di Stefano Montes
Voir l’autre dans sa noblesse de solitude, dans la beauté perdue de ses jours. Christian Bobin, L’homme qui marche
Sono in auto e penso. Guido e osservo. Gli altri e me stesso. In auto, alla guida, mi passano per la testa i pensieri più inconsueti, meno regolati. Capita spesso, capita sempre più, negli ultimi anni, non appena mi metto al volante e appoggio il piede dolcemente sull’acceleratore, che i miei pensieri corrano a briglia sciolta, indipendentemente dalla mia partecipe, volontaristica gestione. Li vedo, da un ipotetico punto di osservazione esterna, come cavalli al vento, in fuga, fuori tempo, zampe in alto, criniera al mondo. Cavalli al vento? Diciamo, per insistere sulla metafora spaziale dell’attraversamento utilizzata nell’incipit, che i pensieri transitano nella testa diretti da qualche parte, in un altrove non meglio precisato. La perplessità è certa, l’obiezione potenziale. Mentre guido? I pensieri passano? E da dove arrivano? E dove vanno? Chi può mai saperlo! I quesiti sono innumerevoli e le parole, in apparenza casuali, sono però molto rivelatrici di ciò che noi siamo, persino al di fuori della nostra idea di noi stessi. I pensieri si pensano? I pensieri ci pensano e si pensano mentre un qualche ‘io’ continua a pensare al contempo.
Sembrerebbe una stranezza da antropologo. Ma procediamo a poco a poco e con calma, riservandoci di ritornare in seguito sulla questione, includendovi una deviazione sulla metafora e sul passaggio, ritualizzato o meno che sia, nostro o di altri. Tanto per incominciare sul piano personale, devo ammettere che non mi piace guidare. Mi piace passeggiare, assente, senza finalità preprogrammata, mi piace immergermi nello spazio offerto dal caso, tuffarmi nel fiume di sagome ritagliate dai movimenti degli altri. Un torrente in divenire, passi in lento susseguirsi: questo è il modo sintetico in cui descriverei il mio stato d’animo mentre passeggio. In auto, tuttavia, succede qualcosa di ovvio, ma in qualche modo efficacemente consolatorio e piacevole per chi insegna e fa ricerca in maniera continuata e sistematica: nel bene e nel male, sono costretto a stare lontano dai miei cari libri, non posso leggere e i pensieri pensano per armoniche musicali in rotta, prendono il sopravvento in modo vario e disordinato, si diffondono a ruota libera, al di fuori della mia autorità, non solo nella mia testa, ma anche nello spazio circostante, sembra quasi che, da autentici matti scatenati, vogliano addirittura invadere l’abitacolo, fluttuando liberamente nell’aria come onde in rivolta contro il mondo dell’ordine e della linearità uggiosa come il tempo di mattina presto in assenza di un briciolo di luce.
Così, di tanto in tanto, in auto, io prendo felicemente le distanze da me stesso. Al pari di una passeggiata, la potenza dell’atto libero si stempera nella privazione di una finalità, riportando la mia attenzione alle domande di sempre: continuità o discontinuità? Essere o divenire? Azione o trasformazione? Accortamente, in un libro dedicato al concetto cinese di trasformazione silenziosa, François Jullien sintetizza gli incastri teorici e gli interrogativi posti dal divenire continuo e dalle modificazioni impercettibili:
Anche i termini in base ai quali pensiamo, lo sappiamo da dove ci vengono e quando sono nati? Non sorti dalla decisione di un filosofo, ma partoriti nell’ombra da secoli di pensiero quasi anonimo da cui emergono a poco a poco nuove suddivisioni delle quali si crede poi che si impongano a noi con ‘evidenza’ e possano servire da fondamento necessario alla Verità. Quanti secoli di trasformazioni silenziose sono occorsi perché ‘soggetto’, questo sostrato del cambiamento, possa finalmente dire il soggetto della soggettività; o ‘oggetto’, contrapposto a esso, l’oggettività della scienza ecc. […] Abbiamo mai pensato in altro modo che per trasformazione silenziosa da cui affiora all’improvviso qualche pensiero chiaro, che costituisce ‘evento’ e che allora risuona e mobilita? (Jullien, 2010, 145).
Jullien compara il pensiero cinese e quello occidentale al fine di rilevare, per l’appunto, il partito preso che guida le nostre azioni e pensieri, entrambi orientati culturalmente. Per fare questo, deve ricorrere a termini appartenenti alla tradizione occidentale più che a quella cinese, altrimenti il suo discorso non acquisirebbe senso per noi: la traduzione deve cercare di risalire a testi e culture di partenza; la traduzione deve al contempo rendere comprensibili testi e culture di partenza a testi e culture d’arrivo. In questo senso, una traduzione non è mai perfetta perché si dibatte tra un’origine mitica o improbabile e un approdo incerto o da rifare. Benché imperfetta, quella di Jullien è una traduzione che, per slittamenti progressivi nella ‘narrazione filosofica’ del testo, produce comunque un incremento di conoscenza necessario al fine di importare il ‘pensiero’ cinese in una lingua e cultura occidentale.
Non potrebbe essere altrimenti: il trasporto implica un’invenzione e, insieme, un incremento di conoscenza, persino nella perdita apparente. Comparazioni e traduzioni sono uno strumento antropologico essenziale, proprio perché segno congiunto dell’imperfezione e dell’incremento conoscitivo: ci aiutano, nonostante la tendenza alla sclerotizzazione del pensiero in norme ‘naturalizzate’, a decodificare il sostrato di ‘dato’, di ‘scontato’ che esiste in noi. L’alterità, se ripensata in questi termini, in quanto traduzione de-automatizzante e tensione volta alla sua comprensione, è un’ottima cartina di tornasole del lento ‘divenire dell’uomo altro da sé’: lo sguardo sull’altro rivela immediatamente quanto – poco o molto – di culturale noi ci portiamo dietro nelle categorie stesse utilizzate nell’osservazione e nell’incontro con gli altri. Jullien parla dei cinesi per ripensare, tra le altre cose, anche il ‘noi’ e il rapporto che si reimposta continuamente nell’andirivieni tra l’identità e l’alterità, tra noi e gli altri. Sarebbe utile, parallelamente, applicare una prospettiva simile alle forme di alterità che ‘ospitiamo’ a casa nostra, nelle nostre città, negli spazi in cui li vediamo quotidianamente.
Intanto, in auto, alla guida, mentre mani e piedi si occupano in quasi completo automatismo di ingranare marce e pigiare freni e frizioni, io non posso fare a meno di pensare all’alterità nostra e degli altri: il mio sguardo indugia distrattamente sulle bancarelle dei venditori migranti che sfilano sotto i miei occhi o sui lavavetri agli angoli della strada che tentano di offrire i loro servizi agli automobilisti. Nell’incontro, nel gioco di azioni e interazioni, si regolano e si traspongono individui e culture. Si può parlare, anche in questo caso, a mio parere, di traduzione interculturale. Ciò che più conta è che si spostano e si trasferiscono – questo è il senso originario del termine ‘traduzione’ – non soltanto concetti da una cultura all’altra, ma, allo stesso tempo, sguardi e comportamenti di singoli individui, forme di agentività stabili e posizionamenti in apparenza fluttuanti. Un problema si impone tuttavia per me, nella duplice veste di persona comune e di antropologo. Da sempre – almeno così mi appare a me stesso – i migranti li osservo da lontano e li osservo da vicino, ma qualcosa mi sfugge comunque. È come se, nel tempo, non li vedessi più, come se mi fossero diventati indifferenti. Per usare una espressione particolarmente indicata in questo contesto, direi che ci ho fatto il callo. E così, credo, vale per molti di noi. Siamo, infatti, in presenza di una migrazione che fa parte del nostro quotidiano, acquisita a poco a poco, negli anni, negli spazi urbani, resa familiare dai nostri stessi piccoli acquisti di oggettini nelle bancarelle o dai tentativi di lavaggio dei vetri delle nostre auto.
Parlo quindi di un’acquisizione che si è fatta strada – nel senso letterale del termine – con gli acquisti (nostri) e le proposte (loro) di servizi: parlo di una migrazione che è divenuta parte integrante di alcuni spazi cittadini e, paradossalmente, nonostante la presenza stabile in angoli di strada e marciapiedi, è divenuta invisibile dal punto di vista del carico umano, del vissuto e sistema di vita specifico e della nostra ricezione cognitiva ed emotiva. A questa ‘invisibilità per convenienza’ e assuefazione, fa eco un fenomeno parallelo, alla cui portata contribuiscono i media giornalmente: con un cattivo uso del linguaggio (attinto al dominio della guerra), sentiamo affermare spesso in televisione e alla radio che ci sono stati gli ‘attraversamenti’, gli ‘sbarchi’ e le ‘invasioni’. Già, il linguaggio in sé è discutibile: se non fossimo a conoscenza della effettiva situazione di miseria vissuta dai migranti, si potrebbe pensare di vivere in uno stato di guerra in cui un paese è attaccato da un altro con un massiccio intervento dell’esercito. Le cose, come è noto, non stanno così, e non si tratta di assalti e nemmeno di eserciti che aggrediscono. E, in fondo, negli eccessi della globalizzazione, la decisione di ciò che si fa (e deve essere fatto) appartiene sempre più alle potenti multinazionali e alla volontà di organismi che di fatto non hanno più niente a che vedere con la giurisdizione di un singolo Stato in apparenza sovrano.
Ma la questione che mi interessa qui non è tanto questa, quanto la seguente: per dirla in breve, ci stupiamo degli arrivi in barcone di tanti migranti che perdono la vita nel tentativo di attraversare il mare, ma ci colpiscono sempre meno i ‘migranti in città’ e il modo diverso in cui gli spazi urbani si sono venuti riconfigurando negli anni per ‘accoglierli’ (male) e per ‘territorializzare’ (rigidamente) le nostre interazioni. Questo servirebbe già a capire di per sé il potere tirannico dei media esercitato su di noi e sulla nostra scarsa indipendenza di immaginazione, ma potrebbe indurre in errore circa i migranti in città: qualcuno potrebbe pensare che non ‘li vediamo più’ perché in fondo li abbiamo accettati totalmente. Io penso invece, diversamente, che la frontiera tra noi e loro, tra noi e i migranti in città, si è acuita trasformandoli in persone invisibili, magari nuovamente visibili soltanto nel momento in cui chiedono di lavarci i vetri o di venderci un giocattolo per i nostri figli. Come fare a smussare le frontiere? Un fatto è certo, inoppugnabile. Da un punto di vista antropologico, i migranti in città imporrebbero, produttivamente e positivamente, un ripensamento epistemologico dei confini disciplinari (a volte troppo staticamente recepiti o arbitrariamente inventati per le carriere accademiche): direi, per restare all’interno di una sola disciplina, che un’antropologia urbana dovrebbe interagire con un’antropologia delle migrazioni; aggiungerei, sullo stesso slancio, che un’etnopragmatica delle pratiche dovrebbe essere strettamente associata a un’antropologia del quotidiano. Infatti, benché sia in qualche modo invisibile – anzi, forse proprio per questo – questa migrazione più stabile, in città, è strettamente collegata al nostro quotidiano, alla vita di tutti i giorni, al fare e dire insieme agli altri.
Se gli annunci in televisione attraggono la nostra attenzione e toccano le corde del ‘sentimento a distanza’ (ma solo a distanza purtroppo), i ‘migranti di stanza’ in città ci appaiono fastidiosi o, tutt’al più, impercettibili, irrilevanti. Il fatto è però che li vediamo tutti i giorni, il fatto è che, ineludibilmente, volenti o nolenti, il nostro quotidiano lo viviamo con i migranti, nonostante le frontiere che erigiamo simbolicamente ed esistenzialmente. Piuttosto che concepirli neutralmente, in uno spazio virtuale di invisibilità, dovremmo quindi prendere coscienza del loro essere parte della nostra società di ‘umani’, giorno dopo giorno. In definitiva, penso fermamente che questa forma di migrazione disseminata negli spazi urbani è – debba essere – strettamente associata alle nostre attività quotidiane, anche quelle più spicciole quali il passeggiare o il guidare, aderente persino ai modi in cui il nostro pensare si dispone in sequenze ordinate o, al contrario, irrompe nella nostra testa per flussi più indisciplinati e autonomi. Io ne sono un esempio concreto, oggi, in questo tardo pomeriggio palermitano, alla guida della mia auto: penso distrattamente e vedo bancarelle di venditori, mi concentro su alcune questioni che intendo trattare nel mio studio sui flussi di coscienza e mi imbatto in lavavetri. Gli uni e gli altri sono intimamente intrecciati nel mio panorama urbano e mentale. Insomma, la ‘migrazione invisibile’ è vera e propria forma di interazione che si svolge tra noi e l’africano lavavetro, tra noi e il bengalese alla bancarella, tra noi il rumeno in cerca di qualche spicciolo. Ci tocca da vicino e richiede una rivisitazione dello sguardo impassibile di un soggetto purtroppo moralmente assente.
A proposito di impassibilità, tra un colpo di freno e un altro di frizione, uno sguardo a destra e l’altro a manca, colgo l’occasione per introdurre una piccola novità intervenuta nella mia vita quotidiana. Si potrebbe dire, per fare il verso a Jullien, che una trasformazione silenziosa ha avuto luogo nel mio quotidiano. Da qualche giorno, per concentrarmi meglio sulla mia intenzione di ricerca riguardante i flussi di coscienza, ho sostituito l’usuale foglietto con le parole in tamil e ho piazzato al suo posto un frammento tratto dalle Ricerche filosofiche di Wittgenstein in cui si dice:
Se devo descrivere un oggetto come appare in lontananza, questa descrizione non diventa più esatta per il fatto che dico che cosa si può notare guardandolo da vicino. (Wittgenstein, 1967, 94).
In tema di migranti in città, l’idea che si è insinuata nella mia mente in un senso piuttosto che in un altro – a poco a poco, da quando le parole di Wittgenstein hanno incominciato a interrogarmi lentamente – è stata allora quella di cercare di ovviare alla sua obiezione (o, comunque, di tradurla in una pratica al fine di vedere cosa succede concretamente, etnograficamente) facendo intervenire frames diversi e/o sovrapposti nell’interazione presente e futura con i lavavetri: la fotografia e gli appunti sul campo, l’intervista e la chiacchierata, l’osservazione e la partecipazione, l’alternarsi incrociato e frenetico dello sguardo da lontano e da vicino, la pratica della guida e quella del lavavetri, l’assunzione per qualche ora di una ‘identità migrante’, etc.
Le domande in effetti, dal punto dei vista delle azioni ricoperte, sarebbero semplici inizialmente. Lavare un vetro? Guidare un’auto? Niente di più banale, niente di meno antropologico, di primo acchito. Almeno in apparenza, non si direbbe infatti che abbiano niente in comune. A ben vedere, però, condividono un complesso contesto d’incontro (e scontro) urbano tra attori, dispari e asimmetrico, in cui un’azione è assegnata, normalmente e convenzionalmente, a un migrante e l’altra a un individuo ‘del posto’. Questa idea di città come luogo di incontro e di interazioni (di individui appartenenti a culture diverse, di stati d’animo vari, di tipi di azioni, di percorsi lineari e segmentati, di contromisure e strategie del fare, etc.) richiede una concezione del linguaggio più smaliziata e meno statica di quella comunemente accettata. Vengono in mente nuovamente, a riguardo, le famose parole di Wittgenstein sulla similitudine tra città e linguaggio:
Il nostro linguaggio può essere considerato come una vecchia città: Un dedalo di stradine e di piazze, di case vecchie e nuove, e di case con parti aggiunte in tempi diversi; e il tutto circondato da una rete di nuovi sobborghi con strade diritte e regolari, e case uniformi. (Wittgenstein, 1967, 17).
La similitudine è efficace, devo ammettere, ma non mette debitamente l’accento – tenuto soprattutto conto dell’importanza attribuita da Wittgenstein all’uso nelle Ricerche filosofiche – sugli uomini, le loro interazioni, i percorsi e gli incontri obbligati o voluti. Se si considera infatti il linguaggio come una città percorsa (o praticata) da uomini e cose in lungo e largo e non soltanto come un insieme di edifici vecchi e nuovi, si è maggiormente portati a prestare attenzione alla sua eterogeneità, pluristratificazione e, persino, incompletezza e irregolarità. Si deve, dunque, anche tenere conto – ancora una volta, per utilizzare una metafora – del ‘fuori strada’ e del ‘fuori posto’. Si pensi allora alla città non solo come insieme di luoghi uniformi e strade irregolari, ma, ugualmente, se non di più, come allo scenario dinamico di un fare complesso in cui si intrecciano diverse componenti mobili e ‘sregolate’. Quali? In questo momento, in cui sono in auto, penso più particolarmente a queste: il tragitto quotidiano, persino routinario, di un auto che ci porta da una parte all’altra della città; l’interruzione necessaria, ma vissuta con impazienza, di questo tragitto ai semafori; l’intervento di un lavavetri, magari sempre lo stesso, che propone i suoi servizi con insistenza; le contromisure adottate dal conducente dell’auto per declinare l’offerta e, di conseguenza, la ricompensa corrispondente a qualche spicciolo.
Per quanto libero sia il tragitto scelto dal guidatore, si può stare certi di imbattersi, prima o dopo, in qualcuno che chiede di lavarci i vetri dell’auto. Volenti o nolenti, quale che sia la posizione più generale sul processo migratorio, si devono fare i conti con questa realtà e con le micro-interazioni quotidiane che sono ormai parte costitutiva della nostra vita spicciola. In una parola, per quanto strano possa sembrare macro-antropologicamente, siamo giornalmente, proiettati in contesti d’incontro e d’uso con i nostri altri e veniamo noi stessi alle prese con forme di micro-interazioni complesse con noi stessi (cognitive, emotive, somatiche, etc.) e con le nostre motivazioni e giustificazioni delle nostre azioni. Parlo di ‘contesto d’incontro’ non tanto perché il migrante e il guidatore si concedano, normalmente, il tempo di farsi una bella chiacchierata e di trasformare una coincidenza in un bell’incontro, umano e socievole, tra due persone. Se mai succede, succede effettivamente molto raramente (ed è una buona domanda, come intendo fare qui, chiedersi il perché di questo). Parlo invece di ‘contesto d’incontro’ per volgere in senso più antropologico l’idea di contesto d’uso e fare così riferimento a due individui alle prese, l’uno con l’altro, in un faccia a faccia con azioni e strategie diverse che producono comunque una qualche forma d’interazione emanante proprio dall’incontro in atto, regolato dalla loro presenza su uno spazio materiale e simbolico non generico.
Questo studio possibile della migrazione di cui parlo, definendolo in ‘tono minore’, in una prospettiva etnolinguistica, non è allora impertinente, a ben vedere. Perché però avanzare l’ipotesi di un tono minore in questo campo? La ragione è semplice. Credo che la migrazione sia stata soprattutto presa di petto, da alcuni studiosi e dai media, in quanto spostamento di un individuo (o di un gruppo) da un paese all’altro che comporta problemi d’ordine culturale, economico, finanziario, etc. Non c’è dubbio alcuno che la migrazione non potrebbe avere luogo, in positivo o in negativo, senza uno spostamento di persone da un paese all’altro ed è pure vero che, in questo spostamento, soffrono e muoiono tanti migranti. Ben venga quindi un’antropologia (o altra disciplina) che se ne occupa e mette l’accento su questa esperienza travagliata, sofferta e francamente disumana, inaccettabile e incomprensibile per tutti noi. Direi, anzi, che l’antropologia dovrebbe, in questo senso, impegnarsi maggiormente e divenire attore politico attivo volto a svelare i meccanismi impliciti della migrazione, riorientare lo sguardo spesso passivo e indolente di chi accoglie. Detto questo, pur volendo ampliare la portata dello sguardo antropologico e prendere in conto un approccio multi-situato che ‘osserva’ il migrante nel paese d’origine e nel paese d’arrivo, credo che l’antropologia debba impegnarsi a rivelare ugualmente, con tutti i mezzi possibili, la sofferenza delle persone che vivono in un paese d’arrivo e interagiscono con gli altri individui, negli scambi concreti, nel tessuto minuscolo e quotidiano che li vede in azione nelle nostre strade, chiedendo qualche moneta, oppure cercando di vendere qualche oggetto nelle bancarelle improvvisate per strada, al lavoro mentre tentano di lavare i vetri delle nostre belle auto.
Guarda caso, penso a tutto questo mentre sono in auto e mi imbatto in un primo lavavetri. Lo vedo da lontano e gli scatto qualche foto. Sta discutendo animatamente con un altro migrante. Suppongo che gli dica di andar via perché questo frammento di spazio è già occupato. Si guardano in cagnesco qualche secondo finché l’altro se ne va. Ci saranno sicuramente spazi più vantaggiosi di altri in città la cui logica intrinseca mi sfugge dall’esterno del mio posizionamento. Così, con il proposito di chiederglielo, mi avvicino e lui si offre di lavarmi il vetro. Incominciamo a chiacchierare. Qualche colpo di clacson alle mi spalle. Parcheggio un po’ meglio. Gli faccio qualche altra foto. È simpatico, lo sono anch’io. Parliamo a lungo. Mi colpisce, tra le tante cose, un elemento: vive in questo modo, lavando i vetri, tutti i giorni, dalla mattina alla sera, un giorno dopo l’altro, senza sosta, ricominciando l’indomani dallo stesso gesto e la stessa storia. La creatività del fare o una programmazione di altro tipo è bandita dalla sua vita: il suo è un mondo della ripetizione fine a se stessa. Pochi spiccioli e basta. Lo dice a modo suo, ridendo, alzando il braccio per darmi la possibilità di fare una buona fotografia. Ridiamo e scherziamo. Lui incalza con l’ironia, quando gli mostro la foto in cui ho ripreso pure i fiori: “guarda, ho un’alternativa, posso vendere i fiori se mi stanco, posso passare da un’attività all’altra”.
La flessibilità è una ricchezza dell’anima e della cultura. So bene che dice il vero e che, al contempo, si prende gioco di me: del mio mantenermi al di qua della frontiera con le mie domande ovvie. Io però penso, insistentemente, allo stereotipo del lavavetri che avevo e alla mia prima rivelazione sul campo: li chiamiamo così perché nemmeno simbolicamente gli concediamo lo statuto di veri e propri lavoratori; non li consideriamo persone che svolgono comunque un’attività lavorativa, ma dei perditempo che si piazzano all’angolo di strada per sottrarci, senza fare nessuno sforzo concreto, qualche spicciolo. Anzi, si potrebbe dire che proprio perché li ‘pensiamo’ per strada, sempre allo stesso angolo, che li consideriamo ‘lavoratori da strapazzo’, ‘lavoratori per scherzo’ e persino fannulloni. Essere lavavetri significa non fare niente: questa è un’opinione diffusa. In realtà, il mio lavavetri mi fa notare che suda, sente caldo, lavora da mattina a sera instancabilmente, cerca di rendere un servizio a chiunque, tenta in ogni modo di rendersi utile e di essere simpatico, parlando in italiano, fingendo comunque di capire per quanto possibile ciò che gli dicono.
Mi fa pena! E non so che fare. Ripenso a tutte quelle volte in cui, al semaforo, ho rallentato in attesa del verde, al fine di evitare il solito lavavetri che si avvicinava; penso pure alle volte in cui l’auto accanto a me metteva in azione il tergicristallo all’approssimarsi del lavavetri. In fondo, sono pochi spiccioli per me e non cambiano certo la mia vita. I miei pensieri corrono a queste varie forme di (non-)interazione mentre noi parliamo e parliamo come se ci conoscessimo da anni e non ci vedessimo da tempo. Poi, capisco che il dovere lo chiama. Deve tornare al lavoro. Ci salutiamo. È tardi anche per me. Decido di rientrare a casa, con il proposito ben fermo, però, di fare un’altra capatina in futuro, tra i lavavetri, allo scopo di meglio comprendere il loro complesso mondo.
In conclusione, che naturalmente lascio aperta proprio come dovrebbe essere qualsiasi esperimento antropologico della inter-coscienza di se stessi e degli altri, resta da chiarire il quesito riguardante la prima parte del mio titolo: Voi, lavavetri a Palermo. Per gli antropologi, non ci dovrebbero essere misteri, suppongo: non ha niente a che vedere con una presa di distanza dai lavavetri. Si tratta di un’allusione al titolo di una celebre etnografia di Firth: Noi, Tikopia. Questa allusione non è evidentemente neutrale da parte mia, ma intende proporre un modo diverso di vedere gli altri – chiunque essi siano – rispetto a quello proposto da Firth: non tanto come un insieme olistico e omogeneo assimilato a una sola istanza (il Noi), quanto come un andirivieni frammentato e sovrapposto che si instaura tra la voce del soggetto della ricerca e la voce dei suoi interlocutori (il Voi iniziale che si trasforma in molteplici Noi e Voi, Io e Tu).