di Antonello Ricci
Il progetto Voci (https://voci.info/) nasce in un lontano 1958 da un’intensa spinta intellettuale di Luigi M. Lombardi Satriani e di Mariano Meligrana all’indomani delle loro rispettive lauree in Scienze politiche e in Giurisprudenza a Napoli. All’inizio si chiamava Spirito e tempo e la linea di ricerca si collocava nella temperie filosofica europea ispirata all’esistenzialismo come forma di critica radicale alla civiltà, pensata e vissuta come crisi dell’individuo e dell’esistenza stessa. Dopo due anni la rivista fu rinominata in Voci, nel senso di voci di uomini nella loro individualità impegnati a cercare soluzioni possibili ai problemi dell’esistenza. Dopo altri due anni anche questa avventura si concluse e il titolo di Voci fu messo a dormire fino al 2004 quando Lombardi Satriani fondò a Roma una rivista di scienze umane che chiamò Voci e che non solo idealmente si ricollegava a quella esperienza lontana, come appare nell’Editoriale del numero uno.
È bene sottolinearlo, ricollegandosi alle radici a cui ho accennato e seguendo la spinta al dialogo interdisciplinare che ha caratterizzato tutto il suo percorso accademico, Lombardi Satriani pensò e volle creare una rivista che non fosse angustamente circoscritta nel settore scientifico-disciplinare universitario di stretto riferimento, ma che fosse collocata nell’ampio e fertile terreno di scambio con le scienze umane, auspicando un’intensa dialogicità, come appare evocata nel titolo. In tal senso, perseguendo l’impostazione aperta verso gli stimoli della società contemporanea da leggere e interpretare con gli strumenti dell’antropologia culturale, hanno lavorato Luigi M. Lombardi Satriani e le persone chiamate a costruire insieme il progetto da lui diretto con passione e creatività, così come con rigore scientifico.
La sua direzione è stata sempre marcata dalla condivisione delle scelte e dal dialogo alla pari con tutti i membri del Comitato di direzione, oggi composto da Enzo Alliegro, Katia Ballacchino, Letizia Bindi, Laura Faranda, Mauro Geraci, Fiorella Giacalone, Fulvio Librandi, Maria Teresa Milicia, Rosa Parisi, Antonello Ricci, Gianfranco Spitilli. Pur in una forma di aperto e costruttivo confronto, ciascuno ha goduto di autonomia di impostazione dei propri contributi alla rivista, dalle proposte di singoli articoli alle decisioni in merito alla tematica delle parti monografiche, la cui cura, per regola interna, è stata sempre affidata almeno a un membro del Comitato.
Vorrei ricordare la profonda attenzione e creatività da lui messa in atto nel dirigere il periodico, una volontà di presenza e di impegno che è rimasta inalterata nel corso degli anni. Abbiamo tenuto l’ultima riunione redazionale della rivista da remoto, come succedeva ormai da qualche anno in seguito all’imposizione di questa pratica per via dell’epidemia di Covid, ma divenuta usuale per dare modo a Luigi di partecipare con facilità da casa. Nella primavera inoltrata era giunto a completamento della lavorazione il numero del 2022 e, come di consueto, avevamo prefigurato un incontro per riepilogare il lavoro fatto e licenziare il fascicolo. Egli volle fare la riunione a tutti i costi, nonostante l’aggravamento delle sue condizioni in evoluzione di giorno in giorno: era il 26 maggio 2022, Luigi morì il 30.
Ho detto della spinta creativa che ha orientato l’impostazione di Voci, diventata una delle riviste di classe A per le discipline Demoetnoantropologiche (DEA) secondo la normativa Anvur, il livello apicale delle riviste scientifiche. Una creatività che emerge dalle scansioni editoriali della rivista organizzata in sezioni. Una di esse è la Monografica e da diversi anni è divenuta stabile, anche per garantire un maggiore controllo sulla qualità scientifica delle proposte attraverso la selezione a monte dei contributori. La preparazione di ogni numero monografico, infatti, è stata sempre impostata con almeno un anno di anticipo, ma a volte anche due, per consentire un migliore affinamento del progetto, una più accorta scelta dei nomi da coinvolgere, tutte operazioni condotte in una dialettica orizzontale dello svolgimento delle riunioni e delle discussioni critiche intorno ai contenuti scientifici di ogni numero.
Un’altra sezione, chiamata Passaggi, non è stata sempre presente, e ha ospitato per lo più interviste che facessero da collante dei temi trattati. Un’altra ancora è stata Quotidianamente, dove sono confluiti molti degli articoli che Lombardi Satriani stesso scriveva su giornali o anche di altri colleghi e amici, come è avvenuto con diversi scritti di Marino Niola usciti su Repubblica; infine c’è stata la sezione Camera oscura, dedicata alla fotografia, uno dei fiori all’occhiello della rivista. Sono stati ospitati album fotografici di Francesco Faeta, Vito Teti, Diego Carpitella, Salvatore Piermarini, Virginia Ryan, Annabella Rossi, Umberto Zanotti Bianco, Renato Boccassino, Giorgio Raimondo Cardona, Luciano D’Alessandro, Valerio Petrarca, Gianni Chiarini e altri. Ogni nucleo di immagini è stato sempre criticamente collocato da scritti di commento, di approfondimento e, a volte, da interviste con i fotografi.
Una panoramica esemplificativa di alcuni dei numeri usciti può restituire la fisionomia della rivista e la sua evoluzione nel corso degli anni, cercando anche di collocarla nel panorama nazionale e metterla in relazione con le riviste DEA e non solo di cui si sta parlando su Dialoghi Mediterranei.
Nell’indice del primo numero ed esplicitamente nell’Editoriale, prima richiamato, riconosciamo l’impostazione iniziale che Lombardi Satriani volle dare alla rivista, vale a dire un periodico, inizialmente semestrale, poi annuale, che sia portavoce di un’antropologia critica e dialogante con le altre scienze umane, in primo luogo la filosofia. Si riconosce anche un’affermazione orgogliosa del patrimonio storico della demologia come tratto originale e unico nel panorama degli studi antropologici nazionali e internazionali. Si riconosce, altresì, una volontà di abbracciare temi, concetti, stimoli provenienti dalla società civile, dai contesti della cultura di massa, dall’affermazione di una necessità politica dell’antropologia in grado di offrire chiavi interpretative per mettere a nudo le storture della società contemporanea, in primis la logica mercantile che mortifica i campi del sapere. «Un’antropologia del dialogo ininterrotto con le altre scienze dell’uomo, nessuna domina, tutte ancillae di un progetto conoscitivo che veda al centro l’uomo». Quell’Editoriale è possibile leggerlo come un manifesto programmatico a conferma di un progetto culturale e scientifico che ha caratterizzato tutto il percorso intellettuale di Lombardi Satriani.
Nell’indice del primo numero compaiono le due sezioni Biblioteca e Laboratorio che caratterizzeranno le annate a seguire e che rispettivamente contengono, la prima i saggi antropologici in senso stretto, la seconda i saggi delle discipline affini e confinanti, letteratura, filosofia, scienza politica, sociologia, diritto, economia, ecc. Nel primo numero sono presenti saggi di Antonino Buttitta, Marc Augé, Matilde Callari Galli, Ulf Hannerz, nella prima sezione; Mauro Ceruti e Franco Ferrarotti nella seconda.
Come già detto, la fotografia ha trovato una stabile collocazione fin dall’inizio con la sezione Camera oscura e anche, a volte, con saggi fotografici extra-sezione a testimoniare il forte interesse per la prospettiva visiva dell’antropologia. A riprova del valore euristico attribuito all’immagine fotografica e della consapevolezza della funzione della fotografia in quanto primario strumento etnografico, i primi fascicoli ebbero, nell’ordine in cui comparvero, i contributi di Francesco Faeta, Vito Teti, Diego Carpitella e Salvatore Piermarini.
La struttura dialogica e interdisciplinare sopra descritta continuò fino al 2009, anno in cui comparve la prima sezione monografica dal titolo Islam e Mediterraneo: donne, migranti, diritti, curata da Fiorella Giacalone e Rosa Parisi. La tematica fu mantenuta omogenea in quasi tutte le sezioni del fascicolo con interventi che affrontavano le problematiche secondo approcci disciplinari diversificati e fornendo una compattezza prospettica che caratterizzò quasi sempre il prosieguo della rivista. Nel 2015 il numero è stato dedicato a Etnografie visive nella ricerca antropologica contemporanea: cinema, video, fotografia, realtà virtuale, curato da chi scrive, cercando di mettere in luce prospettive metodologiche, aspetti di storia degli studi, vivacità del dibattito contemporaneo intorno all’antropologia visiva, con contributi di Maria Faccio, Francesco Faeta, Steven Feld, Francesco Marano, Lello Mazzacane, Silvia Paggi, Cecilia Pennacini, e con un primo contributo alla conoscenza del fondo fotografico-etnografico di Renato Boccassino custodito presso il Gabinetto fotografico nazionale del Ministro della Cultura.
Campi ibridi per etnografie trasversali è il titolo attribuito da Mauro Geraci alla sezione monografica da lui curata nel 2017: una raccolta di scritti di etnografie sperimentali tanto nei campi esplorati (palestra di boxe, Giuseppe Scandurra; migrazione-sviluppo, Selenia Marabello; contesto della fabbrica, Fulvia D’Aloisio; disastri naturali, Irene Falconieri; dimensione clinica, Laura Faranda; antropologia della letteratura, Mauro Geraci; espressività pittorica albanese, Gëzim Qëndro; politica e religione, Silvia Lipari), quanto nelle metodologie applicate di volta in volta ai contesti studiati e ben esplicitate e discusse nei saggi. Camera oscura in quel numero è stata dedicata a uno dei più importanti e politicamente impegnati fotografi italiani: Luciano D’Alessandro. Le ventisei fotografie del grande fotoreporter sono state accompagnate da una lunga intervista rilasciata a Laura Faranda e a chi scrive e da altri scritti di contestualizzazione e inquadramento critico dell’opera del fotografo napoletano. Le tematiche di interesse della ricerca antropologica contemporanea hanno continuato a marcare le uscite annuali di Voci: Interpretare le mafie nel 2019 a cura di Fulvio Librandi, Rocco Sciarrone e Antonio Vesco; Prospettive e rappresentazioni di storia e storiografia dell’antropologia italiana nel 2020 a cura di Enzo Alliegro e Maria Teresa Milicia; Etnopsichiatria nella contemporaneità nel 2021 a cura di Laura Faranda; La stanza degli specchi – Impegno politico-culturale e diaspora italiana nel 2022 a cura di Katia Ballacchino e Luisa Del Giudice.
In seguito alla scomparsa del Direttore, oggi la rivista è gestita dal Comitato di direzione. Stiamo lavorando al numero del 2023, curato da Francesco Faeta e da chi scrive, che abbiamo voluto dedicare a Luigi M. Lombardi Satriani con scritti di colleghi, amici, stranieri con cui egli ha avuto rapporti scientifici e di scambio culturale o che hanno avuto in lui un riferimento importante: José Luis Alonso Ponga, Antonio Ariño, Gilles Bibeau, Pedro García Pilán, Ulrich van Loyen, Isidoro Moreno, Mariella Pandolfi, Maria Pilar Panero García. Un inserto fotografico di Camera oscura, dal titolo Per Luigi: cinque piccoli foto-racconti, è stato pensato come una dedica per immagini al comune maestro da parte di Francesco Faeta – con fotografie anche di Marina Malabotti –, Lello Mazzacane, Antonello Ricci, Vito Teti.
Voci è una rivista di classe A, come già detto, e in quanto tale è sottoposta al sistema della valutazione della qualità scientifica richiesta dalla normativa ministeriale che prevede la revisione anonima tra pari degli articoli pubblicati: la periodica autovalutazione e valutazione, l’adeguamento a una serie di standard usuali per la pubblicistica scientifica universitaria, per esempio le indicizzazioni, l’accesso aperto ai contenuti ecc. Sono tutte questioni su cui è stato già detto praticamente tutto in molte altre sedi e occasioni, ed è stato riepilogato nel numero 61 di Dialoghi Mediterranei, per l’ambito DEA da Fabio Dei e da Elisabetta Silvestrini, e più ampiamente dagli altri autori che sono intervenuti in quel numero. Non credo che si possa aggiungere qualcosa di inedito al solito elenco di elementi problematici o di considerazioni intorno alla libertà espressiva e di formalizzazione di un saggio scientifico, argomenti ripetutamente fatti segno di attenzione fin dalla nascita dell’Anvur e del sistema di valutazione della ricerca scientifica. Il risultato è stato un adeguamento più o meno graduale agli obblighi richiesti, costringendo e mortificando la produzione accademica di ambito umanistico in un sistema bibliometrico mascherato, come descrive Fabio Dei, fatto di mediane e di ipertrofia di commissioni.
Nonostante la continua sottolineatura di queste storture da parte di quasi tutta la comunità scientifica, in realtà, sotto sotto, si è insinuato il morbo della possibilità di colpire o sottovalutare la produzione scientifica altrui – ovviamente quella di scuole accademiche non vicine alla propria – grazie alla regola del doppio cieco che garantirebbe l’anonimato del revisore e del valutato. In realtà il meccanismo è impari perché il vero anonimato è quello del revisore che deve essere garantito normativamente (provate a fare una richiesta di accesso agli atti in seguito a una valutazione della produzione scientifica della VQR), mentre l’autore/autrice è facilmente identificabile dalla lettura del saggio. Naturalmente sarebbe sbagliato generalizzare, perché la maggior parte dei valutatori, solitamente, tengono un comportamento equilibrato e volto al miglioramento del testo sottoposto a valutazione. Tuttavia, il processo che si è avviato, nonostante le critiche iniziali, è stato più o meno accettato inquadrandolo nella luce delle “buone pratiche” e sta portando senza troppi scossoni a includere anche un obbligo di normalizzazione della forma della scrittura scientifica e accademica e della restituzione della ricerca teorica ed empirica per rientrare nelle regole della valutazione, prima del saggio da pubblicare su rivista – a maggior ragione su quelle di classe A – poi del saggio da sottoporre agli altri livelli del giudizio dell’attività scientifica, ASN, VQR ecc. Insomma, la saggistica accademica si sta progressivamente allontanando dalla società civile e dalla dimensione pubblica entro la quale potrebbe incidere culturalmente, per essere confinata al solo circuito accademico che, in tal modo, sta diventando sempre più autoreferenziale e richiuso su se stesso.
La funzione delle riviste di settore, dunque, tende ad apparire quella di uno strumento tecnico, indispensabile per la costruzione di una carriera accademica. Auspicare di scrivere un articolo per una rivista di classe A appare, quindi, come uno dei passaggi di un percorso di accumulo di titoli validi per essere agevolmente collocati entro un sistema di mediane a logica quantitativa che consenta la partecipazione da un lato a concorsi e dall’altro a commissioni di valutazione. Non è più un modo per contribuire alla diffusione delle informazioni e delle idee entro la dimensione pubblica della società civile, ma, al più, partecipare a un circoscritto dialogo tra pochi, entro un circuito accademico che si autoalimenta.
Riprendendo gli esempi paradossali riportati da Fabio Dei, La gesta di Asdiwal di Claude Lévi-Strass uscì su Les Temps Modernes, rivista di primo piano del dibattito culturale in Francia, fondata da Jean-Paul Sartre, così come Note lucane di Ernesto de Martino uscì su Società, periodico di ampio dibattito culturale fondato da Ranuccio Bianchi Bandinelli, che oggi si definirebbe una rivista di attivismo politico. In ambedue i casi non erano periodici di settore e i due articoli sono stati accolti da un comitato di lettura che ne ha apprezzato l’incisività politico-culturale, nel senso di fornire un contributo all’allargamento delle idee e delle coscienze, e sono stati letti da un vasto pubblico di persone interessate a un ampio dibattito culturale nel senso pieno e articolato del termine. Per trovare in Italia qualcosa del genere bisogna risalire a riviste del passato come la già citata Società, Nuovi Argomenti, Italia Domani, Espresso Mese, Lavoro, Il Contemporaneo, Tempi Moderni, Il Marcatrè, tutte quante spazi di confronto e di dialogo tra saperi e idee in un contesto politico progressista.
Riguardo alla questione della commercializzazione dell’editoria scientifica, saggio o rivista che sia, a meno di poche eccezioni, i libri e i saggi di antropologia culturale non si vendono oltre il ristretto confine delle adozioni universitarie e le riviste meno che mai. L’opportunità della diffusione digitale ha dato un contributo molto significativo, come sottolineava sempre Dei, ma il nodo problematico del ristretto confine della “platea” non cambia: sono sempre e soltanto i pochi addetti ai lavori a scaricare (anche a pagamento) qualche articolo che può interessare per ragioni sostanzialmente di aggiornamento. Insomma, la diffusione è quasi esclusivamente riconducibile all’interno dei confini disciplinari e la questione dell’uso veicolare dell’inglese a cui si riferisce ancora Fabio Dei non sposta di molto la collocazione dei confini perché, in questo caso, la questione, a mio avviso, è di carattere “coloniale”, se così possiamo dire. Vale a dire che gli americani, gli inglesi, poco i francesi, sono letti e recepiti a senso unico: non c’è un interesse reciproco a livello internazionale, tranne quando si consolida un rapporto personale tra studiosi.
Per esempio, nell’ambito dell’antropologia del suono e dell’ascolto, Steven Feld, studioso americano di fama internazionale, ha stabilito da anni una rete di collegamenti e di reciprocità con alcuni colleghi italiani che prevede anche la lettura condivisa dei rispettivi lavori. Ne è un esempio un articolo dialogico in forma di conversazione tra Feld e chi scrive in merito al metodo collaborativo nel film etnografico (http://voci.info/biblioteca_15/Ricci-Feld.pdf). La rivista, in un caso come questo, ha fornito lo spazio dialogico per esporre e diffondere esperienze etnografiche. Ma sono casi sporadici.
Al momento, e vorrei ribadirlo, una rivista come Dialoghi Mediterranei si staglia in maniera solitaria e unica: uno strumento di condivisione di idee e di pensieri multidisciplinari e perciò stesso in continuo rinnovamento e riplasmazione. Da poco è stata anche inclusa nella categoria delle “riviste scientifiche” delle discipline umanistiche, non di un unico settore. Un traguardo importante che premia la costanza e il metodo di lavoro del Direttore che ha saputo coniugare in maniera equilibrata il rigore scientifico, la propensione al confronto disciplinare, l’accoglienza incondizionata della diversità di idee.
Dialoghi Mediterranei, n. 62, luglio 2023
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Antonello Ricci, professore ordinario di Discipline DemoEtnoAntropologiche presso il Dipartimento di Storia, Antropologia, Religioni, Arte, Spettacolo (SARAS), “Sapienza” Università di Roma, dove presiede il corso di laurea magistrale in Discipline EtnoAntropologiche. Conduce ricerche sul campo nell’Italia centrale e meridionale sui temi delle culture pastorali, dell’ascolto, della museografia e dei beni culturali DEA, della antropologia visiva e della festa. Tra le sue pubblicazioni: Sguardi lontani. Fotografia ed etnografia nella prima metà del Novecento, Milano, 2022; cura di L’eredità rivisitata. Storie di un’antropologia in stile italiano, Roma, 2020; Suono di famiglia. Memoria e musica in un paese della Calabria grecanica (con M. Morello) Udine, 2018; Il secondo senso. Per un’antropologia dell’ascolto, Milano, 2016; I suoni e lo sguardo. Etnografia visiva e musica popolare nell’Italia centrale e meridionale, Milano, 2007.
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