Caro compagno, Carissimo Gino, Caro Cortese, Onorevole. Le trentotto lettere che sei giovani donne del partito comunista indirizzano al partigiano e parlamentare siciliano Gino Cortese durante la sua detenzione, dal 1948 al 1949, non si rivolgono all’autorevole corrispondente con la medesima familiarità.
Si potrebbe pensare a semplici protagoniste epistolari, aprendo la raccolta che ci viene oggi consegnata da Enrico, figlio di Gino, nel volume Straordinarie. Le lettere delle donne del PCI a Gino Cortese (Navarra Editore, 2022). Altro tuttavia ci raggiunge con le loro voci, trascinate dall’intreccio fitto, senza smagliature, che dopo quel differente esordio dettato da minore o maggiore prossimità d’affetti, parla d’impegni e progetti condivisi da portare avanti.
Le donne che scrivono a Gino Cortese hanno un ruolo pubblico, istituzionale, politico. Ci sono staffette partigiane, parlamentari, giornaliste, intellettuali, tutte antifasciste militanti in una Sicilia da poco uscita dal devastante conflitto mondiale ma non ancora terra di pace. Meritano, a ragione, di essere considerate “straordinarie”. Perché per i tempi lo furono davvero.
Facevano parte, quelle donne ̶ non è superfluo ricordarlo ̶ della prima generazione di italiane che aveva avuto accesso alle urne con le elezioni del 1946. Dopo quasi mezzo secolo di rivendicazioni, la metà del Paese esclusa dalle liste politiche aveva potuto finalmente trovare voce per votare ed essere votata, si era messa in fila nei seggi per le amministrative, e ancora per il referendum e per l’Assemblea Costituente.
È vero, si trattò di un esordio contenuto: soltanto ventuno sarebbero state le deputate elette per scrivere la nuova Italia democratica [1]. Eppure, pur trattandosi del 3,7 per cento dei 556 membri, si poneva fine ad una storia di presenze politicamente invisibili. Tra quelle che, ormai a pieno titolo, si presentavano come le prime cittadine italiane, 49 avrebbero fatto parte dei 978 componenti del Parlamento nel 1948 (45 alla Camera, 4 al Senato). L’anno precedente, in Sicilia, solo tre donne avevano ottenuto la fiducia degli elettori per la prima Assemblea regionale del dopoguerra. Numeri ancora piccoli, certo, ma da subito importanti per il peso che avrebbero assunto nella Repubblica appena venuta alla luce.
Se le donne scrivono, è Gino Cortese che riceve e legge nel silenzio di una cella. In apertura, il figlio ricorda la statura morale e politica del genitore, tra i trecento detenuti siciliani ̶ qualche migliaio nel Paese ̶ del biennio 1948 -1949, quello in cui il governo De Gasperi aveva rotto l’iniziale alleanza con le sinistre per ottenere gli aiuti del piano Marshall e l’appoggio americano. Uomini in carcere perché accusati di adunata sediziosa, di «oltraggio e lesioni a pubblico ufficiale, se non tentato omicidio o addirittura “complicità morale”», e di altro ancora. Fa bene l’autore a ricordare che nella Sicilia del 1948 «cadevano sotto i colpi della mafia decine di sindacalisti, si sparava ai comizi del PCI, s’incendiavano le sedi di partiti di sinistra e dei sindacati, il banditismo mafioso sequestrava e uccideva», perché non va dimenticato che la giovane democrazia zoppicava soprattutto nell’Isola, dove persistevano abusi, imposture e soperchierie.
Questo in breve il contesto per muoversi con la giusta accortezza tra le trentotto lettere che Enrico Cortese ci propone in una raccolta preziosa. Abbiamo insomma tra le mani singolari “scritture documento” di donne che avevano da poco conquistato i diritti civili, e che lottavano insieme agli uomini in una Sicilia di violenze e arretratezze.
Quelle voci ci parlano di presenze nelle campagne e nei quartieri, di letture che si rendevano necessarie per afferrare la complessità di un tempo in travagliato mutamento. Raccontano delle tante attività, di incarichi presi e ricevuti per muoversi anche fuori dall’Isola, degli incontri politici e della ricerca di libri e riviste da inviare ai compagni detenuti.
Si scrive per informare e riportare qualcosa del mondo di fuori, delle vicende processuali in corso e delle beghe di partito, ma anche per spalancare un mondo interiore fatto di affetti e sentimenti ̶ con quella specificità tutta femminile che non conosce infingimenti di facciata ̶ e dichiarare paure, difficoltà, le fragilità di uomini e donne scesi in campo per difendere ideali condivisi. Sono donne che si prendono cura della madre di Gino (la stessa si firma in calce in due lettere), riconoscono l’assistenza ai carcerati come un dovere, le difficoltà nel conciliare responsabilità di famiglia e di partito, come precisa Giuseppina Li Causi, la più schietta, e anche la più presente nella raccolta con le sue 19 missive:
«[…] non debbo farmi influenzare dalla prole, poi debbo studiare di più. Tutto questo presuppone un certo sforzo che spero di portare a buon punto. […] Son sempre responsabile regionale di Partito e me ne vergogno molto, perché non posso fare niente» (lettera del 4 aprile 1949).
Gina Mare, una delle tre deputate appena elette nell’Assemblea regionale siciliana [2], aggiunge all’impegno politico una forte carica di umanità, con l’attenzione per la salute del compagno in carcere, ed è grata a Gino per la forza di volontà e l’aiuto che dà agli altri compagni di prigionia. Giuliana Saladino, già ferma in quei propositi che la porteranno lontano, lo aggiorna sull’attività che in Sicilia procede a rilento per via dei tanti intoppi, ma anche sull’apertura di un’edicola ad Agrigento con libri e insegne luminose, sulla stampa del partito, sulla proiezione di film nelle località della provincia. Eugenia Bono teme la censura, ed usa un linguaggio quasi cifrato, ma ci tiene a confermare la sua disponibilità nella causa da portare avanti. Anche Paola Dugo, la sola a rivolgersi a lui in qualità di “Onorevole”, nell’unica lettera presente nella raccolta fa riferimento ai controlli sulla corrispondenza con i detenuti, ad autorizzazioni non concesse. Di certo le maggiori complessità in quel tempo di mezzo accompagnano la figura di Franca Casanova [3], che frequenta a Milano il Centro degli studi sociali per incarico del PCI. Fra tutte, è Franca a rivelare disagi e insufficienze di un partito che si rivela ancora maschilista:
«Sono molto giovane, inesperta ed avrei bisogno di aiuto dai compagni della Federazione, invece loro non mi hanno scritto nemmeno una lettera. […] ci dobbiamo battere nella nostra provincia anche per una migliore formazione dei nostri compagni […]» (lettera dell’11 marzo 1949) «[…] mi hanno dimenticata non mi tengono informata nemmeno sulla attività politica della provincia» (lettera del 22 marzo 1949).
Confida a Gino le resistenze incontrate in famiglia per la mentalità arretrata dei genitori e le tensioni continue, per non dare pena in casa e contemporaneamente lavorare per il partito. Teme di non essere all’altezza dei compiti che le sono stati assegnati, avverte una certa diffidenza anche dal partigiano tanto stimato. Anticipa quel sentire che più tardi porterà Alda Merini a scrivere ciò che ogni donna conosce assai bene, un dover «chiedere scusa a me stessa per non essermi creduta abbastanza».
Come proiettare tanta ricca comunicazione d’esistenza nel cammino di libertà intrapreso dalle donne? Ai diritti politici appena conquistati non corrisponderà per molto tempo la pienezza dei diritti civili. Bisognerà lottare per ottenere la tutela delle lavoratrici madri (1950), per l’ingresso delle donne nell’amministrazione della giustizia (1956), per il divieto di licenziamento per matrimonio (1963), per l’abrogazione del reato di adulterio (1968) e poi del delitto d’onore (1981), per la legge sul divorzio (1970), per il nuovo diritto di famiglia (1975), per la parità di trattamento di uomini e donne sul lavoro (1977), per l’aborto (1978), contro la violenza di genere (2019) che ancora non si riesce a contenere e che ogni giorno fa registrare nuove vittime.
Questa la direzione da indicare per leggere e far conoscere, in particolare ai più giovani, l’interessante rassegna epistolare curata da Enrico Cortese. Destinata a divenire così un manifesto civico, non solo politico. Per coniugare le energie straordinarie delle sei siciliane comuniste col vissuto ordinario delle tante donne ancora in marcia su una strada in salita, con traguardi da mantenere e riconoscimenti da raggiungere.
Perché si tratta di un cammino comune che riguarda tutti, da percorrere senza ignorare le piastrelle su cui mettiamo i piedi ogni giorno, poste una accanto all’altra da chi ha creduto e ancora crede in una vera libertà, come ha spiegato assai bene nel suo ultimo lavoro Alessandra Bocchetti:
«Per essere libere è necessario saper vedere, riconoscere e sentirsi addosso la storia delle donne che ci hanno preceduto, e oltre il dolore saperne riconoscere la forza, la loro forza immensa, tenace, silenziosa forza di pazienza, di cura, di attenzione all’esistente» [4].
Dialoghi Mediterranei, n. 62, luglio 2023
Note
[1] Le ventuno costituenti appartenevano prevalentemente alla classe media. Tredici erano laureate, soprattutto in materie umanistiche, una era impiegata, un’altra casalinga, due delle comuniste erano state operaie. Provenivano per la maggior parte dall’area centro-settentrionale del Paese, dove lo sviluppo economico era stato più precoce e la Resistenza aveva segnato tante vite. Con loro cominciava una nuova fase della storia. Alba De Cespedes scrisse sulla giornata del 2 giugno: «[…] su quel segno in croce sulla scheda mi pareva di aver disegnato uno di quei fregi che sostituiscono la parola fine. Uscii, poi, liberata e giovane, come quando ci si sente i capelli ben ravviati sulla fronte».
[2] Gina Mare morirà nell’oblio di tutti, come precisa con amarezza il curatore, dopo avere dedicato le migliori energie ai deboli e agli sfruttati. Scriverà di lei Simona Mafai in M. Fiume (a cura di), Siciliane. Dizionario biografico, Romeo Editore, Siracusa 2006: «non si limitava a parlare: si interessava dei bambini e della loro salute, dava una mano per portarli in ospedale, guidava le donne in Municipio a chiedere la riparazione delle strade, l’apertura di asili e colonie estive».
[3] La lettera riportata nel libro è l’unica dattiloscritta.
[4] A. Bocchetti, Basta lacrime. Storia politica di una femminista (1995- 2020), VandA Edizioni, Milano 2022: 278.
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Grazia Messina, docente di Storia e Filosofia con Master in “Economia della Cultura” (Università Roma Tor Vergata). È direttrice della ricerca scientifica nel Museo Etneo delle Migrazioni di Giarre (CT) per la Rete dei Musei siciliani dell’Emigrazione. Ha curato i testi Migranti (2005), L’emigrazione dalla zona ionico-etnea (2006), European Migration in XX century (2007), Quando partivano i bastimenti (2009). È autrice di saggi editi su riviste e volumi collettanei. Nel 2022 ha scritto con Antonio Cortese La Sicilia Migrante, pubblicato con sostegno della Fondazione Migrantes.
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