Le città, l’impero e il labirinto
Tra il 2023 e il 2024 si sono avvicendati due anniversari interessanti: i 100 anni dalla nascita di Italo Calvino e i 700 dalla morte di Marco Polo. Anniversari resi ancor più interessanti da un intreccio letterario: Polo è il protagonista del romanzo di Calvino Le città invisibili, del 1972. Facciamo un passo indietro.
Nel saggio del 1962 “La sfida al labirinto” pubblicato sulla rivista Il Menabò, Calvino affronta il problema di come lo scrittore, l’intellettuale, possa affrontare il mondo dopo aver compreso l’impossibilità di dominarlo. Dieci anni dopo, questo problema viene discusso, appunto, da Marco Polo con Kublai Kan, ne Le città invisibili. Calvino li preleva da Il Milione per porli ai due lati dello stesso metaforico tavolo: l’esploratore ambisce a mappare il mondo capendone la logica che collega tutto e senza la pretesa di assoggettarlo, mentre il Gran Kan è preoccupato dal capire come dominare il proprio impero, studiandone le parti come ingranaggi di un complesso meccanismo. Sono i due risvolti della medesima attitudine della mente umana, ossia studiare, analizzare, comprendere, catalogare, e così cercare di far rientrare tutto e controllarlo.
Per ottenere la resa plastica di questo conflitto dentro ogni di noi, ne Le città invisibili l’autore fa incontrare il calcolo sofisticato della logica combinatoria dell’OuLiPo con l’esperienza soggettiva e interiore di ogni individuo, nelle città in cui chiunque può trovarsi a vivere e in quelle che può trovarsi a visitare. Calvino inizia da sé stesso in primis: basandosi sulle esperienze personali di città visitate, partendo dagli appunti presi negli anni e ispirandosi alla semiologia di Barthes, riesce a creare un’efficace osmosi tra significati politico-sociali e significanti architettonici e spaziali, perché nella sua narrazione ogni cosa «non è altro che un simbolo, mentre tutti insieme costituiscono segni aventi un solo significato: la rappresentazione globale della città nuova» (Baczko, 1981: 880). Così, in definitiva, finisce per parlare di ognuno di noi, ciascuno con le sue città dentro.
Il risultato è un’opera straordinaria, un classico contemporaneo. Il romanzo, quale séguito ideale de Il Milione di Marco Polo, si potrebbe situare per l’esattezza come midquel, cioè un sequel che sta dentro l’opera, fra le sue vicende non principali e quindi non riportate nella storia primaria, come se sbirciassimo in un determinato momento dell’esperienza del navigatore veneziano che, col padre e lo zio, stette al servizio di Kublai Kan per 17 anni.
È come se, a un certo punto, il vero Marco Polo avesse deciso di raccontare al Gran Kan storie inventate riguardo le proprie esplorazioni, proponendo all’imperatore città immaginate da lui, forse inventate di sana pianta ma secondo un certo ordine, per far comprendere al sovrano che il mondo, e quindi anche il suo impero, è interconnesso da un ordine invisibile che lega tutte le cose.
Il romanzo consta di 55 racconti-paragrafi distribuiti fra i 9 capitoli. Ogni racconto-paragrafo è incentrato su una città, e quindi ne abbiamo 55, tutte con nome di donna, divise in 11 serie: le città e la memoria; le città e il desiderio; le città e i segni; le città sottili; le città e gli scambi; le città e gli occhi; le città e il nome; le città e i morti; le città e il cielo; le città continue; le città nascoste. Questa struttura così sofisticata, ispirata al modello combinatorio dell’OuLiPo con cui Calvino si confronta nei suoi anni in Francia, riflette una ricerca che lo scrittore manifesta anche in altri lavori.
A uno sguardo d’insieme, più globale, il racconto “iper-romanzo” Il conte di Montecristo della raccolta Ti con zero (1967), séguito de Le Cosmicomiche, e poi il romanzo Il castello dei destini incrociati (la prima versione del 1969 e la seconda, assieme al suo séguito, del 1973) e, dopo ancora, Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979), fanno compagnia a Le città invisibili quali opere che affrontano il problema delle multiformi possibilità del reale. Problema che, per l’autore, può essere affrontato con una giocosa sfida al labirinto, giacché il reale, tanto nel tempo quanto nello spazio, può espandersi e diradarsi in mille esiti, mentre possibilità vecchie avvizziscono e muoiono, e nuove ne nascono, con tutti i “se” della storia che potevano avverarsi e con tutte le direzioni che prende lo sviluppo del mondo. A dispetto dei desiderata del Gran Kan, infatti, gli antichi imperi si disfanno e i nuovi si generano, in possibilità continue.
Calvino dunque si propone una letteratura labirintica per un mondo labirintico: è la sua proposta per porsi innanzi, in modo giocoso e stimolante, a un mondo leviatanico che ormai sfugge a ogni tentativo di controllo, a ogni rigida categoria del passato. Sfidare il labirinto è un tentativo di mapparlo e comprenderlo, senza volergli dare necessariamente un ordine, di certo non per conquistarlo (intento che sarebbe riduttivo, oltre che mistificatorio). La ludica sfida al labirinto offerta dalla letteratura, come si vede ne Le città invisibili, consente alla mente di non arrendersi al caos del mondo e, anzi, di poter esplorare tale mondo con curiosità e con sempre nuove possibilità di conoscenza. Occorre contestualizzare: tra gli anni ’60 e ’70, trasferitosi in Francia, Calvino rileva che lo scrittore-intellettuale avverte uno smacco esistenziale giacché il mondo si fa sfacelo senza forma, e la scrittura si deve arrendere giacché è incapace di dare ordine e significato alla realtà. Ecco perché l’autore de La trilogia degli antenati, mentre si approccia all’OuLiPo, decide di tentare una costruzione di un mondo razionale: è quello che fa Marco Polo col suo filo che collega le città invisibili, mentre il suo interlocutore il Gran Kan è appesantito dalla consapevolezza dello sfacelo concreto del suo impero reale. È il destino di ogni impero: arrivato al suo apice, inizia la propria dissoluzione, nella resa o meno dell’imperatore. Speculare dunque è il tramonto, negli anni francesi di Calvino, dell’utopia di raccontare per rinnovare il mondo, speranza ormai sbiadita.
Infatti Marco Polo, incaricato di descrivere al Kan una per una le città dell’impero, sembra rispondere al desiderio del sovrano di sottrarle allo sfacelo causato dal chronos; in realtà Polo coglie questo kairós per fare una cosa strana: non racconta delle vere città dell’impero bensì di città che forse non esistono, non tutte e non come le racconta lui, che forse le inventa “rubando” particolari e dettagli da una matrice, ossia la sua Venezia, da cui era partito col padre e lo zio verso l’Oriente; altre città invece, raccontate a Kublai Kan coi gesti degli scacchi, potrebbero essere diverse da come il potente interlocutore le comprende. Il Kan infatti gli chiede un elenco di descrizioni, il che è un procedimento esaustivo; Polo invece, pur di aprire gli occhi al sire sulle sue illusioni, segue un piano temerario, ossia sfidare l’imperatore raccontandogli cose così fantastiche, seppur aderenti a un ordine ideale del mondo, che rischia di non essere creduto, o di essere inefficace nelle parole che sceglie per esprimere tutto ciò che ha in mente.
Sia con Il castello dei destini incrociati del ’69 che col successivo Le città invisibili, Calvino intende mettere alla prova alcune istanze della riflessione strutturalista nonché oulipiana, per verificare se si possa ridurre la realtà a uno schema logico universale. L’esito è negativo: non c’è struttura, per quanto Kublai lo vorrebbe, che possa esaurire e controllare le possibilità del reale, come gli dimostra il navigatore: rimane sempre uno scarto tra il segno della parola e l’universo di significati che a esso si possono associare. Calvino arriva a ciò e lo fa dire a Polo, ma ciò non gli fa smettere di sfidare ancora le possibilità del linguaggio e del racconto. Così Calvino-Polo esprime una doppia impossibilità che è in sé un ossimoro, cioè l’impossibilità di rappresentare la complessità della vita, ma, al contempo, la speculare impossibilità di rinunciare ai tentativi di farlo (Zancan, 1996: 875-929).
Il Marco Polo descritto da Calvino è un lucido ottimista, un sognatore razionale, che, nella ragione provocata dalla fantasia, vede il modo per dare un ordine liberatorio alle cose. Il navigatore assicura all’imperatore che un ordine invisibile esiste, e che le persone per capirlo devono muoversi in funzione di esso, grazie alle città “utopiche razionali” che la sua mente ha visto, quali “ipotesi allegoriche” di come la realtà va pensata e ordinata (al solo fine di comprenderla). Come scriverà un decennio dopo nelle Lezioni Americane, nel 3° capitolo (sull’esattezza), nel romanzo Le città invisibili ogni concetto e ogni valore si rivela duplice. Il Kan «a un certo momento impersona la tendenza razionalizzatrice, geometrizzante o algebrizzante dell’intelletto e riduce la conoscenza del suo impero alla combinatoria dei pezzi di una scacchiera» (Calvino, 2023d: 72), mentre Polo rappresenta lo sforzo di «descrivere con grande abbondanza di particolari» (Ibidem). Dunque, se Polo, che è ardito e coraggioso, cerca un ordine invisibile in cui ha fiducia già a priori, cercando di riprodurre col linguaggio quanto il più possibile della sua comprensione della realtà, Kan invece è melanconico e pessimista, perché, conscio del decadimento del suo impero, cerca di cogliere, dalle parole del suo interlocutore, quell’ordine preciso delle cose che, nell’astrazione, deve fornire la chiave per mantenere intatto il suo impero, misurabile e controllabile, in base a obiettivi e risultati.
Kan e Polo incarnano i due modi opposti in cui si biforca la ricerca di Calvino stesso sull’esattezza, come spiegherà dieci anni dopo, sempre nelle Lezioni americane: «Da una parte la riduzione degli avvenimenti contingenti a schemi astratti con cui si possano compiere le operazioni e dimostrare teoremi; e dall’altra parte lo sforzo delle parole per render conto con la maggior precisione possibile dell’aspetto sensibile delle cose» (Id.:73-74). Tale contrapposizione tra due modi diversi di perseguire lo stesso fine da parte di ciascuno di noi, cioè comprendere le cose e il loro ordine, e racchiuderle in descrizioni che non ne tradiscano la complessità, è manifestata proprio in questo romanzo. Polo, infatti, vorrebbe dischiudere nuovi orizzonti di pensiero al Kan, che però sembra sempre diffidente, seppur lo ascolti con piacere; in fondo il sovrano lo sa che i propri sforzi di controllare tutto il suo immenso impero sono vani, anche se i resoconti del veneziano gli accendono la speranza che almeno c’è un immenso disegno che tiene unito tutto questo:
«Non è detto che Kublai Kan creda a tutto quel che dice Marco Polo quando gli descrive le città visitate nelle sue ambascerie, ma certo l’imperatore dei tartari continua ad ascoltare il giovane veneziano con più curiosità e attenzione che ogni altro suo messo o esploratore. Nella vita degli imperatori c’è un momento, che segue all’orgoglio per l’ampiezza sterminata dei territori che abbiamo conquistato, alla malinconia e al sollievo di sapere che presto rinunceremo a conoscerli e a comprenderli; un senso come di vuoto che ci prende una sera con l’odore degli elefanti dopo la pioggia e della cenere di sandalo che si raffredda nei bracieri; una vertigine che fa tremare i fiumi e le montagne istoriati sulla fulva groppa dei planisferi, arrotola uno sull’altro i dispacci che ci annunciano il franare degli ultimi eserciti nemici di sconfitta in sconfitta, e scrosta la ceralacca dei sigilli di re mai sentiti nominare che implorano la protezione delle nostre armate avanzanti in cambio di tributi annuali in metalli preziosi, pelli conciate e gusci di testuggine: è il momento disperato in cui si scopre che quest’impero che ci era sembrato la somma di tutte le meraviglie è uno sfacelo senza fine né forma, che la sua corruzione è troppo incancrenita perché il nostro scettro possa mettervi riparo, che il trionfo sui sovrani avversari ci ha fatto eredi della loro lunga rovina. Solo nei resoconti di Marco Polo, Kublai Kan riusciva a discernere, attraverso le muraglie e le torri destinate a crollare, la filigrana d’un disegno così sottile da sfuggire al morso delle termiti» (Calvino, 2023: 5).
Kublai Kan riesce a intuire che il suo immenso impero è uno sfacelo senza fine proprio perché è arrivato a conquistarlo, perché è dall’apice che poi inizia il declino, poiché l’insieme di un impero eredita la rovina che aveva già iniziato ad affliggere le sue singole parti e le aveva rese conquistabili, ma, ascoltando il giovane Polo, intravede l’ordine che comunque lo regge, sebbene ciò non lo aiuterà a elaborare strategia alcuna per tenerne le redini.
All’inizio del capitolo VIII, Polo, tornando dal Kan, lo trova in un atteggiamento tipico (come Calvino dirà più di dieci anni dopo, sempre nelle Lezioni americane): il sovrano sta manifestando i propri tentativi di conoscenza del suo impero come se esso fosse una combinatoria dei pezzi di una scacchiera, come se così, ragionando ed elucubrando sui vari pezzi, trovasse la chiave di quel controllo che sta cercando.
«Tornando dalla sua ultima missione Marco Polo trovò il Kan che lo attendeva seduto davanti a una scacchiera. Con un gesto lo invitò a sedersi di fronte a lui e a descrivergli col solo aiuto degli scacchi le città che aveva visitato. Il veneziano non si perse d’animo. Gli scacchi del Gran Kan erano grandi pezzi d’avorio levigato: disponendo sulla scacchiera torri incombenti e cavalli ombrosi, addensando sciami di pedine, tracciando viali diritti o obliqui come l’incedere della regina, Marco ricreava le prospettive e gli spazi di città bianche e nere nelle notti di luna.
Al contemplarne questi paesaggi essenziali, Kublai rifletteva sull’ordine invisibile che regge le città, sulle regole cui risponde il loro sorgere e prender forma e prosperare e adattarsi alle stagioni e intristire e cadere in rovina. Alle volte gli sembrava d’essere sul punto di scoprire un sistema coerente e armonioso che sottostava alle infinite difformità e disarmonie, ma nessun modello reggeva il confronto con quello del gioco degli scacchi. Forse, anziché scervellarsi a evocare col magro ausilio dei pezzi d’avorio visioni comunque destinate all’oblio, bastava giocare una partita secondo le regole, e contemplare ogni successivo stato della scacchiera come una delle innumerevoli forme che il sistema delle forme mette insieme e distrugge» (Calvino, 2023: 118).
All’inizio del capitolo finale, il IX, emerge chiaramente il tema del testimone inattendibile, il narratore inaffidabile, che non esprime alcuna verità ma solo la pluralità delle interpretazioni, che corrispondono alla varietà delle città da Polo raccontate (e forse immaginate).
«Kublai domanda a Marco: – Quando ritornerai al Ponente, ripeterai alla tua gente gli stessi racconti che fai a me? – Io parlo parlo, – dice Marco, – ma chi m’ascolta ritiene solo le parole che aspetta. Altra è la descrizione del mondo cui tu presti benigno orecchio, altra quella che farà il giro dei capannelli di scaricatori e gondolieri sulle fondamenta di casa mia il giorno del mio ritorno, altra ancora quella che potrei dettare in tarda età, se venissi fatto prigioniero da pirati genovesi e messo in ceppi nella stessa cella con uno scrivano di romanzi d’avventura. Chi comanda al racconto non è la voce: è l’orecchio» (Calvino, 2023: 134).
Se è l’orecchio ciò che comanda al racconto, è vero pure che il racconto di Polo è, innanzitutto, testimonianza di una necessità, ossia che le forme trovino, ognuna, la propria città, le quali nasceranno finché le forme ne avranno bisogno e finché le città vecchie si disfaranno: «Il catalogo delle forme è sterminato: finché ogni forma non avrà trovato la sua città, nuove città continueranno a nascere. Dove le forme esauriscono le loro variazioni e si disfano, comincia la fine delle città» (Calvino, 2023: 136).
Ecco perché al termine del IX e ultimo capitolo, facendo riferimento a svariate città immaginarie della letteratura e delle leggende, il Gran Kan (proprio mentre sfoglia l’atlante con le città inventate dalla tradizione letteraria) fa capire a Polo la propria preoccupazione: forse è tutto inutile, forse neanche tracciare rotte e mappare il mondo serve ad avere un’idea del futuro che ci attende e a prevenire l’erosione del tempo.
«L’atlante del Gran Kan contiene anche le carte delle terre promesse visitate nel pensiero ma non ancora scoperte o fondate: la Nuova Atlantide, Utopia, la Città del Sole, Oceana, Tamoé, Armonia, New-Lanark, Icaria.
Chiese a Marco Kublai: – Tu che esplori intorno e vedi i segni, saprai dirmi verso quale di questi futuri ci spingono i venti propizi.
– Per questi porti non saprei tracciare la rotta sulla carta né fissare la data dell’approdo. Alle volte mi basta uno scorcio che s’apre nel bel mezzo d’un paesaggio incongruo, un affiorare di luci nella nebbia, il dialogo di due passanti che s’incontrano nel viavai, per pensare che partendo di lì metterò assieme pezzo a pezzo la città perfetta, fatta di frammenti mescolati col resto, d’istanti separati da intervalli, di segnali che uno manda e non sa chi li raccoglie. Se ti dico che la città cui tende il mio viaggio è discontinua nello spazio e nel tempo, ora più rada ora più densa, tu non devi credere che si possa smettere di cercarla. Forse mentre noi parliamo sta affiorando sparsa entro i confini del tuo impero; puoi rintracciarla, ma a quel modo che t’ho detto.
Già il Gran Kan stava sfogliando nel suo atlante le carte delle città che minacciano negli incubi e nelle maledizioni: Enoch, Babilonia, Yahoo, Butwa, Brave New World»(Calvino, 2023: 159).
Queste funeste città dell’atlante che il Kan scorre sembrano una distorsione della celebre Utopia di San Tommaso Moro, e in effetti il risvolto negativo dell’utopia è la distopia. Aldous Huxley, nel saggio “Negativo e positivo” (pubblicato in Italia postumo nel 1973, a cura di Rita Cirio e Pietro Favari), all’interno dell’almanacco Bompiani Utopia rivisitata, scrive:
«Nell’intenzione dei loro creatori tutte queste utopie dovevano essere positive. Ma in ognuno di questi casi una visione troppo semplicistica della natura umana, combinata con la passione per la regola, ha fatto mutare il segno e ha trasformato degli Stati ideali in utopie negative che, a dispetto della buona volontà e dell’episodico buon senso dei loro autori, sono in potenza tremendamente disumane quanto 1984 di Orwell» (Huxley, 1973: 8).
Pure Calvino, nel saggio “Quale utopia?”, anch’esso all’interno dell’almanacco Bompiani Utopia rivisitata, s’interroga sul bisogno di negare l’unicità esclusiva del mondo che abitiamo, che, pur essendo l’unico, spesso è talmente ingiusto da farci sognare un mondo diverso, che sia utopico o distopico:
«L’utopia ha il potere di mettere in crisi il nostro modo di trovarci qui. […] Vedere un possibile mondo diverso come già compiuto e operante è […] una presa di forza contro il mondo ingiusto, è negare la sua necessità esclusiva. […] L’utopia mi sta a cuore in quanto (e se) serve a qualcosa d’insostituibile: ad allargare la sfera di ciò che possiamo rappresentarci, a introdurre nella limitatezza delle nostre scelte lo “scarto assoluto” d’un mondo pensato in tutti i suoi dettagli secondo altri valori e altri rapporti. Insomma come città che non potrà essere fondata da noi ma fondare se stessa dentro di noi, costruirsi pezzo per pezzo nella nostra capacità di immaginarla, di pensarla fino in fondo, città che pretende d’abitare noi, non d’essere abitata, e così fare di noi i possibili abitanti d’una terza città, diversa dall’utopia e diversa da tutte le città bene o male abitabili oggi, nata dall’urto tra i nuovi condizionamenti interiori ed esteriori. Il lato dell’utopia che ha più cose da dirci è dunque quello che volta le spalle alla realizzabilità. […] Il meglio che m’aspetto ancora è altro, e va cercato nelle pieghe, nei versanti in ombra, nel gran numero di effetti involontari che il sistema più calcolato porta con sé senza sapere che forse là più che altrove è la sua verità. Oggi l’utopia che cerco non è più solida di quanto non sia gassosa: è un’utopia polverizzata, crepuscolare, sospesa» (Calvino, 1973: 4).
Leggendo in modo sinottico queste parole di Calvino dentro Utopia rivisitata (pubblicate poco dopo Le città invisibili), vediamo come, parallelamente, la preoccupazione del pessimista ambizioso Kublai Kan sia anche una presa di consapevolezza: tutto è finitezza, corrosione, e, nonostante i nostri tentativi di civiltà, ci attende sempre la fine di tutte le cose.
«Dice: – Tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente.
E Polo: – L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio» (Calvino, 2023: 160).
Per Calvino, e il suo ottimista razionale Marco Polo, comprendere l’ordine invisibile che collega le cose significa, alla fine, non l’illusione di poterle controllare, nemmeno per chi possiede un impero, ma sapersi ritagliare uno spazio di sopravvivenza in quell’inferno costituito da tutti noi, e valorizzare ciò che inferno non è. Infatti
«[…] le città invisibili rappresentano utopie in senso proprio, città che vengono abitate al di fuori del comune sistema di coordinate spazio-temporali. […] A differenza della maggior parte degli utopisti tradizionali, a Calvino non interessa una città ideale, ma piuttosto molte città, che possono essere organizzate in modo positivo, negativo o ambivalente» (Kuon, 2002:29).
Le città come sfida al labirinto
Se è nel ’79 con Se una notte d’inverno un viaggiatore che Calvino dà alla luce la sua opera più propriamente postmoderna, comunque già ne Le città invisibili sono visibili caratteri propri del postmodernismo, nel quale si avvia e sviluppa una riflessione profonda sui linguaggi, riflessione che lo scrittore fa propria, sia prima che dopo il suo ingresso nell’OuLiPo; Calvino, nei suoi anni francesi, riflette sull’apparente onnipresenza dei linguaggi che sono pervasivi in qualsiasi àmbito della vita umana, specialmente nell’età postmoderna in cui lui vive e matura il proprio percorso umano ed esistenziale. I linguaggi sono così onnipresenti da sovrapporsi alle cose che dovrebbero rappresentare, fino a sostituirle: il rischio che il linguaggio cancelli il suo riferente, è una delle cose su cui maggiormente riflettono i membri dell’OuLiPo e non solo.
Ed ecco che prende vita la letteratura come artificio divertente e gioco combinatorio, tra pastiche e ibridazioni, commistioni di generi letterari diversi e intertestualità, quale tentativo di comprendere la realtà senza pretesa di dominarla, quanto piuttosto di dilettarsi con essa.
Ambedue i succitati Il conte di Montecristo del ’67 (uno nei “racconti deduttivi” di Ti con zero), tanto complesso che lo si è definito “iper-romanzo” (Ciotti, 2023: 168) e che l’autore stesso cita come esempio di giocosa sfida al labirinto (Calvino, 2023c: 220-221), e Il castello dei destini incrociati del ‘69-73 contengono il modello della “rete dei possibili”, quale struttura portante che esprime, in modo poetico, il senso di un tempo plurimo e ramificato nonché di un mondo quale sistema dei sistemi. Ci s’immagini tutta la vertigine dell’infinito e del vuoto che ne consegue, oltre a quel senso di perdita e di mancanza di controllo che, ne Le città invisibili, il Gran Kan vive dentro di sé, contemplando il proprio impero inafferrabile (Milanini, 1990: 127).
È la narrativa del Calvino postmodernista, che si mette alla prova con processi combinatori sofisticati per ricavarne uno schema col quale provare a ricollegare il senso alla materia, le parole alle cose. I lettori che si approcciano a Le città invisibili (come anche a Il conte di Montecristo e a Il castello dei destini incrociati, nonché a Se una notte d’inverno un viaggiatore) si ritrovano di fronte a un testo composto da una cornice che tiene insieme piccoli quadri, racconti e poesie (così Calvino stesso definisce alcuni passaggi de Le città invisibili), quali tasselli di un puzzle che si fa man mano leggibile secondo strategie e percorsi differenti ma validi tutti, come sono valide le molteplici differenti chiavi di lettura del mondo.
Come si evince nelle città narrate dal Polo calviniano, qualsiasi calcolo e processo logico deve tenere conto dell’esperienza soggettiva e personale della persona che calcola e ragiona, giacché l’apporto concreto, materiale e individuale della propria esperienza è sempre determinante per i nostri ragionamenti. Non c’è sensazione che non influisca sui nostri processi intellettuali, anche i più sofisticati. Emblematica, nel capitolo I, è la 1^ delle città della 3^ serie che sono “Le città e i segni”, ossia Tamara, che rappresenta una sorta di manifesto di tutto il libro, cioè il rapporto tra i segni e le cose.
Calvino è, fra le mille svolte del suo animo poliedrico, innanzitutto un romanziere oltre che un saggista, perciò, dallo schema combinatorio che lui si ricava, trae una vera e propria narrazione, che mira a entrare in contatto con una platea di lettori la più vasta possibile. E ci riesce, facendo sì che Le città invisibili, come del resto le altre sue opere, sia anello di congiunzione tra l’alta letteratura e i gusti del pubblico, tra la scienza della cultura di un raffinato narratore e la vita quotidiana dei suoi narratari. L’OuLiPo si diletta in giochi linguistici raffinati ma freddi, mentre Calvino, che li osserva per bene prima di entrare a farvi parte, intende elaborare una sfida vera a quel labirinto che è il mondo, partendo da quella materia vivente che sono i nostri vissuti quotidiani, nelle nostre città. Già nel ’62, ne La sfida al labirinto, Calvino tratta di questo; dieci anni dopo, ne Le città invisibili, ci dice che capire le città è necessario per mappare e sfidare il labirinto del mondo, senza però l’assurda pretesa di farne un impero e dominarlo. E mentre s’interroga sul mondo, Calvino s’interroga pure sulla propria soggettività, su di sé, proiettando un intero universo interiore costellato di ricordi, inquietudini e sensazioni sulle città che visita e vive, tanto che le sue sensazioni interne riescono ad alterare persino la sua percezione delle geometrie urbane che incontra. Questo emerge chiaramente ne Le città invisibili.
Quest’incontro dunque tra il calcolo sofisticato della logica combinatoria con l’esperienza soggettiva e interiore dell’individuo (non solo Calvino narratore, ma anche il lettore narratario, si diceva), ha fatto sì che Le città invisibili sia entrato subito tra i classici della contemporaneità, capace di bussare al cuore dei suoi lettori e dialogare con loro. Non a caso, sebbene la più postmodernista delle sue opere, quella che effettivamente introduce il postmodernismo in Italia, sia Se una notte d’inverno un viaggiatore del ’79, in realtà Calvino stesso fino alla fine dei suoi giorni riterrà sempre Le città invisibili la sua opera più completa, quella che maggiormente racchiude ed esprime in forma narrativa la sua ricerca umana ed esistenziale. Lo scrive nell’85, nelle postume Lezioni americane, poco prima di morire.
Infatti Le città invisibili arriva in un momento della vita di Calvino in cui la sua profonda riflessione dentro di sé sulla città, riflessione avviata da anni nei suoi numerosi viaggi, giunge a un punto di arrivo. Influenzato dal lavoro del succitato Barthes sulla semiologia e dallo strutturalismo filosofico, nonché dalle istanze dell’OuLiPo, la riflessione dello scrittore verte sull’esperienza umana quale realtà fatta di segni e simboli da contestualizzare. E allora, se la realtà è sempre segno di altro e se tutto ciò che vediamo è segno, ecco che, se si vuole conoscere il mondo, occorre conoscere il sistema dei segni attraverso cui il nostro mondo parla. E la convenzione più comune al mondo, fra tutti i sistemi di segni in cui siamo immersi, è certamente la città. Ogni insediamento urbano, nessuno escluso, è carico di cultura e segni, la sua costruzione in sé già ci parla della condizione della civiltà in quel dato contesto storico e geografico. Ogni città è espressione e simbolo, e Calvino ne usa il concetto per spiegare con questo romanzo ciò che, in quel dato momento della sua vita, raccogliendo tutti i suoi appunti cartacei nonché pensieri maturati, è arrivato a concludere. Inoltre, con la sua poetica, Le città invisibili è certamente un atto d’amore di Calvino, una dedica appassionata alla civiltà, ossia ai nostri tentativi, in una perenne corsa contro il tempo fra chronos e kairós, e fra le mille possibilità di tutte le nostre opzioni, di dare forma al mondo e porre un freno, per quanto possibile, allo sfacelo dei secoli.
È così che, con Le città invisibili, dona alla contemporaneità un classico che splende per la chiarezza dello stile, la precisione delle costruzioni immaginifiche e la capacità di rendere visivamente ogni dettaglio delle sue città che pur egli definisce “invisibili”, città che possono esistere solo nella fantasia eppure si fanno sentire, dentro il narratario, vere e vivide. Che sia utopia o distopia, una realtà immaginaria quale una città inventata deve suonare verosimile, plausibile, e così riesce Calvino con queste città immaginarie. Dalle 55 città raccontate dal giovane Polo al potente Kan, trasuda la volontà educativa di Calvino, che credeva nella capacità della narrativa di stimolare costantemente la riflessione sulla realtà in cui si vive, sulle possibilità di conoscerla innanzitutto, e poi di renderla migliore, dato che la nostra realtà non è né la migliore possibile né quella necessaria, ma solo una delle tante possibili. Occorre imparare a preservare, in mezzo al nostro inferno, ciò che inferno non è.
La narrativa può essere umile sfida al labirinto, senza la pretesa di domarlo ma senza neanche la volontà di cedere a esso, perché il labirinto può essere percorso, conosciuto, attraversato e persino apprezzato. La narrativa, dunque, può essere una risposta, tanto umile quanto coraggiosa, alla difficoltà di tutti nel destreggiarci in questo labirinto immenso che è non solo il mondo in cui viviamo, ma in effetti anche la nostra stessa vita.
Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025
Riferimenti bibliografici
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Barenghi M., “Nota al testo”, in Calvino I., Mondo scritto e mondo non scritto, Mondadori, Milano 2022: V-VII.
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Claudio Gnoffo, dottorando in “Scienze Umanistiche” presso l’Università degli Studi Guglielmo Marconi di Roma e cultore di “Storia dell’Arte Medievale” presso l’Accademia di Belle Arti di Palermo, è stato coordinatore nel 2022 del convegno internazionale “Realtà mediali. Sociologia, semiotica e arte negli immaginari e nelle rappresentazioni” e co-curatore del 1° volume tratto da esso, Realtà mediali. Medialità, arte e narrazioni, per UniPa Press; è inoltre autore di diversi articoli scientifici, fra cui, con regolarità dal 2019, per “Le nuove frontiere della scuola” de La Medusa Editrice.
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