di Tommaso India
Io ho una coppia di amici. Sono persone deliziose, amabili, gentili. Persone colte, che hanno letto e studiato; hanno visto un buon pezzo di mondo. Certo, hanno anche dei difetti, ma assolutamente trascurabili almeno per il livello di conoscenza che io ne ho. Hanno anche un bimbo di tre anni. Intelligentissimo. Riesce a comporre i puzzle, di cui è appassionato, anche al contrario, senza guardare le immagini, ma muovendosi agilmente fra le forme sinuose dei pezzi.
C’è solo un problema. Abitano in via Mariano D’Amelio a Palermo. Non che sia un difetto in sé. È solo che ogni volta che li vado a trovare cerco con gli occhi il luogo. In genere, se c’è posto, parcheggio la mia auto in strada, proprio sulla via in questione e appena sceso dall’auto, senza che me ne renda conto, comincio a guardarmi intorno. I miei occhi continuano a muoversi alla ricerca del luogo preciso, del palazzo una volta divelto e che, immagino, abbiano negli anni sistemato. Cerco la porzione di marciapiede su cui trentuno anni fa c’erano i corpi dilaniati e le lamiere contorte delle auto fatte a pezzi. Dopo qualche secondo m’accorgo di questa mia inquietudine e allora cerco di distogliere lo sguardo, anzi di placarlo e, insieme allo sguardo, il pensiero.
Salgo in casa dei miei amici e ci sono i saluti e i convenevoli del caso, gli scherzi e i giochetti con il piccolo e poi… Guardo verso il balcone della cucina e di nuovo il pensiero si insinua nella testa e mi chiedo “Ma dov’è stato? Magari se m’affaccio al balcone e guardo giù da un’altra prospettiva capisco qual è il palazzo!” Allora, quasi sempre, con fare indifferente trovo una scusa futile per affacciarmi al balcone, ma non posso rimanere lì per molto tempo, non vorrei che qualcuno si accorgesse che sto cercando qualcosa. È come se un senso di vergogna mi assalisse perché cado in uno stereotipo culturale becero. Ma perché uno che si reca in via Mariano D’Amelio dovrebbe essere interessato a vedere il posto preciso dove tutto è successo? Sento che un senso di morbosa curiosità mi assale tutte le volte che vengo qui e mi giudico come persona bieca e grossolana come tutti quelli che fanno del turismo nei luoghi delle tragedie più immani, nelle case dei serial killer e roba del genere. Per lo stesso motivo, non oso chiedere ai miei amici se per caso conoscono il punto esatto del luogo. Eppure non resisto.
Oggi sono tornato a casa, ho acceso il pc e su internet ho cercato: via D’Amelio 23 luglio 1992. Immediatamente mi sono accorto che in questa ricerca c’era qualcosa che non andava. Ma cosa? Certo, la data! Il giorno 23 di un altro mese, quello di maggio, dello stesso anno è successo un altro fatto, in un altro luogo, che tuttavia è immediatamente riconoscibile e individuabile perché ci hanno costruito un obelisco sul bordo dell’autostrada. In via Mariano D’Amelio, no. O almeno credo, visto che provo un senso di vergogna a mettermi a guardare in giro per la via. Correggo la data sul motore di ricerca e scrivo: via D’Amelio 19 luglio 1992. Clicco su invia e poi sul tasto immagini. Ne scorro qualcuna e ingrandisco una di quelle che si conoscono di più, che da anni girano per i giornali e i telegiornali ogni volta che si parla del 19 luglio 1992 in via D’Amelio a Palermo. La foto ha due colori dominanti. Nella parte superiore, ciò che emerge è il marrone della facciata del palazzo, in basso invece vi è il grigio. Quello dell’asfalto e quello di alcune auto divelte e bruciate dall’esplosione. Su questa parte della foto emergono dei punti rossi. In particolare, un camion e un rimorchio dei vigili del fuoco al centro, in basso un’auto con soltanto il cofano mezzo bruciato e poi, sulla destra un’altra auto con i vetri frantumati.
In realtà i vetri frantumati, le schegge, sono ovunque tranne che nei posti dove stanno in genere. Se si guarda la facciata del palazzo, nella foto si vede che le finestre sono buchi neri, senza nessun filtro. Qui i vetri sono tutti saltati via nell’esplosione. Molte finestre, soprattutto quelle dei primi piani, hanno i telai staccati. Al piano terra il palazzo è completamente sfondato. Tre aperture senza porte né usci e poi le crepe e i muri crollati dei primi tre piani del palazzo, dello stesso palazzo dove abitava la madre.
Bianche sono le macerie, la polvere, i blocchi di tufo sistemati da un caos violento ed improvviso. Sembra vomito di un potere irresistibile, sembrano le viscere di un corpo marcio fuoriuscite dalle bocche del palazzo. Sembra una storia che si ripete senza tempo né luogo, un rito sacrificale che l’umanità esige per essere ancora umanità. È la polvere della morte.
Poi ci sono i capannelli di persone. Puntini colorati di bianco, giallo, porpora, violetto. Un gruppo di persone in fila indiana sembra dirigersi verso una delle aperture del palazzo. Ma come si fa a ritornare dentro quell’edificio? Forse sono inquilini che ritornano nelle loro case. Ma come si fa a stare in casa se in casa t’hanno portato guerra e morte? Eppure questa, ritornare e stare in casa, era la loro unica possibilità non per vivere o sopravvivere ma per affrontare una crisi della presenza schiacciante e tangibile. Altre persone si trovano al centro della strada, in piccoli gruppi parlano fra loro, alcuni guardano verso il palazzo, altre, invece nella parte opposta. Parlano. Sanno? Non sanno? Non ha alcuna importanza sono gli attori, le comparse e gli aiutanti della morte. Tentano di normalizzarla e di rassicurare lo spettatore. È come se piano piano ritornassero a popolare un mondo in frantumi. Sono come piccole amebe che, venendo fuori dal brodo primordiale, vogliono dire che può esserci ancora vita.
Infine, c’è un ragazzo. In basso, nella foto, davanti a quattro macchine distrutte. Indossa un paio di jeans, una camicia verde e ha una testa piena di capelli neri. Il braccio sinistro sorregge il destro e la mano di quest’ultimo è all’altezza della bocca del ragazzo. Mi dà le spalle e guarda tutta la scena. Non sappiamo cosa ci faccia lì, chi sia, cosa provi. Se sia attonito o semplicemente curioso lascia deciderlo a me. E io spero disperatamente che quel ragazzo sia incazzato, che covi rabbia e furore e che sia il condottiero di una riscossa, che sia la stella da seguire nel momento più buio. Quel ragazzo in camicia verde e jeans, con la mano alla bocca silente e pensieroso mi fa venire le lacrime agli occhi perché so che non è nulla di tutto questo.
Nella foto mancano tante persone. Mancano tutti quelli che, nelle istituzioni, hanno permesso tutto questo; mancano quelli che hanno ideato, progettato e organizzato tutto questo; manca quello che ha trafugato l’agenda rossa già lontano quando la foto che guardo è stata scattata. Mancano tutti quelli che ad ogni funerale di morti ammazzati sono sempre presenti. Nella foto manco io e manca mio padre. Dov’eravamo noi il 19 luglio 1992?
Io avevo nove anni appena compiuti e se sei nato in un paese dell’entroterra palermitano non sei al mare, ma in campagna. Ed era lì anche mio padre e c’era tutta la nostra famiglia che aveva organizzato uno schiticchio con amici e parenti. Alle 16:59 del 19 luglio 1992 eravamo tutti fuori ad ascoltare la radio e ballare e poi tutto s’è fermato. Non ricordo le parole del cronista per quanto mi sforzi. Non ricordo la voce, non ricordo nulla. Ricordo soltanto che quella fu la prima volta che vidi piangere mio padre.
Lo sportello dell’auto aperto, la radio accesa. Egli stava con un gomito poggiato sul tettuccio della nostra Fiat 128 e con l’altro sullo sportello. Ascoltava la notizia del botto e gli occhi gli si riempivano di lacrime. Mi guardava, ascoltava e, senza sussulti o movimenti, piangeva. Un pianto silenzioso e arreso. Io, a nove anni, ho visto mio padre piangere. Questo è il 19 luglio 1992 per me: la consapevolezza che anche un adulto può sentirsi sconfitto, umiliato, sacrificato e può piangere. È la consapevolezza della fine dell’infanzia e l’inizio di un periodo travagliato fra ormoni impazziti, grandi e piccole tragedie, verità depistate e insabbiate. È l’inizio di un vortice silenzioso eppure presente. Il mio 19 luglio 1992 sono i ragazzi in strada e le lenzuola bianche ai balconi. Sono le fiaccolate e l’impegno nello studio per sapere i perché e i per come. È la stanchezza e la fatica atavica che tramandiamo di generazione in generazione.
In via Mariano D’Amelio ci abita una coppia d’amici con il loro piccolo ed intelligentissimo figlio. Li vado a trovare e tutte le volte con gli occhi mi guardo intorno alla ricerca del luogo della strage. Anche adesso, dopo aver guardato e riguardato quella foto per individuare il luogo dell’attentato, quel senso di inquietudine non mi lascia. È come avere una scheggia, una di quelle schegge di vetri in frantumi, conficcata nella coscienza. Solo adesso, dopo trentuno anni, capisco che forse il 19 luglio 1992 è una scheggia conficcata nella coscienza di tutti noi.
Dialoghi Mediterranei, n. 62, luglio 2023
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