di Leo Di Simone
15 aprile
Canta il servo Kabir: «Sadhu! basta compravendite, basta bene e male: non mercati né botteghe ha la terra ove stai andando!» (Kabir) [1]
Chissà per quanto tempo ancora ci troveremo a parlare di questo argomento che non era sicuramente nei nostri piani di discussione. Eravamo impegnati in discorsi più importanti, come la crisi economica e politica, seriamente preoccupati per il nostro futuro di europei, ecclesialmente occupati dal tema delle due Chiese e di un possibile scisma, ed ecco irrompere il virus, l’imprevisto, l’imponderabile, a mettere a soqquadro tutto un sistema. Il virus è diventato l’unico oggetto di discussione. E non è certo mancata l’informazione in questo tempo di crisi che si avverte infinito, in cui il tempo sembra dilatarsi come mai prima lo avevamo percepito, noi abituati ad andare di fretta ed ora costretti ad una inusuale calma meditativa.
L’informazione, sì, alla maniera del villaggio globale, nelle forme alle quali siamo ormai avvezzi: quelle degli estemporanei e pilotati copia-incolla che tutto e nulla dicono e quelle delle più patenti contraddizioni nella difformità delle interpretazioni di dati a disposizione e posizioni scientifiche. Un caleidoscopio di notizie non tutte in sintonia tra di loro. La confusione delle lingue di babelica memoria. E nonostante il fluire scrosciante del materiale informativo monografico e dettagliante almeno nell’intenzione, non possiamo dire di saperne molto circa cause, motivazioni, proiezioni, in una parola sulla verità del fatto che si mostra piuttosto velata anziché non. Ma questo non è solo un aspetto della situazione epocale nella quale siamo venuti a trovarci, un aspetto secondario e marginale; è l’aspetto che muove alle interpretazioni di un evento non del tutto chiaro e non del tutto chiarito e che comunque avrà una incidenza profonda nel nostro futuro prossimo ed in quello dell’umanità dopo di noi. Un’esperienza e una lezione che probabilmente forniranno nuovi indirizzi alla comunità umana vivente sul nostro pianeta, indicazione di vie che non necessariamente però verranno percorse, stante l’abitudine umana di calcare più volentieri il consueto, nell’impulso di una inconscia e repentina coazione a ripetere.
In questa congiuntura ermeneutica, perché di questo si tratta, dall’origine dell’evento funestante fino alle conseguenze possibili della sua interazione nefasta nel corso della vita biologica e culturale dei popoli, anche la teologia cristiana è chiamata a dare il suo apporto. Non può starsene oziosa e continuare ad occuparsi tranquillamente delle sue questioni dogmatiche interne ed autoreferenziali, tralasciando l’interpretazione e l’esaltazione della speranza di un altro mondo possibile del quale possiede peraltro un progetto consegnatole in forma utopica dalla dichiarazione della fede rivelatale. E qui è doveroso declinare utopia nel senso datole da Max Horkheimer, nei due aspetti di cui si compone: «critica di ciò che è, e rappresentazione di ciò che dovrebbe essere» [2]. Una teologia critica dunque, in prima istanza, consapevole del suo ruolo destruens almeno fino alla soglia simbolica dell’indignazione che indusse Cristo a cacciare violentemente i mercanti dal tempio e a disputare cruentemente con scribi, farisei e potentati del suo tempo; e di quello construens consistente nell’impegno della ricerca di forme capaci di coniugare utopia ed escatologia rappresentandole in modelli di sempre più perfettibile reificazione antropica. Uno sforzo diuturno per un tentativo di miglioramento di questo mondo sulla scorta di quel progetto evangelico che costituisce non tanto la forma della Chiesa ma del mondo e di cui la Chiesa dovrebbe essere garante ed esecutrice. Perché la Chiesa non è fuori dal mondo e del mondo condivide gioie e speranze, dolori e angosce e si costituisce di quella percentuale di cittadini che professano una fede e vivono una frequentazione ecclesiale. Non molti in percentuale, perché ormai, come ha asserito il Papa, non siamo più in regime di cristianità. E comunque ancora in regime di cristianesimo culturale, sempre secondo l’antica ricetta crociana, o ancora troppo cristiani come sostiene Umberto Galimberti che estende all’Europa intera questo imprinting di cristianità indita. Ma io non sono d’accordo.
Non sono d’accordo perché si fa presto a dire «chiesa» o a dire «cristianesimo». Molta gente, forse la maggioranza, identifica la Chiesa col Vaticano e col Papa. Confonde l’essere cristiani con l’essere religiosi, con l’atteggiamento cioè della religiosità naturale che si mescola col superstizioso e il sacrale e nulla ha a che vedere con il cristianesimo. L’emergenza coronavirus, l’insorgere del pericolo, la paura e il timore di rimetterci la pelle, hanno senz’altro rinfocolato l’istinto religioso connaturato nell’uomo, ciò che si caratterizza antropologicamente come sacro, come tremendum per dirla con Rudolf Otto, ossia con ciò che fa tremare di paura. In simile situazione ciò che religiosamente è più a portata di mano viene utilizzato senza indugio e senza contraddizione con l’abituale razionalità e/o con la poca dimestichezza col cristianesimo, per cui diventa, nel/e per l’inconscio collettivo automaticamente cristiano.
Da questo punto di vista abbiamo davvero visto di tutto sul palcoscenico mediatico: statue di madonne e di santi portate in giro su furgoncini, acqua benedetta spruzzata per strada per esorcizzare il virus, luoghi di culto tappezzati con le foto dei parrocchiani e tante altre amenità simili. Anche le plateali uscite di cattolici fondamentalisti che hanno gridato al «castigo di Dio» e interpretato la comparsa del virus come la punizione per una umanità perversa e corrotta rappresentano la risposta emotiva e ancestralmente religiosa all’evento misterioso e minaccioso del virus. In mezzo a tutto questo bailamme è forse mancata qualche seria interpretazione teologica della situazione; una lettura squisitamente cristiana chiarificante le posizioni della superstizione e del miracolismo, del bigottismo e della semplicioneria che con più facilità emergono in situazioni estreme e che banalmente vengono confuse col cristianesimo tout court, con i veri contenuti della fede perlopiù sconosciuti ai frequentatori della religiosità popolare e di massa. Francamente mi sarei aspettato qualcosa di più robusto e chiarificante dal magistero oltre il paternalismo consolatorio e rassicurante.
La Chiesa istituzionale però, dal suo canto, è intervenuta nell’ambito dell’azione umanitaria e caritativa; l’azione della Caritas è stata ed è capillare, perché le parrocchie hanno un rapporto diretto con la gente e sono radicate sul territorio. Un’azione caritativa silenziosa che ha avuto poco risalto sui media, ma va bene così. Il rumore non fa bene e il bene non fa rumore. Inoltre si è dedicata al conforto spirituale dei suoi pochi – in percentuale – fedeli per i quali ha approntato liturgie mediatiche di ogni tipo. La tecnologia informatica ha garantito la sua mediazione sociologico-culturale. L’interazione con la gente è stata però prevalentemente di stampo emotivo, a orientamento fideistico e devozionale, suggerendo senza volerlo una fruizione individualistica dei sacramenti a scapito della dimensione comunitaria sempre più carente in tempi di individualismo come i nostri. Versione laica del fenomeno è stata l’esibizione canora sui balconi che ha toccato le corde patriottiche degli italiani che hanno realmente creduto che finalmente «l’Italia s’è desta», con un secolo e mezzo di ritardo almeno. Anche questa è fede, a suo modo, anche questa è espressione sacrale. E sono state non poco toccanti le immagini surreali della Basilica vaticana vuota e del povero papa Francesco privato del suo abituale stuolo liturgico di inservienti e concelebranti; per l’occhio mediatico quasi la prova generale di una ulteriore allucinata e allucinante serie televisiva di Paolo Sorrentino: The last Pope. Ma nonostante veglie, preghiere, atti di affidamento, interventi canonici ed eterodossi, atti di fede e di superstizione, Dio non ha risposto. Neanche al Papa. Sembra sentirlo ancora, per chi come me si ricorda perfettamente, il grido accorato del santo papa Paolo VI nella basilica lateranense per i funerali di Aldo Moro: «Tu, Dio, non hai ascoltato la nostra preghiera!».
Normalmente Dio non scende a sanare le situazioni con miracoli. La domanda che i più gli rivolgono del dove fosse durante la Shoah è oziosa. Non intervenne neanche per evitare la crocifissione del Figlio. Non è nello stile di Dio. Quella del Dio interventista o «tappabuchi» come lo chiamava Dietrich Bonhoeffer è un’invenzione del mondo laico che crede molto nel magico, nonostante tutto. E la Chiesa lo sa bene. Così come sa bene che molti cristiani continuano ad invocare il Dio che è garante delle sicurezze che cercano o che hanno acquisite per cultura, censo, etnia. Non invocano un Dio che parla e fa richieste puntuali, ma semplicemente un Dio che garantisce e sanziona il diritto e la continuità di certi benefici materiali. Per cui la richiesta del miracolo! E Dio tace. Per le cose che riguardano questo mondo Dio ha istruito e lasciato quali suoi rappresentanti i membri del genere umano. Nella Genesi è chiaro questo affidamento del creato al genere umano perché lo custodisca e ne rispetti le leggi arcane. Papa Francesco lo sa bene e per ribadire il concetto ha scritto l’Enciclica Laudato si’. Non occorre dire altro. Si può dire semmai che il miracolo che Dio è uso fare è quello della guarigione interiore della sua creatura umana, della conversione, non appena trovato aperto il varco antropico del pentimento del male fatto, del desiderio di bene, della ricerca di armonia, della necessità di alterità tale che essa si presenta in forma divina eloquente e amante. Ma non ci si illuda! Non è un miracolo automatico. Richiede la partecipazione umana, il lavorìo della coscienza, la corrispondenza spirituale, la sintonia sulla frequenza metafisica che pur alberga, stando alla testimonianza del peccatore Agostino, nel profondo del nostro essere e una volta intercettata realizza una vera e propria rivoluzione delle finalità.
Comprendiamo dunque la difficoltà dell’operazione, di una conversione di massa di una umanità completamente convinta del proprio limite e della propria indigenza, della propria pochezza e della propria impotenza non dico davanti a Dio anzitutto, ma davanti al microscopico virus; premessa essenziale per un più difficile riconoscimento di colpe ataviche, collettive, culturali, commesse con estrema leggerezza, senza considerarle neanche tali. E quindi lo stato di colpa davanti a Dio per aver trascurato la sua volontà, avendo magari pregato abitudinariamente: «Sia fatta la tua volontà». Questa infatti è l’unica preghiera che appartiene al cristianesimo. Cristo ci ha detto di non dire molte parole come i pagani quando preghiamo, di non chiedere segni e miracoli, ma semplicemente questo: «Sia fatta la tua volontà». Quando lo diciamo non possiamo non constatare la situazione di inadempienza di una volontà divina di bene per il genere umano manifestata lungo tutto l’arco della rivelazione ebraico-cristiana. Dio vuole il bene per l’umanità. Qui risiede il cuore della rivelazione giudaico-cristiana, e teologicamente è ciò che si chiama redenzione. Senza riconoscere tutto questo non si può pregare in verità per nessun miracolo.
Noi abbiamo pregato e preghiamo per i malati, per i morti… ma quali malati? Ma quali morti? I nostri! Parenti, amici, personaggi pubblici, anonimi sconosciuti… li abbiamo contati. Sono tanti e abbiamo pianto. Ma come mai non abbiamo mai pregato né pianto per i 7.000 bambini sotto i cinque anni che ogni giorno muoiono nel mondo per cause legate alla malnutrizione? Cinque ogni minuto. Bambine e bambini che, a casa loro, in paesi colpiti da carestie e siccità, afflitti dalla povertà estrema o dilaniati da guerre e conflitti, continuano a essere privati di cibo adeguato, acqua pulita e cure mediche e perdono irrimediabilmente l’infanzia alla quale hanno diritto. Lontano dalle luci dei riflettori, dal cicaleccio dei media, dalla cognizione di un Occidente confessionalmente o culturalmente cristiano, troppo o troppo poco, a che livello non importa: e qui si dimostra che Galimberti ha torto. Se fossimo cristiani in qualche modo questo non accadrebbe, non dovrebbe né potrebbe accadere. E noi sappiamo che accade, non siamo ignari, siamo testimoni informati sui fatti e perciò colpevoli perché reticenti e omertosi. I nostri mezzi di comunicazione di massa sono reticenti e omertosi. I politici, le Chiese occidentali, noi tutti reticenti e omertosi. Colpevoli e privi di vergogna di fronte ad un mondo violato nella sua più profonda dignità e complici di una cultura generatrice di vittime innocenti in serie, computate in ineccepibili statistiche mondiali reperibili sui media e a cui nessuno presta attenzione. Vittime inevitabili secondo il sistema che afferma che ogni sistema è perfettibile e può generare «danni collaterali». Non abbiamo pregato e non preghiamo neanche per le circa 24.000 altre persone che complessivamente muoiono ogni giorno per fame o per cause ad essa correlate. Fame e malattie, di altri virus meno celebri e meno reclamizzati. Dell’HIV, ossia del virus dell’AIDS ce ne siamo dimenticati, ma è vivo e vegeto ancora dopo tantissimi anni e miete innumerevoli vittime nei paesi dove non c’è nessuna forma di assistenza sanitaria e si contraggono malattie per le situazioni di estrema povertà, di ignoranza, di assoluta mancanza di igiene, ove si è costretti a cibarsi di ogni cibo immondo.
C’è qualcosa che non funziona nei nostri computi, nelle nostra preghiere, nelle nostre visioni del mondo, nel sistema inumano che lo regge. C’è qualcosa di farisaico, di ipocrita. Direbbe Gesù: «I vostri morti sapete contarli, e gli altri? Non vi appartengono? Pregate perché siete stati toccati nella carne, negli affetti, nella libertà, nel dubbio del benessere, nella sicurezza che vacilla… Ipocriti!». «Una generazione perversa e adultera pretende un segno! Ma nessun segno le sarà dato, se non il segno di Giona profeta» [3]. Non lo sentiamo questo monito di Gesù rivolto a noi, del tutto identico a quei tanti che leggiamo nei Vangeli e riteniamo rivolti ad altri? Quei moniti di Gesù duri come pietre e taglienti come lame a doppio taglio. Il fatto è che non li abbiamo mai presi seriamente in considerazione. Li abbiamo ascritti alla dinamica rituale, anzi, alla logica cerimoniale, al vuoto di una religiosità borghese e vacua che si dissolve ai raggi prepotenti della ragione culturale, politica, dei miti prevalenti ispiratori di più prosaici avvenimenti rituali mondani proiettati sugli schermi mediatici del sistema. Ed è qui che risiede la colpa della Chiesa: nell’essersi lasciata coinvolgere nelle dinamiche mitiche del postmoderno senza un serio discernimento dell’identità propria ed altrui; nel non aver saputo proclamare ad alta voce, senza rispetto umano, in maniera politicamente non corretta, la novità evangelica che non è una forma di integrismo riservata agli adepti di una setta, ma la forma universale, cattolica dunque, di vita nuova per tutti gli uomini e le donne di questa terra. Per l’attuazione del progetto di redenzione, ancora utopico ed escatologico, e tuttavia in fieri a causa degli ostacoli che frapponiamo alla sua realizzazione.
Ecco perché siamo testimoni colpevoli! Ecco perché i peccati della Chiesa sono gli stessi peccati di un popolo, di una nazione, di un continente, di una cultura senza soluzione di continuità. Sia che si preghi a mani giunte sia che si strombazzi l’anacronistico inno di Mameli. Quando Thomas Merton pubblicò nel 1965 Conjectures of a Guilty Bystander, tradotto in italiano tre anni dopo come Diario di un testimone colpevole [4], non fece che raccogliere le sue meditazioni cristiane, di monaco e di contemplativo, di filosofo e di profeta, circa le mosse che la società e la politica americane stavano prendendo per il controllo planetario. «Interessi propri di un’epoca di transizione e di crisi, di guerre e di conflitti razziali, di tecnologia e di espansione» che non lo lasciarono indifferente come cristiano «deciso a dare un proprio contributo alla discussione» non tanto come testimone estraneo ai fatti ma come «testimone colpevole». «Benché io la pensi molto diversamente da quel ‘mondo’, credo che si possa dire che sono sensibile ai suoi problemi. Non mi illudo di non farne ancora parte» scrisse nell’introduzione, come una confessione [5].
Il cristiano, infatti, in qualsiasi posto o situazione si trovi, non è estraneo al mondo, né la Chiesa è una entità fuori dal mondo. I cristiani sono cittadini di questo mondo e dunque responsabili del suo stato e del suo buon andamento. Il loro interessamento a livello politico è un dovere spirituale. Il compito del cristiano non è solo quello di pregare e di occuparsi di questioni di astratta spiritualità o di imporre orientamenti etici; la forma più alta della spiritualità cristiana è quella di tentare di cambiare il mondo con i principi del cristianesimo che nel corso della storia hanno palesemente o surrettiziamente ispirato i principi antropologici più nobili: la costituzione di una società in cui ogni uomo e donna hanno il «diritto di vivere in pace, di mantenersi con un lavoro degno ed equanime, dignitoso e produttivo, che rappresenti il loro contributo all’equilibrio e all’ordine di una società nella quale non sia impossibile una relativa felicità» [6]. Così scriveva Merton nel 1965.
Si era accorto che anche la Chiesa cattolica americana stava cedendo alle lusinghe del grande incantatore, un oscuro mago di Oz orchestratore della cultura del consumo e del divertissement che è l’utile distrazione dai problemi seri della vita, l’oppio della nuova religione secolare. Certamente, scrive Merton nel 1967,
«gran parte del nostro presunto cristianesimo è in realtà un deplorevole culto rivolto a idoli. E il desiderio di crociata che si avverte proprio in quelle zone in cui il cristianesimo è più infiammato di fondamentalismo e d’integralismo non offre alcuna speranza di un correttivo […] Non possiamo più permetterci di mettere allo stesso livello la fede e l’accettazione dei miti riguardanti la nostra nazione, la nostra società o la nostra tecnologia […] di mettere allo stesso livello l’amore e una convivenza compiacente in modo sconsiderato, una costrizione al lavoro e al divertimento scialbamente vissuta, rivestita da artisti pubblicitari con un’aura di falsa felicità» [7].
Si era accorto che un virus mortale stava infettando la società americana e a partire da essa tutto l’Occidente; un virus subdolo e ammaliante che nell’arco di cinquant’anni ha infettato il mondo intero distruggendo l’anima dell’umanità. Sì, un virus che attacca e distrugge le facoltà spirituali dell’essere umano, cosificandolo, illudendolo di essere felice con la Coca Cola, col cinema, con le megaliturgie del calcio, con i ciclici rigurgiti della moda, con gli ultimi ritrovati della tecnica, e mostrandosi «in tutte quelle pompose e frivole maschere sotto le quali nasconde la sua astuzia, la sensualità, l’ipocrisia, la crudeltà e la paura» per creare «uomini-massa […] e lo stesso cretinismo spirituale che non permette di distinguere i cristiani dagli atei» [8].
Negli stessi anni altri stavano tentando di trovare lo specifico di tale virus e di dargli un nome scientifico. Si considerava che il virus era apparso sconvolgendo la tranquillità apparente scaturente dal progressivo evolversi della scienza e dal millantato progresso dell’umanità, positive conseguenze della rinascita planetaria dopo la seconda guerra mondiale. Del virus nessuno si accorgeva e di lui non si sapeva quasi nulla ed anzi alcuni consideravano le sue nobili ascendenze e il suo benefico influsso sull’umanità. Il suo nome acclarato era «liberalismo progressista». È stata una pensatrice di razza a fare questa diagnosi, la filosofa Maria Zambrano; e ha constatato come il virus fosse cresciuto in un momento inopportuno di spaesamento e di illusioni, mentre nessuno aveva
«saputo affrancarlo dalle sue impurità, né dalle sue maschere. Al contrario, esso ha avuto la disgrazia, proprio in virtù della sua condizione generosa, di accettare le peggiori compagnie, le alleanze più dubbie. Il principio cristiano del liberalismo, l’esaltazione della persona umana al più alto rango fra tutte le cose di valore del mondo, rimase occulto sotto il rigonfiamento della superbia. Fatuità innestata in coloro che sono stati liberali senza sentire viva, dentro il loro cuore, la segreta radice cristiana della fiducia nell’uomo, sì, ma non in tutte le cose dell’uomo, bensì in quell’aspetto per il quale egli è immagine di qualcuno che al tempo stesso lo protegge e lo limita» [9].
Ciò ha segnato, nel corso di più di mezzo secolo fino al presente, il tra-mutarsi del virus in «capitalismo neoliberale», un sistema senza libertà che consente libertà vigilate solo all’interno dei confini segnati dal proprio sistema e in accordo con i suoi esclusivi interessi. All’interno del sistema c’è il mercato perfetto; fuori di esso il caos perché il sistema neoliberale squalifica radicalmente quanti non si identificano con esso, arrivando a considerare gli estranei soggetti pericolosi, sovversivi, infetti, da mettere in quarantena sine die. Inoltre il suo sistema di legittimazione è subdolo e violento e si serve di mezzi di propaganda che fanno leva sul sentimento religioso dei popoli, incidendo subliminalmente sull’emotività.
Non è peregrina la tesi secondo la quale il capitalismo del nostro tempo è sempre più simile a una religione o a una idolatria. Il Cristianesimo del XX secolo avrebbe combattuto una battaglia cruenta contro l’ateismo senza accorgersi «che nessuna ideologia era mai riuscita come il capitalismo a eliminare la religione ebraico-cristiana dal cuore delle persone e dei popoli», semplicemente sostituendosi ad essa, come una nuova religione, o meglio come una vera e propria idolatria. È la tesi principale che l’economista Luigino Bruni discute nel suo saggio Il capitalismo e il sacro (Vita e Pensiero, 2019) denunciando il culto idolatra del consumo senza soste che caratterizza l’aspetto sacrificale di tale religione, la quotidiana immolazione al dio del capitalismo. Ispirato agli scritti di Walter Benjamin, in particolare Il capitalismo come religione, e di Pavel Florenskij, La concezione cristiana del mondo il saggio evidenzia come lungi dall’avere eliminato il sacro dal mondo, come molti ingenui sostengono, il capitalismo è «diventato esso stesso un culto, una religione» proprio per il suo carattere sacrale. E qui bisogna dissipare un equivoco ermeneutico fondamentale: l’identificazione del «sacro» o del «religioso» col «cristiano».
Il sacro e il religioso sono ancestrali e attengono al tremendum, allettano e intimoriscono, seducono e respingono e tra il fedele e la divinità non ci può essere alcun rapporto di reciprocità, di amore, di libertà, ma solo di sospetto, di interesse e sfruttamento reciproco: «Io ti adoro e ti imploro a patto che tu mi faccia questo miracolo». Oppure, per converso: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai»; così dice il demonio a Gesù tentandolo per la terza volta nel deserto, per tastare la sua disponibilità a piegarsi alla logica del sistema inumano che governa il mondo col potere [10]. Niente dogmi se non quello del consumo per il consumo nella religione capitalistica globale, solo liturgie di consumo e cerimonie per gli acquisti, lunghe processioni con carrelli come quelle che si vedono proliferare ai supermercati in questo tempo di virus a tutte le ore del giorno. Un culto senza tregua e senza pietà dove non esistono giorni feriali ed ogni giorno è festivo. Il tremendum provoca la paura del virus, del contagio, della fame, nell’impossibilità di scorgere un archè, un telos… Qui l’antropologo può rilevare dinamiche religiose antichissime e sempre uguali, benché con nuovi attori e nuovi contenuti.
Tutto questo comporta una sua naturale Nemesi, che rivendica il suo diritto con la spada e la clessidra stando alla simbolica mitologica classica. Nemesi che tramuta i testimoni colpevoli in vittime, senza contraddizioni, quasi per corrispondere a quel tanto di irrazionale che la vicenda drammatica del Covid-19 sta imprimendo nelle nostre vite. Non ci è stata data né si potrà trovare verità scientificamente acclarata di questa emergenza pandemica, né ci si può sentire appagati dalle informazioni fornite dal sistema perché è chiaro che il sistema difende se stesso. «Come può Satana scacciare Satana?» dice il vangelo. D’altro canto la struttura mitica della religione capitalista è tale da avergli garantito la sopravvivenza tra i miti del XX secolo come il comunismo stalinista e il nazismo hitleriano. Hanno costituito la trinità laica del XX secolo. Tra i due criminali blocchi dittatoriali il capitalismo ha saputo conservare una patina esterna di liberà e democrazia, di rispetto e di tolleranza, mostrando una maschera umana e sentimenti e propositi che hanno intercettato le aspirazioni materialistiche della postmodernità, insieme alla scomparsa del pensiero utopico e dei grandi progetti di riscatto dell’intera umanità. Ora ci stiamo accorgendo, a parte quei profeti che se ne sono accorti da tanto tempo, che siamo le vittime che stanno pagando il prezzo di tanta grettezza e di tanto cinismo del sistema in cui abbiamo sguazzato. Ma ce ne stiamo accorgendo davvero? Davvero «l’Italia s’è desta?», giusto per limitarci alla nostra augusta nazione?
Che i tagli finanziari alla sanità, alla scuola, alla cultura fossero finalizzati all’indebolimento dei nostri corpi e delle nostre intelligenze è un fatto sul quale abbiamo sorvolato. Abbiamo accettato gli ospedali come aziende che si arricchiscono a spese della nostra salute e le industrie farmaceutiche sempre più fameliche e mai sazie delle nostre malattie. Ma abbiamo visto come hanno funzionato le aziende della salute in zone di «eccellenza», nel cuore dell’Italia industriale, e non osiamo proiettare la situazione nel futuro, tanto più che si paventa un business colossale per la produzione del famigerato vaccino. Intanto la situazione in cui viviamo si presenta con tutti i suoi tratti di ordine simbolico marcatamente kafkiani: reclusioni, mascheramenti, imbavagliamenti, untori, coprifuoco, isolamenti esistenziali, nevrosi scaricate sul cibo e sui congiunti, per quanto riguarda i sani… per i malati scenari più luttuosi e drammatici. È stato Dio, il fato, la natura, il caso, l’opera dell’uomo attraverso una scienza che non sa mantenere le sue promesse e mostra tutto il suo limite? Il dibattito è aperto e continuerà a blaterare per un pezzo sugli schermi del sistema, come un mantra assillante e mortifero. Il sistema intanto sostiene sia la tesi che l’antitesi in nome della sua coerenza. Fino alla prossima emergenza, di qualsiasi natura essa sia. Poi si parlerà d’altro, come se nulla fosse accaduto: polvere di stelle please!
La teologia cristiana, dal suo canto, non può far altro che puntare sul progetto umanistico interno alla sua struttura. Un progetto non nuovo ma negletto, anch’esso per diversi secoli. Dopo esserci cimentati nel declinare filosoficamente le dissimiglianze tra Dio e l’uomo finalmente abbiamo scoperto la singolarità del cristianesimo che consiste nella solidarietà totale di Dio con l’essere umano. Perché così Dio vuole. Perché così ha mostrato in Cristo per contestare e contrastare la nostra disumanità. Reinterpretando la religione di Israele Gesù Cristo ha messo fine alla violenza del sacro, non solo nell’ordine dei sacrifici rituali – la religione capitalistica cinicamente può pensare alle vittime del Covid-19 come a «danni collaterali» – ma il sacro di un Dio violento, un Dio totalmente «altro» che si definisce esclusivamente in termini di onnipotenza, di perfezione e di eternità.
Smascherare una volta per tutte e con unanime decisione e metodo la nefasta oppressione sacrale di marca religiosa che ancora anima le grandi istituzioni mondiali, chiese comprese, è il compito e la sfida della teologia che potremmo battezzare «teologia dell’indignazione»; una teologia che a partire dai toni chiari e netti della denuncia deve essere catalizzatrice di un processo di ri-costruzione dell’umano che rientra nei piani redentivi del Dio di Gesù Cristo: un Regno di giustizia e di pace a partire da questa terra. La teologia deve chiarire il fatto che l’assolutizzazione del sistema attuale – che comporta morte, miseria, disoccupazione strutturale, esclusione sociale, violenza, crisi ambientale, vuoto politico, ladrocinio istituzionalizzato, tutte cose generate dal modello di globalizzazione economica del capitalismo liberticida – deve essere equiparata all’idolatria. L’attuale sistema unico è diventato un idolo che come tutti gli idoli richiede immolazione di vite umane, «sacrifici» di ogni natura e soprattutto economici per pagare i debiti perenni contratti col famelico Moloch: il debito come colpa irredimibile deve diventare universale, deve raggiungere una forma di disperazione cosmica coerente con la natura disumana del suo dio. Nonostante l’uso populista che si fa del termine globalizzazione, questa, come progetto e prassi è una rivoluzione conservatrice che porta sempre più il mondo alla restaurazione di un capitalismo criminale e privo di coscienza etica. Come ogni idolatria la globalizzazione capitalistica è una mistificazione che è pura violenza ammantata di rispettabilità borghese per la pubblica attrazione pubblicitaria, con i suoi sacerdoti in giacca e cravatta e forniti di seducente quanto ingannevole bon ton.
Mi rendo realisticamente conto però che gli idoli sono difficili da abbattere e che la teologia non può né deve risolvere empiricamente gli enormi problemi che gravano sulla nostra epoca. Non è il suo compito, così come non è compito della Chiesa/Chiese imporre modelli etici ed esistenziali in un contesto multiculturale che può accogliere solo testimonianze ma non lezioni. Per cui il compito della teologia, secondo il suo genio cogitativo, è generare la speranza utopica sulla lunga gittata del versante escatologico verso il quale, lo vogliamo o no, siamo necessariamente pro-gettati. Per non darla vinta alla rassegnazione che nega alternative allo status attuale, che ritiene assoluto il modello del mercato capitalistico; per costruire in alternativa e controcorrente un orizzonte di senso che permetta di criticare il mondo attuale mostrando la falsità e la malvagità degli idoli. Per non darla vinta alla «gettatezza» di heideggeriana memoria e matrice di un nichilismo eretto a sistema dal sistema, e poter coltivare la speranza nell’intelligenza umana sempre da educare e valutare in direzione del bene, del bello, del vero. Le forze positive che sono emerse ed emergono ancora in questa epocale contingenza virale in ordine all’impegno professionale degli operatori sanitari, nel campo della solidarietà e del volontariato, dell’assistenza agli indigenti… sono i tratti positivi di una umanità ancora presente a se stessa nella sua fontale dignità. Un segno di grande speranza.
Mi chiedo, infine, se il ritrovarsi nella condizione vittimaria non sia stata e non sia, adesso, l’occasione opportuna per ritrovare l’assetto reale della condizione in cui ci troviamo. Valutare il coronavirus come kairos, parola importante nel lessico cristiano, visione del «tempo come opportunità», momento favorevole da cogliere al volo, momento salvifico che giunge inatteso, imprevisto e imprevedibile, sbucando dal nulla. È il sintagma usato da Marco per narrare l’apparizione di Gesù nel suo vangelo; sbuca dal nulla, senza precedenti, senza antenati, senza storia. Il racconto di Marco è un enigma, nel significato che Eschilo nell’Agamennone attribuisce al termine ainigma, «detto oscuro» o «rompicapo tristemente profetico». Gesù esce da un ainigma che nessuno studioso della questione del «Gesù storico» ha saputo sciogliere in maniera soddisfacente. Esce dalla contraddizione del mutamento di Dio, perché Dio non è immobile e immutabile. Dio muta e passa dall’onnipotenza allo stato di vittima:
Πεπλήρωται ὁ καιρὸς … μετανοεῖτε καὶ πιστεύετε ἐν τῷ εὐαγγελίῳ: «il tempo è compiuto… convertitevi e credete alla buona notizia» [11]. Si tratta di un tempo nuovo, di una nuova notizia da annunciare all’umanità. In Galati 4,4 per Paolo la misura del kronos era stata ritenuta colma, anacronistica; Kronos era il padre snaturato che divorava i suoi figli. E Marco, che verosimilmente redige il suo scritto dopo Paolo, e plausibilmente sulla scorta di una tradizione aramaica, riformula col kairos l’immagine della pienezza del tempo perché essa è visibile, in carne ed ossa, nella persona di Gesù di Nazareth. La novità, il mutamento, sono possibili, il tempo è «soddisfatto» nella sua persona che rende presente l’euaggelion, la «buona novella», il «buon/dolce evento». Gesù di Nazareth è il Kairos, l’Evento designato dello scopo di Dio e manifestato secondo il suo imperscrutabile disegno prendendo poi forma paradossale nel kairos che è la croce, l’ora in cui si manifesta tutta la malvagità del sistema di potere inumano, sacrale e religioso e si realizza ciò che conta, con una diversa logica di metamorfosi che sembra smentire la «buona notizia». Nuova forma di nemesi che legittima la spada della parola e instaura il tempo nuovo che si caratterizza non per l’avidità e il sopruso ma per l’amore che offre la sua stessa vita.
La teologia, interpretando le scritture, può additare soltanto a questo cambiamento epocale nella storia dell’umanità che però non si realizza appieno senza la partecipazione dell’umanità. Il kairos è giunto inaspettato per incrinare tutte le nostre sicurezze e le nostre spavalderie e ci annuncia, a suo modo, che abbiamo bisogno di conversione, una parola cui abbiamo attribuito esclusivamente un significato religioso ma che significa semplicemente cambiare rotta, cambiare strada, nella verità di una notizia altra, più buona, più bella, più vera che possa costituire l’orientamento ultimo della vita del genere umano oltre ogni naturale crisi pandemica.
Dialoghi Mediterranei, n. 43, maggio 2020
Note
[1] In esergo alla prima parte di Th. Merton, Diario di un testimone colpevole, Garzanti, Milano 1968: 11.
[2] M. Horkheimer, Gli inizi della filosofia borghese della storia. Da Machiavelli a Hegel, Einaudi, Torino 1978: 63.
[3] Mt 12, 39.
[4] Cfr. Th. Merton, Diario di un testimone colpevole, cit.
[5] Ivi: 9.
[6] Ivi: 93.
[7 ]Th. Merton, Fede, Resistenza, Protesta, Morcelliana, Brescia 19702: 177-178.
[8] Id., Diario di un testimone colpevole, cit.: 48.
[9] M. Zambrano, L’agonia dell’Europa, Marsilio, Venezia 20138: 16.
[10] Cfr. Mt 4,9.
[11] Mc 1,15.
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Leo Di Simone, teologo, scrittore, esperto di musica liturgica e di arte sacra, ha insegnato Antropologia culturale e Liturgia presso la Facoltà Teologica di Sicilia (Palermo), l’Istituto di Scienze Religiose di Mazara del Vallo e l’Istituto Teologico di Scutari (Albania). È presbitero della Diocesi di Mazara del Vallo. Tra le sue pubblicazioni, si segnalano i seguenti volumi, editi da Feeria (Panzano in Chianti): Liturgia secondo Gesù. Originalità e specificità del culto cristiano. Per il ritorno a una liturgia più evangelica (2003); Vexilla Regis. La croce dipinta di Mazara del Vallo. Icona pasquale della liturgia (2004); Beato Angelico. L’estetica del Verbo incarnato (2004); Le rotte dei Misteri. La cultura mediterranea da Dioniso al Crocifisso (2008); Liturgia medievale per la Chiesa postmoderna? La questione del “rito antico” nel racconto del “rito romano” (2013). Ha curato, per i tipi de Il Colombre, il volume Trasfigurazione. La Basilica Cattedrale di Mazara del Vallo. Culto Arte e Storia (2006). L’ultimo suo volume è un saggio biografico su Thomas Merton: Il romanzo di Thomas Merton. Un umanista cristiano nell’era postcristiana, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani (2018).
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