Secondo il Rapporto Global Trends – Forced Dispalcement 2020 dell’UNHCR (United Nations High Commissioner for Refugees) sono 82,4 milioni i migranti forzati che, alla fine del 2020, a seguito di persecuzioni, conflitti, violenze, nonché del cambiamento climatico e a causa del COVID-19, hanno dovuto abbandonare il loro Paese di origine. Sembrano essere i più giovani, per la loro maggiore vulnerabilità, a risentire maggiormente dell’immigrazione forzata, soprattutto se questa si trascina per molti anni.
I Minori Stranieri Non Accompagnati (MSNA) rappresentano il 42% degli 82,4 milioni di persone costrette a fuggire, anche se realizzare una stima precisa risulta difficile a causa dei numerosi ingressi irregolari. Dal momento in cui il fenomeno degli MSNA ha cominciato a rappresentare un aspetto costante nelle migrazioni internazionali, l’Unione Europea, durante il Consiglio del 26 giugno 1997, ne ha fornito una descrizione ampia definendo gli MSNA
«cittadini di Paesi terzi di età inferiori ai 18 anni che giungono nel territorio degli Stati membri non accompagnati da un adulto per essi responsabile in base alla legge o alla consuetudine e fino a quando non ne assuma effettivamente custodia un adulto per essi responsabile […] e i minori, cittadini di Paesi terzi, rimasti senza accompagnamento successivamente al loro ingresso nel territorio degli Stati membri» (art.1).
Tuttavia, l’espressione “minore non accompagnato” viene utilizzata soltanto in Italia e non viene condivisa in ambito europeo: l’UNHCR, che stima che la metà delle persone rifugiate al mondo siano minorenni, utilizza l’espressione separated children, indicando i minori di 18 anni che si trovano fuori dal loro Paese di origine e che si trovano separati da entrambi i genitori o da un adulto responsabile della sua protezione. Tale espressione nasce per comprendere e tutelare anche coloro i quali risultano essere accompagnati, ma i cui accompagnatori non sono adeguati ad assumersi delle responsabilità nei loro confronti. Se guardiamo al panorama italiano, la definizione da dover prendere in considerazione è quella del Regolamento del Comitato per i Minori Stranieri, in cui il MSNA così si definisce:
«il minorenne non avente cittadinanza italiana o di altri Stati dell’Unione europea che, non avendo presentato domanda d’asilo, si trova per qualsiasi ragione nel territorio dello Stato privo di assistenza e rappresentanza da parte dei genitori o di altri adulti per lui legalmente responsabili in base alle leggi vigenti nel sistema giuridico italiano».
L’esperienza migratoria, per sua natura traumatica, nel caso dei MSNA assume una rilevanza e complessità maggiore in quanto i normali percorsi di costruzione dell’identità tipici dell’adolescenza sono gravati dal distacco dalla propria sfera affettiva: la scomparsa dei possibili modelli di riferimento familiari e culturali sancisce il passaggio rapido dall’infanzia all’età adulta, transizione critica durante la quale il minore deve farsi carico del proprio destino e del proprio futuro senza più il sostegno e la protezione dei genitori (Valtolina 2008). Qua si concretizza un primo paradosso: nelle grandi migrazioni dall’Europa degli anni dell’Ottocento erano gli uomini adulti a migrare e a farsi carico del nucleo familiare; adesso sono i giovani migranti a supportare il gruppo familiare con la partenza, alla ricerca di condizioni economiche migliori. Il viaggio e le difficili esperienze migratorie, inoltre, accelerano i processi di maturazione e di adultizzazione (Bertozzi 2005; Tarabusi 2015; Sorgoni 2022).
A partire dai paragrafi successivi, inserirò estratti di interviste tratti da una mia ricerca antropologica condotta presso le comunità di prima accoglienza per Minori Stranieri Non Accompagnati di Palermo al fine di sottolineare la complessità del processo migratorio.
Uno dei risvolti più complessi che un antropologo, un educatore, un assistente sociale può riscontrare con i MSNA, è la necessità di impiegare tre vertici di osservazione: la specificità dei vissuti, la condizione giuridica e le differenze culturali. L’MSNA è soggetto ad una ricostruzione dell’identità, intesa come una esperienza di lento aggiustamento tra molteplici appartenenze che, tuttavia, non per forza si escludono reciprocamente, dentro una condizione che Taylor definirebbe “politica del riconoscimento” (Taylor 2001:12). Ciò potrebbe entrare in polemica con l’idea di molti studiosi che promuovono una visione monolitica (ormai superata) del concetto di identità e cultura. L’identità e un costrutto multidimensionale in continua evoluzione, il cui significato viene attribuito da un soggetto e dalla percezione che ha di sé e dell’Altro, che non prescinde dall’ambiente sociale né dalle relazioni che il soggetto crea e intrattiene nel corso della sua vita (Sparti 2000; Bodei 2002). Un prisma di vetro che irradia colori diversi a seconda dell’orientamento della luce. Nel caso del ragazzo migrante, la costruzione di identità diventa un terreno di potenzialità ma anche luogo di possibili rischi e travagli psicologici profondi. Pur condividendo con i propri coetanei di nazionalità italiana bisogni e compiti di sviluppo, il minore migrante deve confrontarsi con sfide quotidiane come l’apprendimento della lingua, il faticoso equilibrismo tra le aspettative sociali, della famiglia e personali, l’apprendimento di scale di valori differenti da quella di origine, il vivere episodi di esclusione e razzismo.
«Ogni persona deve aprirsi un cammino fra le strade su cui viene spinto e su quelle che gli sono vietate o che gli vengono disseminate di insidie; non è subito se stesso, non si limita a “prendere coscienza” di ciò che è, diventa ciò che è; non si limita a “prendere coscienza” della propria identità, la acquisisce passo passo» (Maalouf, 2005:30).
La ridefinizione identitaria, secondo J.M. Bennet (2004) avverrebbe seguendo quattro fasi ben definite: 1. Il conflitto, tra le proprie abitudini e quella della nuova realtà; 2. La fuga, cercando di evitare i contatti con la nuova cultura; 3. Il filtro, l’impiego di alcuni espedienti psicologici nel tentativo di appianare le differenze culturali (esaltare il proprio Paese di origine, disprezzo verso la nuova cultura, negazione delle differenze, etc.); 4. La flessibilità, nel mostrare maggiore apertura verso questa nuova realtà.
Se l’identità dei MSNA sembra essere quasi in sospeso tra il paese di origine e quello di accoglienza, risulta difficile per degli adolescenti costruire la propria identità a cavallo tra due culture differenti. Bedogni (2004) sostiene che ci siano diverse ipotesi identitarie per gli MSNA. La prima è una “resistenza culturale”, il ragazzo mantiene un forte legame con la cultura del Paese di origine, discostandosi dalle usanze del Paese di accoglienza e si isola, incontrandosi con individui appartenenti alla propria comunità:
«In Italia è tutto molto libero. Troppo. Non amate la vostra religione o quella degli altri. Male. Per noi la religione è importante» (B., 18 anni, maschio, Bangladesh).
Un’altra opzione è quella dell’“assimilazione”, per cui il minore rifiuta le proprie origini prediligendo la cultura e le usanze del Paese ospitante:
«In Bangladesh pratico Ramadan, ma qua no, io là faccio per mia famiglia, ma non ho mai voluto. […] In Bangladesh tante cose non mi piacciono ma una che non mi piace è donna: donna in Bangladesh non molto libera, qua a Palermo voi fate quello che piace ed è bello. La mia donna voglio che fa quello che vuole, non la porterei mai in Bangladesh […] Non mi manca il mio paese. Sto bene qua, con gli amici della scuola e della comunità» (S., 17 anni, maschio, Bangladesh).
«Molto meglio qua rispetto a Tunisi, per tanti motivi. Non mi piace molto come pensano alcuni là. Io qua esco con il mio fidanzato, lo sanno tutti e se voglio, poi posso stare con qualcun altro. Mi sono fatta il piercing all’ombelico, posso essere chi voglio, nessuno mi dice niente ed è giusto» (A., 15 anni, femmina, Tunisia).
Queste alcune delle testimonianze che ho raccolto nella mia ricerca presso il Centro di accoglienza a Palermo. Alcuni parlano di sé ponendo l’accento su quegli aspetti della loro identità che costituiscono un Noi in contrapposizione ad un Voi/Loro. E non ignorano affatto il peso dell’identità etnica poiché vi si riferiscono esplicitamente. Consapevolmente offrono all’interlocutore un’immagine di sé e lo fanno disegnando dei confini che includono – e dunque escludono – sulla base di determinati valori. Valori che l’interlocutore (l’intervistatore, in questo caso), l’altro che diventa noi, riconosce e valida. Per altri il Noi, anche se nello specifico non è un Noi etnico, è comunque un Noi culturale, che ha a che fare con precise barriere sociali, le stesse del paese d’origine. La doppia etnicità sarebbe, dunque, l’opzione ottimale per questi ragazzi, poiché permetterebbe loro di plasmare la propria identità nel confronto tra due culture differenti, ma senza la necessaria esclusione dell’una o dell’altra. Un percorso di selezione ed adeguamento di valori. Tuttavia tale soluzione non risulta facilmente applicabile, poiché dovrebbe avvenire in una società multiculturale.
Il corpo come significante, la storia come sintomo
Mauss sosteneva che il corpo fosse il primo e il più naturale strumento dell’uomo. Gli esseri umani hanno esperienza del mondo attraverso il corpo. Il corpo è infatti una specie di mediatore tra noi e il mondo, un mezzo attraverso il quale entriamo in relazione con l’ambiente circostante. Noi conosciamo attraverso il corpo: si parla, così, di una conoscenza “incorporata”. Gli antropologi, negli ultimi anni, hanno spesso insistito su tale concetto, sottolineando come la società imprima i segni della sua esistenza nei corpi dei suoi componenti. Dunque, essendo il mezzo attraverso cui entriamo in contatto con il mondo circostante, il corpo è anche il primo a mostrare i risultati di input esterni traumatici e difficili: corpi che tremano, mal di testa, difficoltà a dormire, orecchie che ronzano, incubi notturni. Chiunque abbia familiarità con la sofferenza dei cittadini immigrati, riconosce i modi in cui il dolore sceglie di trovare sbocco, linguaggio e significazione attraverso il corpo.
La nostra società è abituata a considerare il sintomo come un segno inconfondibile di una malattia-oggetto. Quando si sceglie di indagare le manifestazioni della sofferenza, si dovrebbe applicare una prospettiva che legga l’esperienza soggettiva dell’individuo ed interpreti il sintomo con un valore semiotico. Beneduce ha insistito sulla necessità di costruire una psichiatria culturale della migrazione che si concentrasse anche sul peso della propria posizione nel contesto sociale:
«L’adattamento e il mutamento […] non concernono esclusivamente gli ‘stranieri’, gli immigrati o la loro psicopatologia, dal momento che guardare soltanto ad essi lascerebbe nuovamente emergere un modello essenzialista della cultura, della sofferenza e della società, una rappresentazione statica della differenza culturale che si rivela nei fatti destituita di ogni fondamento. Compito dell’etnopsichiatria alla quale pensiamo diventa così anche comprendere e problematizzare i mutamenti e i processi di mutua transculturazione che si determinano tanto nelle società ospiti quanto negli immigrati e nelle culture o nei gruppi dai quali essi provengono, cogliendo queste dinamiche nella loro costitutiva reciprocità. Accanto alla ricerca sui radicali socioculturali della cura, delle tecniche terapeutiche e delle forme assunte in altri contesti dalla sofferenza e dal conflitto psichico […] l’etnopsichiatria dovrà impegnarsi anche nella decostruzione di molte delle categorie della psichiatria occidentale e più in generale di talune tipizzazioni culturali non meno che del loro uso sociale, coerentemente a quanto suggerito nella letteratura antropologica contemporanea relativamente a nozioni come quelle di identità etnica, di ‘comunità’, di cultura, o di ‘immigrato’ stesso» (Beneduce, 1998:55).
Accanto a prevaricazioni e abusi, si osserva inoltre la difficoltà nel comunicare il proprio disagio nei termini di un lessico che possa essere compreso da chi se ne fa carico, quali assistenti sociali, educatori, insegnanti, psicologi. Non è poco frequente che venga diagnosticato ai MSNA un Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD) ovvero una reazione psicopatologica annessa ad un vissuto traumatico il quale diventa tale nell’istante in cui, a causa dell’iperstimolazione emotivo-cognitiva, l’avvenimento che ne è la causa supera l’energia psichica difensiva disponibile, non consentendo al soggetto l’evitamento dell’effetto nocivo.
I ragazzi mostrano attraverso il loro corpo, mero contenitore, mero significante, i sintomi di un malessere radicato e profondo, difficile da estirpare, esito delle esperienze vissute. Un duplice vertice di osservazione, etnografico e clinico, messo in tensione. L’immigrato è il suo corpo, scrive Sayad (2002), e Csordas sostiene che
«se rifiutiamo l’idea che il corpo sia una tabula rasa su cui la cultura inscrive i suoi significati, dobbiamo giustificare la nostra posizione in base all’argomento secondo cui è la biologia, e non la cultura, a fornirci disposizioni e temperamento, oppure all’argomento secondo cui il corpo non è mai una tabula rasa perché è sempre e sin dall’inizio culturale, oltre che biologico? […] La seconda prospettiva inverte i termini della prima, suggerendo che la cultura e la storia siano fenomeni corporei oltre che il prodotto di idee, simboli e condizioni materiali» (Csordas 2003:20-21).
Questi concetti rafforzano l’idea di un corpo dotato di agency che non è più substrato passivo su cui inscrivere processi culturali e sociali, ma un vero e proprio produttore di realtà; il corpo è agente della storia e contemporaneamente agito dalla storia.
I minori spesso “concordano” con i propri genitori o parenti la partenza, poiché essi rappresentano l’unica possibilità per emanciparsi dalla povertà. Una volta che il minore risulta “stabile” in Italia, inizia l’assillo della richiesta di denaro. In termini di possibile finalità, la rimessa economica è principalmente una forma di sussistenza per la famiglia di origine, può divenire una fonte di consumi futuri (educazione, sanità, risparmio o investimento), può essere impiegata come risorsa per lo sviluppo dell’attività imprenditoriale della propria famiglia nel Paese di origine. La rimessa può, dunque, essere definita come trasferimento di denaro accumulato dal migrante nel Paese di accoglienza e fatto pervenire ai propri familiari nel Paese d’origine. Non è importante in che termini e condizioni vengono ottenuti i soldi, una certezza, ed obbligo allo stesso tempo, è ottenere questi soldi ed inviarli alla famiglia, a qualsiasi costo. Persino a costo della propria vita.
Tuttavia, sovente, l’obbligo del successo, soprattutto economico, nel Paese di accoglienza si lega alla necessità della menzogna. La menzogna nel contesto migratorio nasce dagli immaginari idilliaci connessi al luogo di arrivo, che innescano menzogne su menzogne, e che girano intorno allo shock provato al momento dell’arrivo. Uno shock in alcun modo raccontabile al proprio gruppo familiare, pena l’esclusione da questo: dopo l’amara e traumatica scoperta che l’Italia non è l’Eldorado immaginato, il minore si impegna a costruire la vita tanto immaginata e, spesso, il migliore mezzo di rappresentazione è attraverso i socialnetwork e le fotografie mandate attraverso le app di messaggistica.
«Sento mia famiglia con Messenger11, quasi ogni giorno. Loro sanno che io studio e che lavoro, poco il lavoro ma lavoro. Io fortunato perché miei genitori capire che qua non è come pensiamo è quando siamo in Bangladesh. Ma altra familia non facile da capire, per loro è importante diventare subito un adulto quando si lascia paese» (S., 17 anni, maschio, Bangladesh).
«Io non sento i miei genitori spesso… Sono un po’ arrabbiati che non lavoro e sto studiando. Ho spiegato che lavorare senza lo studio non è facile, ma è difficile capire chi non vive qua come vanno le cose. Appena inizio il lavoro, mando loro un po’ di soldi. Per loro attraversare il mare è anche diventare uomini» (A., 17 anni, maschio, Egitto).
Appadurai chiarisce:
«A rifrangere ulteriormente queste disgiunture (che formano comunque tutt’altro che un’infrastruttura globale semplice e meccanica) ci sono quelli che io chiamo mediorami e ideorami, che sono panorami strettamente correlati di immagini. I mediorami si riferiscono sia alla distribuzione delle capacità elettroniche di produrre e diffondere informazione (giornali, riviste, stazioni televisive e studi di produzione 50 cinematografica) che sono ora a disposizione di un numero crescente di centri di interesse pubblici e privati in tutto il mondo, sia alle immagini del mondo create da questi media. Queste immagini sono declinate in molti e complicati modi, a seconda della loro natura (informativa o di intrattenimento), della loro forma (elettronica o pre-elettronica), dei loro pubblici (locali, nazionali o transnazionali) e degli interessi dei proprietari che le controllano. Quel che è più importante di questi mediorami (soprattutto sotto forma di televisione, film e cassette) è che forniscono ai loro spettatori di tutto il mondo vasti e complicati repertori di immagini, narrazioni ed etnorami in cui si mescolano profondamente il mondo delle merci e quello delle notizie e della politica» (Appadurai 2001: 120).
È necessario spiegare che, in alcune aree rurali la mancata rimessa economica in seguito alla partenza, porta all’esclusione totale del gruppo o, in alcuni casi, alla maledizione del soggetto. Alcuni popoli della Nigeria applicano il juju, un antico rituale che obbliga le ragazze che intendono emigrare a un giuramento solenne.
«I tuoi genitori fanno così perché non siete nigeriani. Il mio popolo in Nigeria ha dei riti per noi ragazze, ju-ju. Se io dovessi dire ai miei genitori la verità, che abito qua e ancora non lavoro, gli spiriti mi troverebbero e ucciderebbero me o la mia famiglia. Quindi mando loro i soldi che mi dà la comunità e glieli mando» (A., 16 anni, femmina, Nigeria).
La cerimonia consiste nella presenza di uno stregone all’interno di un santuario, il quale fa spogliare la ragazza, che dovrà lavarsi e stendersi nuda sull’altare. La ragazza dovrà donare peli pubici, sangue e indumenti intimi, mentre lo stregone soffia polvere di gesso sul corpo della giovane e le marchia la fronte con strisce di terra, in modo tale che gli spiriti possano identificare e seguire ovunque la ragazza. Altre fonti fanno riferimento all’impiego di un rasoio con cui la ragazza viene ferita, la fuoriuscita del sangue permette allo spirito di entrare nel corpo così pure l’ingerimento del cuore di un pollo. Ad ogni modo, tale rituale vincola all’estinzione del debito, pena l’uccisione di persone care o del soggetto a opera degli spiriti.
Tutto ciò diventa elemento fondamentale del traffico di esseri umani poiché attraverso una profonda fede nelle antiche credenze, la paura del fallimento e il rischio di morire, si istituisce una moderna forma di schiavitù. Inevitabilmente questo va a rafforzare il potere dei trafficanti di esseri umani e va ad indebolire i soggetti emigranti. Le donne nigeriane, dunque, sono costrette a sopportare qualsiasi cosa, anche la violenza sessuale.
Il complesso mondo dei Minori Stranieri Non Accompagnati rappresenta una sfida significativa per la società contemporanea. Mentre i flussi migratori continuano a crescere e le pressioni geopolitiche spingono sempre più giovani a cercare rifugio e opportunità in luoghi lontani dalle loro terre d’origine, è essenziale che si rifletta sulle implicazioni profonde di questo fenomeno.
Abbiamo visto come l’identità dei MSNA sia plasmata e ridefinita attraverso un processo complesso che coinvolge distacchi culturali, adattamenti e negoziazioni tra molteplici appartenenze. Il corpo di questi giovani diventa un terreno di potenzialità e, al tempo stesso, di profondi travagli psicologici, in quanto devono affrontare sfide quotidiane, tra cui l’apprendimento di nuove lingue, la navigazione tra aspettative sociali e personali e l’esperienza di esclusione e razzismo. Inoltre, la menzogna è spesso una conseguenza inevitabile del percorso migratorio dei MSNA, poiché le aspettative economiche e la pressione sociale li spingono a costruire un’immagine idealizzata delle loro vite nel Paese di accoglienza.
Per affrontare efficacemente queste sfide, è fondamentale che la società, le istituzioni e le organizzazioni internazionali lavorino insieme per proteggere i diritti e il benessere dei MSNA. Dobbiamo promuovere la consapevolezza pubblica sulla loro esperienza, combattere il traffico di esseri umani e garantire che ci siano politiche di accoglienza e integrazione adeguate. Ogni migrante rappresenta una storia umana unica e preziosa, e va trattato con dignità e rispetto. La nostra comprensione e solidale azione possono fare la differenza.
Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023
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CSORDAS, T. J., Embodiment and Experience: The Existential Ground of Culture and Self, Cambridge, Cambridge University Press, 2006
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Sitografia
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Global Trends: Forced Displacement in 2020 – World | ReliefWeb
Risoluz Consiglio 26 giugno 1997 minori non accompagnati (114.it)
The Volume and Dynamics of International Migration and Transnational Social Spaces | Oxford Academic (oup.com)
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Alessia Bonsignore, giovane laureata in “Lingue e Letterature – Interculturalità e Didattica” presso l’Università degli Studi di Palermo, ha discusso la tesi sperimentale di laurea in Etnoantropologia, dal titolo “Processi migratori: raccontarsi attraverso le storie di vita”, una raccolta e analisi delle storie di vita di Migranti Stranieri Non Accompagnati di centri di prima accoglienza di Palermo e provincia. Aspirante insegnante della lingua italiana agli stranieri, continua la sua ricerca nell’ambito delle migrazioni e dell’etnoantropologia.
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