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La figura dell’antropologo: writer or talker?

copertinadi Sara Raimondi

«Cosa fai nella vita?» questa è forse una delle domande più frequenti per un antropologo, poiché questo mestiere appare poco chiaro e non praticato. Rispondendo «Faccio l’antropologa» mi trovo di fronte a sguardi interrogativi e si susseguono ulteriori domande «Quindi studi i primitivi?» o «Quindi aiuti chi fa gli scavi?». Ma come mai il mestiere dell’antropologo è così poco conosciuto? Perché, nonostante il suo mestiere così sfaccettato e pratico, l’antropologo rimane una figura nascosta? Quali sono i motivi che tengono questo mestiere così legato al mondo accademico e, quindi, distante dagli altri settori della vita sociale? In questo articolo cercherò di analizzare questa professione proprio a partire da uno dei suoi principali prodotti: il testo. Infatti, seguendo le parole di Clifford Geertz (1998:12), l’etnografo tiene un diario, ricostruisce genealogie e mappe, trascrive testi; perciò come ha intuitivamente riassunto Helena Wulff: «What does the ethnographer do? – He writes!» (Wulff, 2016:1). Questo scrivere non è semplicemente un atto manuale, diretta riproduzione di eventi culturali altri. Al contrario, lo scrivere è, già dagli albori della scienza antropologica, oggetto di riflessioni, delimitato da tecniche e consuetudini. Al contempo, però, questo atto dello scrivere e la sua metodologia hanno provocato una sorta di chiusura della pratica antropologica che è passata dall’essere un’attività se non celebre, almeno conosciuta ai più, all’essere un mestiere semi-sconosciuto.

Come è noto, l’antropologia è nata tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento sotto la spinta del pensiero positivista. Se all’inizio era praticata dagli armchair anthropologist (Fabietti, 2000: 98), successivamente fu il periodo dell’Etnografo solitario (Rosaldo, 2001:71): lo scienziato che andava in luoghi lontani e vi risiedeva lungamente cercando di coglierne la cultura nativa. Gli studiosi di questo periodo, durato per molti decenni, praticavano un’antropologia che doveva assimilare le tecniche delle scienze dure, ricreare esperimenti e presentare poi teorie solide, ben dimostrate e globali. Uno di questi etnografi solitari fu Franz Boas che grazie alla permanenza prolungata presso i Kwakiutl raccolse un’enorme quantità di dati proprio nella speranza di “fotografare” attraverso le monografie popoli che sarebbero inevitabilmente scomparsi. Un altro importante etnografo solitario fu certamente Bronislaw Malinowski, teorico del funzionalismo e celebre fondatore della nota formula dell’osservazione partecipante. Già nell’introduzione della sua opera più conosciuta descrive l’etnografo come scienziato-interprete della cultura indigena (Malinowski, 2004:11), come un biologo che seziona la società considerata alla stregua di un organismo perfettamente funzionante. Negli anni Trenta si susseguirono poi due principali modelli: il culturalismo americano e lo struttural-funzionalismo britannico. Gli antropologi cercavano di osservare il rapporto cultura, struttura sociale e comportamento individuale sempre attraverso un atteggiamento top-down, dove l’occhio europeo studiava dall’alto il mondo nativo. Sono comunque gli anni in cui i testi degli antropologi sono particolarmente conosciuti anche dalla società di massa: testi letti non solo all’interno del mondo universitario.

L’idea di un’organizzazione sociale perfetta, sempre funzionante, osservabile attraverso i dispositivi intellettuali dell’antropologo, resistette per lungo tempo generando numerose teorie. Ma la rivoluzione culturale degli anni Sessanta e Settanta travolse anche l’antropologia che venne investita da quella che viene chiamata la crisi della rappresentazione (Marcus e Fisher, 1994: 45), iniziata a tutti gli effetti alla fine degli anni Settanta. Le metodologie di lavoro antropologico vennero messe in discussione una dopo l’altra, lasciando un intero campo accademico incerto e a disagio rispetto ai propri obiettivi di ricerca.

«Un’inquietudine diffusa e tangibile mette oggi in discussione alla radice la pretesa di spiegare gli altri e la loro enigmatica alterità sulla base del fatto che siamo stati a contatto con loro nel loro habitat o di aver passato al setaccio gli scritti di coloro che ci sono stati» (Geertz, 1990: 140).

L’antropologo è stato obbligato a riflettere sulle sue metodologie di lavoro e sul risultato finale che presentava: il testo doveva essere ripensato necessariamente. Infatti, per la prima volta l’osservazione partecipante e il suo prodotto testuale non erano più riconosciuti come luogo di produzione di verità e, come ha affermato Tedlock (1991), l’attenzione si spostò «from participant observation to the observation of participation». I punti cardine di questa critica furono numerosi come anche le sfaccettature con cui vennero affrontati; qui descriveremo gli aspetti più salienti del terremoto affrontato dall’antropologia durante la fine del XXI secolo.

FOTO1Il primo punto tra i tanti fu l’erronea assunzione positivistica per cui l’uomo occidentale era da ritenere l’unico detentore del sapere intellettuale e della capacità di osservazione per valutare le culture altre efficacemente. L’idea per cui un etnografo preparato dal mondo accademico potesse concretamente iscrivere un popolo all’interno di un sistema di teorie e quindi all’interno di un testo etnografico venne meno grazie alle dirompenti analisi di autori come James Clifford, Edward Said e Michel de Certeau. Il nodo cruciale affrontato in primo luogo da questi intellettuali fu quello di confutare il proliferare degli –ismi: le comunità descritte dagli antropologi diventavano essenze a-storiche, ridotte a fantocci non inseriti all’interno del sistema-mondo. Ritualità, mitologie, costumi sociali raccolti durante il campo venivano utilizzati per intrappolare le identità dei BaNande, dei Samoani, degli Andamani e così via entro rigidi schemi di rappresentazione sempre uguali a se stessi e sottratti alle dinamiche della storia mondiale. Questo modalità eccessivamente sincretica di fare antropologia non faceva altro che appiattire e deprivare l’esperienza umana della ricerca, fatta anche di casualità e coincidenze: il resoconto dell’etnografo sul campo era lo specchio della sua sensazione di essere in quel momento fuori dal tempo, in uno spazio dove il veloce correre della modernità sembrava essersi interrotto (Clifford e Marcus, 2001:160).

Anche Edward Said, coniando il termine Orientalismo, scrive di un Occidente che rappresenta gli altri come entità: Orientalism è quel particolare rapporto che si è venuto a creare tra un Occidente moderno, intellettuale e bianco versus un Oriente esotico, ricco di stranezze ma anche luogo delle fantasie e dei racconti di avventura. L’India, l’Asia, il Medio-Oriente dal tempo di Napoleone, il quale cercava di raggiungere l’estremo Est nelle sue conquiste, sono il topos pre-romantico e pre-tecnologico dove la civiltà non è ancora stata uccisa dalla velocità del mondo moderno (Said 1991:125). Said ammonisce che

«idee, culture e vicende storiche non possono venire comprese se non si tiene conto delle forze storiche, o più precisamente delle configurazioni di potere, che ad esse sono sottese» (Said, 1991: 8).

Questo porta con sé un altro punto fondamentale: il ruolo di dominio politico che per molto tempo l’Occidente ha avuto nei confronti delle medesime popolazione che intendeva studiare. Ciò comportò necessariamente l’annullamento della pretesa di neutralità che si diceva essere associata allo sguardo dell’etnografo. Come infatti sottolinea De Certeau, la stessa scrittura dell’altro, il raccontare la sua diversità e renderla argomento di conoscenza è espressione della volontà di dominazione dell’Occidente, «la messa da parte della teoria è un gesto scientifico indissociabile da un gesto storico più globale» (De Certeau, 2005:17). In conclusione, è impossibile considerare il testo etnografico al pari di una relazione scientifica, al contrario esso è un’imponente forma di controllo anche temporale: suppone una chiusura degli avvenimenti interessanti, chiusura che in realtà è assente. La vita nei villaggi prosegue, muta, si relaziona con un esterno anche dopo che l’antropologo è tornato tra le mura della sua università. Inoltre non dobbiamo dimenticare il dilemma della «non riproducibilità dei fenomeni osservati» (Pavanello, 2010:115): l’etnografo si troverà a descrivere minuziosamente un evento la cui struttura e le cui conseguenze non saranno in nessun caso nuovamente riproducibili, poiché le condizioni socio-economiche e personali dei protagonisti quanto del ricercatore non si ripresenteranno.

L’inserimento del testo etnografico nel movimento storico non porta solo ad un atteggiamento di sfiducia nei confronti dell’uso del presente etnografico (tutt’oggi utilizzato ma più consapevolmente), ma viene constatato per la prima volta quanto le questioni politiche, identitarie e socio-economiche globali abbiano un valore concreto nell’attualità vissuta dei nativi. Ne è un esempio il testo di Sally Falk Moore, Antropologia e Africa, in cui si cerca di osservare questo grande continente anche come sede di conflitti di potere coloniale e lotta per l’indipendenza politica.

foto2Negli ultimi decenni del Novecento la monografia dell’antropologo non è semplicemente la raccolta sincronica di un certo numero di elementi culturali, giustapposti e concatenati al fine di sviluppare una struttura autoportante. Al contrario, si scrivono e si editano testi che mostrano l’avanzare della storia, la tragicità degli effetti del colonialismo, della tecnologia e dei mercati globali anche in quegli angoli di mondo che solo vent’anni prima si consideravano inamovibili dalla loro tradizione. L’atteggiamento però non deve essere solo quello nostalgico assunto da Lèvi-Strauss in Tristi Tropici: è un errore cristallizzare le società del mondo in calde e fredde, rimpiangendo un primitivo rapporto solidale con la natura rispetto ad una modernità che rincorre chiunque senza scampo. L’antropologo deve accettare, senza sentimenti romantici, che la modernità che si ostina a non vedere tra i suoi nativi è, effettivamente, il reale e concreto presente di entrambi: dell’osservatore e dell’osservato.

Sempre alla fine del XX secolo l’antropologia affronta per la prima volta anche il valore dell’identità culturale dello scrittore e quindi della sua maggiore o minore autorità: compaiono i primi antropologi indigeni. È il caso di Américo Paredes, citato da R. Rosaldo (2001: 97-98), il quale critica i lavori etnografici sui messicani e i chicanos, riportando casi di incomprensione del contesto e traduzioni mal fatte. Da quel momento, ogni etnografo sarà sempre inquieto e pensieroso, turbato dalla sua stessa presenza sul campo, dalla sua autorevolezza come ricercatore che potrebbe essere messa in discussione proprio da quelli che sono gli oggetti stessi della sua ricerca. Chi davvero è in grado, ad esempio, di descrivere una comunità a Bali: un antropologo statunitense che ha seguito le orme di Clifford Geertz e che ne conosce ogni testo? Un antropologo indiano che può confrontare la propria religione e quella dei balinesi con uno sguardo distante ma consapevole? O forse un balinese stesso? E chi ne darà la migliore resa testuale senza errori, cogliendo la verità come è senza sovraccaricarla di ulteriori interpretazioni? Ma soprattutto: c’è davvero una verità antropologica?

Una soluzione immediata e che non generi perdite, da un lato o dall’altro del lavoro interpretativo, appare introvabile. Una proposta di fronte a questo scoglio potrebbe essere quella di Vincenzo Matera, il quale espone il valore ermeneutico dell’antropologia linguistica sia nella prassi che nella sua rappresentazione, ovvero sia sul campo che nella scrittura del testo antropologico. Sottolineando la storicità dell’esperienza dell’etnografo egli esprime come necessario

«portare in primo piano l’ordine dell’interazione (e della pratica) [poiché] l’astrazione non è il livello al quale si può raggiugere una conoscenza primaria e privilegiata dell’uomo»(Matera, 2008: 25).

L’autore in questo caso ci ricorda quanto importante sia riportare l’analisi alla dimensione concreta dei rapporti umani, linguistici e non solo, al fine di sviluppare un’antropologia che sia davvero legata al campo.

Ma – per quanto questa metodologia di ricerca superi certamente alcuni degli scogli che il ricercatore incontra nel corso della sua osservazione partecipante – essa non risolve quello che è probabilmente uno dei condizionamenti più limitanti della pratica etnografica intesa nella sua scientificità: la soggettività stessa dell’antropologo. Essa si svelò in tutta la sua forza al momento della pubblicazione dei diari di Malinowski, pubblicati postumi senza la sua approvazione dalla moglie nel 1967. Nelle pagine di questo testo troviamo tutto il non detto dell’esperienza antropologica: la frustrazione di fronte alle incomprensioni con i nativi, il senso di nostalgia rispetto alle proprie abitudini, la voglia di svagarsi e staccare dal lavoro di ricerca. Le parole di quello che è il padre fondatore dell’antropologia moderna mostrano non lo scienziato sempre attento, rigoroso e obiettivo ma il suo lato più umano che si rammarica della lontananza dalla sua donna e che teme pulsioni sessuali verso altre (Malinowski, 1992: 83) fino a confessare di essere «stanco di questi negri» (Malinowski, 1992:111). Il mondo accademico ne rimase ovviamente scosso: con quale pretesa di oggettività era possibile fare etnografia se, evidentemente, pur avendo numerosi strumenti teorici a sua disposizione, lo scienziato era comunque spinto verso altri pensieri, gli stessi di un comune viaggiatore o esploratore?

Malinowsky - Giornale.inddGrazie ai diaries di Malinowsky si chiarì per tutti il forte soggettivismo con cui erano condotte le ricerche. Un soggettivismo che si cercava di nascondere, ma la personalità dell’etnografo – che è pur sempre un individuo, un condensato di pensieri, insicurezze, interrogativi – non poteva rimanere celata per sempre. Infatti, questa vita unica e irripetibile si scontra con il campo provocando uniche conseguenze, eccezionali incastri e coincidenze che non sarebbero avvenuti se il ricercatore fosse stato un altro. Come afferma Mary Louise Pratt (2001: 65-66): «La ricerca sul campo genera un tipo di autorità che si basa in massima parte sull’esperienza soggettiva e sensoriale». Io stessa, come etnografa sul campo, non posso negare che il mio essere donna minuta, dai lineamenti che si associano a una teenager, abbia notevolmente influito durante la mia ricerca, nel relazionarmi con i parenti dei dolenti. Per molti anziani, neo-vedovi, come anche per le figlie e nipoti, era più facile aprirsi con me, in quanto donna, considerata “culturalmente” predisposta all’ascolto rispetto ad un uomo. Un giovane antropologo maschio, fisicamente più imponente, avrebbe dovuto necessariamente relazionarsi in maniera diversa. Quindi, verosimilmente, anche i dati raccolti sarebbero stati diversi e quindi, con molta probabilità, le conclusioni.

La neutralità testuale viene tentata attraverso la creazione di un testo che possa apparire come lineare, obiettivo, che non sfumi mai nel personale e nella soggettività. Geertz scrive appunto che tendiamo ancora a pensare che «i buoni testi antropologici sono testi piani, senza pretese» (Geertz, 1990:10). Sempre Pratt osserva come anche lo stesso Bronislaw Malinowski, pur tentando di operare nella massima scientificità, apre la sua monografia facendo ricorso all’immagine di un naufragio su una spiaggia deserta, mutuando quindi un famoso omerico topos letterario (Pratt, 2001: 72). Sono i medesimi schemi narrativi che vengono ripetuti inconsciamente nelle pagine dell’opera: Said ne fa un lungo elenco nel suo testo Orientalismo. La soluzione è forse quella proposta da Jeanne Favret Saada, quando parla di schize in cui è coinvolto l’antropologo? Così scrive, a proposito di come il ricercatore deve accettare

«di vivere in una specie di schize. A seconda dei momenti deve lasciare la precedenza a quella parte di lui che è coinvolta […] modificata dall’esperienza di campo, oppure a quella parte di lui che vuole registrare questa esperienza, vuole comprenderla, farne oggetto di scienza» (Favret Saada, 2007: 59).

L’etnografo è quindi condannato a una sorta di impossibilità lavorativa per cui, se davvero cerca di comprendere l’altro, si immerge completamente nel suo stile di vita, ne abbraccia i modi di fare, le usanze e ne viene completamente impregnato, rischiando però di non mantenere quella distanza necessaria per osservare il nativo. Ed è proprio Favret Saada che cerca di superare questa situazione duale pubblicando il suo diario di campo, oltre alla monografia, sulla stregoneria nel Bocage. Se il primo testo, Les mots, la mort, la sort, può essere considerato uno studio classico di ricerca antropologica, il secondo Corps pour corps permette al lettore di entrare in quella che è la quotidianità della ricerca, anche nelle sue parti nascoste, private, mostrando apertamente e senza vergogna quella soggettività che ha davvero permesso all’antropologa di partecipare e non solo osservare. Così, leggendo questo diario di campo, veniamo trascinati in un mondo di incertezze e la stessa antropologa finisce con l’affermare di essere non più scienziata neutrale ma anch’essa protagonista di questo mondo fatto di credenze e forze mistiche (Favret Saada, 1981:152). Tanto più che scrive: « Je n’ai pu faire autrement que d’accepter de m’y laisser affecter par la sorcellerie» (Favret-Saada J., 2009:146), proprio a ribadire come il campo possa trascinare l’etnografo in una situazione inaspettata, difficile da gestire e soprattutto, assolutamente lontana dal rigore metodologico al quale si voleva attenere.

FOTO4Ma, nel caso di Favert-Saada, è stato proprio questo suo essere improvvisamente accolta nel mondo della stregoneria, non come studiosa ma come guaritrice, a permetterle di portare avanti la ricerca. È necessario quindi ammettere come l’“io” all’interno del campo, possa essere davvero l’unico ponte da costruire per avviare la comunicazione con i nativi: mettendo tutto se stesso l’etnografo si relazionerà diversamente con i suoi oggetti della ricerca. Auspicabilmente sarà possibile attivare un meccanismo di empatia grazie al quale l’antropologo non fingerà di essere l’altro, sovrapponendosi ad esso, ma cercherà di osservare con lui, comprendendo il suo stato d’animo. E non è solo Favret-Saada a riflettere sul rapporto tra antropologo e nativi e su come questo generi informazioni anche di carattere metodologico. Ne è un esempio il saggio Oltre le parole di Unni Wikan, in cui l’autrice mette in guardia sull’eccessiva concentrazione a ciò che viene detto, dimenticando il fatto che coloro che noi chiamiamo nativi sono persone a tutti gli effetti, con sentimenti umani e, di conseguenza, non per forza così diversi da noi (Wikan, 2009:110). Infatti, durante la ricerca l’abitudine è quella di osservare l’alterità nel nativo, opponendo il suo essere altro al noi rimanendo dipendenti di una retorica interiore che è quella per cui l’etnografo va a caccia di stranezze, di differenti modi di vivere. Non a caso Wikan si è chiesta se non avesse rappresentato i balinesi senza aver colto il loro status di diversità e la risposta è proprio nel concetto di risonanza che si oppone a quello di cultura: «la prima evoca somiglianza, la seconda l’esotico, l’alieno» (Wikan, 2009:127). La risonanza permette di entrare in contatto con il nativo evocando quella che è l’esperienza umana condivisa, limitando l’effetto esoticizzante che a volte, erroneamente e involontariamente, prevale nella ricerca antropologica.

L’altro come eccessivamente esotico, esempio utopico di come l’Occidente vorrebbe essere e, quindi, forzatura ermeneutica, è stato riscontrato all’interno della controversia Freeman-Mead. Derek Freeman, infatti, nel 1983 pubblicò Margaret Mead and Samoa: the Making and Unmaking of an Anthropological Myth, testo in cui criticò aspramente la ricerca condotta da Mead, una indagine generata, sull’insegnamento dei maestri Boas e Benedict, dalla volontà di dimostrare come la cultura modellasse la natura umana e come le norme sociali prevalessero sulla genetica (Freeman, 1996: 281). È indubbio il fatto che il periodo di campo a Samoa svolto da Margaret Mead sia stato influenzato dalle aspettative create precedentemente, ma, come fa notare James Clifford, anche Freeman, volendo criticare la collega, tende a distorcere i dati presentati nella monografia tant’è che potremmo vedere le due opere come una sorta di dittico (Clifford, 2001:151), uno al polo opposto dell’altro.

In conclusione cosa resta dell’antropologia se la resa testuale appare così segnata da difetti, lacune, imprecisioni e così fortemente influenzata da inciampi congiunturali e soggettive interferenze? L’antropologia oggettiva e scientifica dell’inizio del Novecento è diventata pura finzione, una falsa ideologia da cui il ricercatore deve stare lontano. La convinzione di non condizionare il proprio lavoro attraverso il proprio bagaglio culturale e socio-storico è un’idea che stata completamente abbandonata poiché lo scrittore subisce una serie di condizionamenti inconsci e incontrollabili dall’inizio del campo all’ultima riga della sua monografia. La soggettività, da sempre nemico della credibilità dell’etnografo, è diventata ora un’arma a doppio taglio poiché, accettandola come nuovo spunto di riflessione, se portata all’estremo crea ciò che Clifford chiama “surrealismo etnografico” (Clifford, 1993:176), cioè una ricerca totalmente basata su un’esperienza così personale da non essere condivisibile. Continuare su questa strada, costruendo e distruggendo utilizzando gli stessi mattoni teorici – oggettività/soggettività, neutralità/coinvolgimento, approccio olistico/approccio personal focused – sta rallentando il contributo che l’antropologia può portare alla società globale. Come infatti afferma Robert Murphy, un’eccessiva analisi testuale, un soffermarsi sulla cultura come testo che è prima osservata poi tradotta-prodotta, diventerebbe una pratica sterile (Murphy, 2000: 83). Il lavoro dell’antropologo è sì un mestiere di traduzione (Fabietti, 2001:38), un viaggiare tornando con nuove informazioni. Ma, forse, proprio a causa di questa crisi della rappresentazione, a causa di questa insicurezza vissuta costantemente dagli antropologi rispetto alla ricerca, si rischia di perdere un punto chiave del mestiere: la diffusione dei saperi, l’incremento delle conoscenze.

Questo articolo era iniziato con una domanda: cosa fa l’antropologo? E la prima risposta era stata «Egli scrive», con tutte le conseguenze ermeneutiche che ciò ha comportato. Il testo, in particolare la monografia che rimane spesso destinata ad un pubblico di accademici, è stato per molto tempo lo spazio in cui l’etnografo ha riflettuto sul suo lavoro, restituendo molti risultati a livello teorico e metodologico. Ma ciò ha provocato una chiusura in se stessa dell’antropologia, confinata all’interno delle università, dove si sono portate avanti speculazioni dottrinali che hanno fatto slittare in secondo piano quello che era lo scopo primario dell’antropologia: l’impegno a diffondere sapere socio-culturale così come era all’inizio della tradizione antropologica. Il grande privilegio dello sguardo antropologico è la capacità di instillare dubbi rispetto alla certezza rassicurante, è il vedere e gestire la complessità; da ciò ne consegue il dovere di essere un sapere più pubblico. Quindi, seguendo le parole di Thomas Eriksen, l’antropologo dovrebbe lasciare almeno in parte i suoi panni di scrittore per assumere più spesso quelli di talker, che potremmo tradurre come “divulgatore” (Eriksen, 2006: IX), al fine di non rimanere intellettuali che vogliono studiare la società, senza prendere effettivamente parte nella sua costruzione.

Dialoghi Mediterranei, n.22, novembre 2016 
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Sara Raimondi, giovane laureata con lode in Antropologia Culturale ed Etnologia presso l’Università di Bologna, prosegue i suoi studi concentrandosi sui riti funebri nel mondo contemporaneo. Ha partecipato all’annuale conferenza SANT (Swedish Anthropological Association) con il paper A new way of dying: hard science and soft science applied in the study of funeral rites.
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