di Antonino Cusumano
La nostra lingua tracima di frasi fatte, di parole consumate. I nostri pensieri sono irretiti e impigriti da luoghi comuni, da facili conformismi e mimetismi convenzionali. Se così non fosse, avremmo avuto le menti abbastanza aperte per capire cosa stava succedendo nel Nord Africa, quali sommovimenti si preparavano, quale formidabile e irresistibile mobilitazione di forze umane stava facendo irruzione nella storia del mondo. L’Occidente e la sua scienza si sono ancora una volta trovati impreparati e impacciati davanti a un fenomeno di cui non sono stati percepiti i segnali premonitori, le scintille dei mille fuochi in procinto di divampare.
È sempre così, le rappresentazioni che ci fingiamo finiscono con l’oscurare la realtà, col cancellarla. Ci siamo inventata l’immagine di un mondo arabo immutato e immutabile, attardato nel suo eterno fatalismo e nel suo irriducibile integralismo. Abbiamo indugiato compiaciuti su un’idea dei popoli arabi rassegnati e negati ad ogni forma di democrazia. Abbiamo perfino costruito la teoria dell’incompatibilità dell’Islam, in quanto tale, alle regole elementari del pluralismo e della modernità, sulla base della generale e generica convinzione che sovrappone e identifica in tutti i Paesi arabi religione e politica, precetto coranico e codice civile.
Rischiamo oggi di guardare a quel che sta accadendo nel Maghreb e nel Medio Oriente con gli strumenti ideologici dei nostri modelli culturali, secondo schemi e traiettorie valutative che appartengono alle nostre categorie storiografiche. Così la primavera araba è stata letta da alcuni come un 1848 di memoria risorgimentale, come se preparasse la nascita di nuove patrie, di nuove nazioni. Altri osservatori hanno richiamato il 1968, la stagione delle libertà e dei diritti invocati e celebrati dai giovani europei. Altri infine hanno associato le sollevazioni popolari di Tunisi, del Cairo, di Bengasi e di Damasco al 1989, alla caduta del muro di Berlino e al crollo dell’Impero comunista. Non mancano in tutta evidenza coloro che leggono queste vicende con il sospetto e il terrore di una deriva fondamentalista, di un rigurgito islamista.
La verità è che ci sfugge il senso dei fatti se non ci rendiamo conto che le rivoluzioni non sono mai eventi che si concludono con esiti già scritti, definitivi e indolori, privi cioè di contraccolpi e arretramenti, riflussi e termidori, dal momento che appartengono all’irrompere trionfante e sanguinario del carro della storia. C’è probabilmente qualcosa di condivisibile nelle ipotesi che riconducono le cause dei movimenti popolari in corso alla straordinaria concomitanza di fattori incendiari, quali la gravità della crisi economica, l’insopportabilità dei corrotti e repressivi regimi autocratici, la vastità della disoccupazione giovanile. Tuttavia, se è vero che la storia di un popolo non può essere pienamente compresa solo attraverso le dinamiche delle strutture demografiche, sociali e produttive, non possiamo fare a meno di assumere nelle nostre analisi i fatti culturali, i sistemi simbolici di riferimento, la dimensione antropologica delle esperienze collettive. Se così è, allora entrano nel nostro discorso considerazioni che riguardano i fermenti di teorie e di idee, le posizioni degli intellettuali, gli orientamenti dell’opinione pubblica, la forza di penetrazione dei media, e quanto scorre invisibile e impercettibile nelle vene carsiche delle società musulmane. Vi ritroveremmo probabilmente le parole di Samir Kassir, lo studioso libanese, assassinato nel 2005, che ha scritto della «infelicità araba» fondata sul diffuso sentimento dell’impotenza a colmare lo scarto esistente tra il glorioso e ineguagliabile passato e lo squallido e mortificante presente. Dovremmo fare i conti con le illuminanti intuizioni di Fatima Mernissi, sociologa marocchina, che da diversi anni s’interroga sulle responsabilità dell’Occidente nella perpetuazione dei regimi islamici autoritari ostili alle donne e ai loro diritti. Né si dimentichi che per decenni i rais arabi hanno occultato le loro tirannie convogliando la rabbia popolare contro gli Usa e Israele. A guardar più da vicino quelle società, «non è la religione – precisava la studiosa già nel 2001 – la forza-chiave che configura il mondo arabo, ma la tecnologia informatica»: le Tv satellitari indipendenti come al-Jazira, le reti internet a cui accedono soprattutto i giovani e le donne, hanno contribuito a costruire formidabili ponti di informazioni, legami affettivi tra comunità disperse, orizzonti nuovi di conoscenza del mondo e di coscienza di sé.
Non è senza significato che siano i diritti delle donne ad essere al centro dell’attuale scontro politico ed è sul loro riconoscimento che si gioca buona parte della battaglia tra conservatori e riformatori, tra pregiudizi e democrazia. Sono state le donne a presidiare Piazza Tahrir al Cairo, a mobilitarsi contro i salafiti a Tunisi. E non è un caso che siano i giovani e le donne gli agenti motori dei mutamenti in atto sulla sponda meridionale del Mediterraneo, che siano proprio loro le componenti vitali e maggioritarie degli imponenti flussi dell’immigrazione maghrebina in Europa. Ecco perché, se vogliamo davvero cogliere il senso – la genesi e i possibili sviluppi – delle rivoluzioni arabe che hanno epifanicamente spezzato le incrostazioni di un lungo stato di immobilità politica e con esse le spirali perverse dei radicati stereotipi occidentali, dobbiamo forse rovesciare la prospettiva, ribaltare il cannocchiale, osservando quei fatti attraverso le vicende migratorie, le storie di vita di quanti abitano e lavorano nelle nostre città, dei tunisini e dei maghrebini, delle loro famiglie che con i loro progetti esistenziali, le loro scelte pragmatiche e i loro comportamenti pubblici e privati ci aiutano a capire quel mondo di speranze e di aspettative che si dibatte e si agita al di là del Canale. Un certo strabismo ideologico ci fa vedere l’immigrazione come nefasta conseguenza dei disordini popolari o addirittura come una sorta di cavallo di Troia per la penetrazione dell’islamismo. Ci impedisce di considerarla come cartina di tornasole di quei movimenti culturali che hanno preparato e oggi dispiegano gli attuali profondi sommovimenti politici e civili.
Se conoscessimo meglio la realtà umana e sociale della comunità maghrebina che sta sotto i nostri occhi, avremmo da tempo capito che, pur tra contraddizioni ed esitazioni, non è più la religione a muovere i destini delle popolazioni arabe ma sono le parole che appartengono al lessico civile, all’alfabeto della globalizzazione dei diritti, alla semantica delle moderne democrazie. Libertà gridano gli insorti di Tunisi e di Rabat, libertà cercano i figli degli immigrati, le giovani donne che in Sicilia si battono attraverso il lavoro per affrancarsi da minorità tradizionali e pregiudizi secolari. Rimossi i quadri del presidente Ben Alì, le gigantografie che accompagnavano le bandiere nazionali sulle pareti delle scuole arabe di Mazara e di Palermo, destituiti i responsabili dei circoli ricreativi che erano anche i segreti e occhiuti gendarmi del vecchio regime poliziesco, in parte liberati dal clima di sospetti e di paure che pesava sulla collettività ad opera di una fitta rete di delatori politici, i tunisini della Sicilia hanno mostrato immediata esultanza e solidarietà nei confronti degli insorti, attraverso manifestazioni pubbliche nelle piazze e appassionate testimonianze nei social network.
Non abbiamo probabilmente ancora piena consapevolezza del fatto che sta crescendo dentro le nostre città una seconda generazione di giovani figli di immigrati che nati in Italia studiano, lavorano, imparano e si preparano a diventare cittadini, in mezzo a tante ambivalenze ed incertezze. Sentono di essere diversi dai loro padri e pure diversi dai loro coetanei italiani, adolescenti che chiedono indipendenza e autodeterminazione restando fortemente legati alle famiglie, alla rete normativa delle tradizioni culturali. Per certi aspetti sembrano trovarsi a loro agio tra diversi contesti identitari, riconoscendosi in una elaborazione cumulativa piuttosto che sostitutiva di simboli e valori. Le donne, le madri sono, in questo processo e in questo scenario, attive protagoniste, impegnate a costruire, entro gli spazi domestici e comunitari, un prezioso sistema di relazioni e di mediazioni; a gestire equilibri spesso precari, nel tentativo di dare risposte convincenti alle attese e ai progetti dei figli, nel rispetto dei codici di riferimento etnico in cui continuano fermamente a credere. Molte di esse vivono l’esperienza migratoria come orgogliosa manifestazione di affermazione personale, come leva di emancipazione e di appropriazione di poteri nuovi e di nuovi ruoli di responsabilità.
Nelle scelte di queste donne e nelle sfide esistenziali dei loro figli sta probabilmente il nodo centrale del destino umano e culturale non solo di questa immigrazione ma anche delle nostre stesse città, del loro profilo demografico e antropologico. Soprattutto dalle donne e dai giovani dipenderanno infine anche le sorti dei Paesi della riva sud del Mediterraneo, oggi generosamente mobilitati contro ogni forma di ritorno al passato, per la costruzione di nuovi orizzonti politici.
A guardar bene, oltre lo sguardo dell’effimera contingenza, ogni uomo che arriva a Lampedusa non è soltanto un clandestino ma l’epigono di un pendolarismo plurisecolare, l’avamposto di una nuova Europa, il precursore della storia che si sta scrivendo, anche senza di noi, anche contro di noi. Ecco perché tra gli immigrati che cercano l’Europa in Sicilia e i maghrebini che hanno rovesciato i loro vecchi governi e si battono contro i tetri becchini islamisti c’è una storia comune di speranze e di disperazioni, un filo lungo e tenace steso sul mare, un’umanità in bilico sul Mediterraneo che il cinismo occidentale ha trasformato in una terribile foiba.