratori ed è autrice di saggi e studi pubblicati su riviste e volumi di atti di seminari e convegni.
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