Abbiamo imparato a chiamare non senza qualche approssimazione “letteratura della migrazione” quella produzione narrativa che ha per autori immigrati stranieri, scrittori testimoni che nel parlare delle proprie esperienze gettano il loro sguardo sulla nostra società e ci aiutano a scoprire ciò che siamo, al di là e spesso a dispetto di ciò che diciamo di essere. Una rifrazione ottica che nello specchio autobiografico dice di noi molto di più di quel racconta di loro. Un prezioso contributo alla faticosa opera di decostruzione di certe rappresentazioni etnocentriche e postcoloniali. Un rovesciamento della prospettiva antropologica che, paradossalmente nella finzione letteraria, dà un nome e un’identità a quelle persone che chiamiamo migranti, e corpo, carne e voce alle loro storie individuali e alle loro umane esistenze.
Alla medesima categoria della letteratura della migrazione occorre tuttavia annettere anche le narrazioni degli scrittori europei che incrociano il loro sguardo con quello dei migranti stranieri e ne raccontano senza ideologie e senza pietismi le concrete vicende, convertite e confluite nelle trame dell’immaginario letterario. Sull’aspro e frastagliato terreno delle storie dei migranti, comunque declinate, si incontrano, si intrecciano e si contaminano dialetticamente – e a volte perfino inconsapevolmente – letteratura e antropologia, e con esse le culture diverse dei soggetti che ne sono gli interpreti. Nelle strategie retoriche della scrittura si mescidano e si sovrappongono i differenti registri linguistici: lo scandaglio etnografico e la introspezione narrativa, l’attenzione per il rilevamento documentario e l’inclinazione alle fughe per immagini, il rigore logico dell’analisi e la creativa empatia dei ritmi descrittivi. Un gioco di sconfinamenti tra il reale e il possibile, tra il dato empiricamente osservato e l’invenzione del mondo raccontato, tra la parola come segno e la parola come metafora. Un incessante e incerto pendolarismo tra il particolare e l’universale.
Su questo sottile crinale si muove lo scrittore che raccoglie le voci dei migranti per restituirne le storie, in una sorta di dialogo ermeneutico tra l’autore e le persone che incarnano i suoi personaggi, uomini e donne coi loro vissuti personali, non astratte figure di lontane culture ma concreti profili di soggetti con le loro debolezze e le loro speranze. Se è vero che in letteratura la narrazione si articola nella strategia del “come se”, nella complessa trama cioè della fabula e dell’intreccio, nel caso della “letteratura della migrazione” il patto convenzionale stabilito con il lettore entra in crisi, dal momento che, aperto il libro, si dispiega il vasto orizzonte di una alterità umana e culturale che evoca ed invoca gli strumenti teorici e metodologici dell’etnografo, così che non si ha piena consapevolezza di quando finisce la letteratura e comincia l’antropologia, e viceversa. Sfuggendo alle categorie dei canoni testuali tradizionali, lo scrittore che narra storie di migrazioni e di migranti finisce col fare ricorso a quella “osservazione partecipante” che costituisce l’ossimoro epistemologico, il dato fondante e costitutivo di ogni ricerca etnografica e della stessa disciplina antropologica.
Tra le opere narrative che più recentemente si sono esercitate su questo difficile versante letterario che ibrida memoria e cronaca, rappresentazione e reportage, spicca per acutezza e profondità di sguardo il libro di Jenny Erpenbeck, Voci del verbo andare, edito da Sellerio (2016). Nella storia che si snoda senza apparente ordito implode il senso profondo, e per ciò stesso affascinante, di ogni emigrazione, il potere di mettere in relazione mondi e saperi differenti, di mettere in comune le vite di uomini e luoghi distanti, di mettere in luce aspetti inediti di identità e realtà. Nulla di più lontano degli urgenti e convulsi problemi dei migranti dalle tranquille abitudini dell’anziano filologo classico in pensione che da protagonista conduce e dipana il filo del racconto, avvicinandosi con curiosità alla scoperta di un’umanità “straniera” e quanto mai estranea alla sua quotidiana routine esistenziale. Nulla di più lontano delle città e dei villaggi sperduti del Ghana, del Ciad, della Nigeria dalla grande piazza del quartiere Kreuzberg di Berlino, da Oranienplatz, dove tutto ha inizio come in un teatro che disvela epifanicamente le ragioni profonde di una Storia che scorre nelle vene carsiche del nostro inconsapevole tempo e irrompe d’improvviso davanti ai nostri occhi.
Tutto comincia in questa piazza, dove sono accampati più di quattrocento profughi che resistono allo sgombero, protestano in silenzio, praticano lo sciopero della fame, chiedono attenzione. Lo studioso che ha insegnato Lucrezio e Ovidio, che conosce a memoria le parole di Esiodo e di Seneca, che ha sempre riempito le sue giornate tra lezioni nelle aule universitarie e ricerche in biblioteche, si ritrova per caso ad attraversare quella piazza, ad incrociare quei corpi assenti e dolenti e l’incontro è un impatto che turba lo sguardo, un inciampo che rompe gli stanchi equilibri, un’emozione che muove qualcosa di nuovo dentro di sé, agita pensieri «che prendono vie traverse». In quella piazza – un paesaggio fatto di tende, baracche e teloni – si radunano anche simpatizzanti dalla pelle bianca, «giovani e pallidi» che
«si tingono i capelli con l’henné, non credono che questo sia un mondo felice e vogliono che tutto cambi, perciò si infilano anelli nelle labbra, nelle orecchie o nel naso. I profughi, invece, vogliono entrare una buona volta in quello che ai loro occhi si presenta in modo abbastanza plausibile come un mondo felice. Lì sulla piazza s’incrociano due generi di desideri e speranze».
A guardar bene, Oranienplatz sembra per certi aspetti evocare la “Piazza universale” descritta dallo studioso cinquecentesco Tommaso Garzoni, un luogo dove sono convocate e si mischiano le lingue più diverse, le voci più eterogenee, le culture più lontane. Tra contraddizioni e malintesi, gli orizzonti esistenziali dei profughi africani e dei giovani europei in quel preciso spazio comunque si intersecano, pur sospinti da storie profondamente diverse e sospesi su traiettorie destinate a divaricare. Jenny Erpenbeck, la scrittrice tedesca, nata da padre di origini russe e da madre polacca, ha la straordinaria capacità di cogliere con efficacia la irriducibile solitudine di chi emigra, i limiti ma anche le potenzialità della solidarietà, la forza del dialogo tra gli uomini quando le parole scendono alla radice dei gesti, quando lo straniero diventa meno straniero.
Conoscere l’altro andandogli incontro è l’impresa antropologica che compie Richard nella sua ricerca di sé e del senso del tempo che gli resta da vivere. Ora che si è congedato dal lavoro e perfino dalla famiglia essendo rimasto vedovo e senza figli, gli è dato scoprire che la vita quotidiana da sempre eguale e prevedibile può essere improvvisamente esposta alle correnti, entrando a contatto con altre vite e altri mondi. Scopre una nuova geografia e la storia capovolta, quella dei colonizzati, quella dei confini tracciati dagli europei, quelle linee diritte sull’atlante che «solo adesso capisce davvero quale arbitrio rivelino». Più in profondità sperimenta la dimensione e il regime di un tempo diverso, di una sua concezione mutilata, sopraffatta com’è da un estenuato e disperato presente. In questo universo umano e culturale Richard s’immerge come l’etnografo che si affida all’osservazione partecipante per penetrare e condividere empaticamente e non solo intellettualmente i pensieri e le pratiche dei richiedenti asilo, che escono dall’ombra indistinta e minacciosa dell’anonimato e diventano Rashid, grande e grosso con una cicatrice sopra l’occhio, Zair, che parla l’italiano, Abdusalam, lo strabico con le treccioline che canta, Ithemba, lo spilungone, tutti originari della Nigeria, e ancora Yussuf, il lavapiatti che è nato nel Mali, Ali, l’aspirante infermiere del Ciad, Awad, il ghanese orfano dalla nascita, Osarobo, diciottenne proveniente dal Niger, che ama suonare il piano, Rufu, il solitario arrivato dal Burkina Faso iniziato alla lettura di Dante, Karon, lo smilzo che sogna di comprare un terreno in Ghana, e tanti tanti altri, ognuno con le proprie storie individuali, con i propri drammi familiari, ma tutti con un comune percorso alle spalle, lo stesso deserto e lo stesso mare, un eguale destino. Sono i sopravvissuti alle guerre, alla fame, all’inferno libico, alla terribile sfida delle traversate, ai tragici naufragi. Alcuni di loro hanno navigato sugli stessi barconi strapieni, la gran parte sono stati soccorsi dalle navi militari italiane, tutti sono approdati a Lampedusa, frontiera salvifica ed estremo avamposto dell’Occidente.
Nel ponte fragile e precario che congiunge l’isola siciliana alla lontana Germania c’è tutto il viatico di una diaspora che assomiglia ad una espulsione, ad una deportazione, ad una fuga di massa dal continente africano spolpato, desertificato, devastato da carestie, conflitti e dittature. Il racconto di questo difficile esodo ha le parole dei profughi che Richard sa avvicinare e pazientemente ascoltare. Rashid narra del padre ucciso nel villaggio prima della sua partenza e dei due figli scomparsi davanti a lui travolti dalle onde del Mediterraneo. «Non so nuotare, dice, ma in un modo o nell’altro sono riuscito ad afferrare un cavo. A volte ero sopra, a volte ero sott’acqua. Sott’acqua ho visto tutti quei cadaveri». Solo il caso fa la differenza tra i sommersi e i salvati, destinati a diventare rispettivamente le vittime da piangere e i clandestini da respingere. «In questo senso ciascuno dei profughi africani che sono giunti qui, pensa Richard, è anche e al tempo stesso un vivo e un morto». Karon racconta degli “spiriti” che esigono il loro tributo anche durante la traversata. Così accade che qualcuno esca di senno e si getti in mare e nessuno glielo impedisca perché il gesto è interpretato come il necessario sacrificio da consumare per il buon esito del viaggio.
«Una volta soltanto, dice Karon, è accaduto un miracolo. Un uomo è caduto in acqua dalla barca e, non volendo perdere tempo, il capitano si era rifiutato di tornare indietro, ma almeno aveva spento il motore per qualche minuto. Alcuni avevano chiamato l’uomo per nome, tutti scrutavano il mare sperando che fosse riuscito a rimanere a galla da qualche parte, ma di lui non c’era traccia. Poi per un istante ci fu un grande silenzio, il mare era calmissimo, pareva un olio, e d’un tratto vedemmo arrivare a nuoto due delfini appaiati che, stringendoglisi ai fianchi, portarono l’uomo privo di sensi fino alla barca, da dove gli altri passeggeri poterono recuperarlo, e così l’uomo tornò in sé. Un miracolo. Poco dopo, quando all’improvviso il motore si ruppe, l’unico a bordo che si intendesse un po’ di barche e fosse in grado di riparare il guasto fu proprio quell’uomo. Altrimenti saremmo morti tutti, dice Karon».
Il racconto è un’esemplare dimostrazione che insieme agli uomini e alle donne viaggiano su quelle sgangherate imbarcazioni le culture, le credenze, i sogni, le visioni del mondo. «Gli spiriti, dice Karon, ci hanno accompagnato solo fino alla costa italiana. Non sono sbarcati in Europa». A Berlino i profughi non trovano l’Occidente ricco e generoso che cercavano, sono trattenuti all’interno di un centro di accoglienza ai margini della città, vessati da una “geometria burocratica” che impedisce loro di lavorare e li costringe, sulla base degli iniqui accordi della Convenzione di Dublino II, alle procedure di identificazione e al trasferimento in Italia essendo il primo Paese dell’Unione in cui hanno messo piede. A fronte dell’insensatezza di questo trattato comunitario i richiedenti asilo negano la loro identità, ricorrono alla resilienza, alla capacità reattiva, muta e tenace, di opporsi alle avversità, di ribellarsi alle leggi e alle regole ingiuste. Per un anno e mezzo hanno occupato la piazza del quartiere Kreuzberg rendendo visibile il loro pacifico ammutinamento. Lo stesso Richard si interroga sulle evidenti contraddizioni della politica dell’immigrazione e dei sistemi di accoglienza. «Impedire loro di lavorare e al tempo stesso accusarli di inoperosità è, secondo Richard, un costrutto azzardato già solo dal punto di vista logico».
Per il filologo che viene da Berlino est della DDR e ha conosciuto l’esperienza del comunismo e il muro che ha separato per quasi quarant’anni le due comunità di tedeschi, la presenza dei profughi africani è occasione di un ripensamento della storia nazionale, di un rinnovamento dello sguardo e di un ricominciamento della propria vita. Il professore emerito scopre di avere ancora qualcosa da imparare e si dispone al dialogo con quegli uomini che chiama con i nomi dei personaggi del mondo classico a lui familiare: Apollo, Ermes, Tristano, il Fulminatore. Rilegge Seneca, Ovidio, Tacito che già duemila anni fa hanno difeso la dignità dei forestieri e i diritti di ospitalità oggi negati. Perfino il cielo della mitologia greca, che pure è la sua disciplina, è adesso abitato da nuovi dèi, da nuovi eroi. «Quante volte bisogna tornare a imparare, a scoprire e a riscoprire ciò che già si sa, quanti travestimenti bisogna strappar via per poter penetrare le cose fino all’osso? Basterà mai la durata di una vita?». Davanti alle storie dei rifugiati che giungono in Europa da piccoli e remoti villaggi dell’Africa nera, Richard rilegge e riconsidera la storia universale delle migrazioni:
« Ci sono stati commerci, guerre, espulsioni, alla ricerca di acqua e di cibo gli uomini hanno spesso seguito il bestiame che possedevano, c’è stata la fuga dalla siccità e dai flagelli, la ricerca dell’oro, del sale o del ferro eppure solo nella diaspora si poteva conservare la fedeltà al proprio Dio, c’è stata decadenza, trasformazione, ricostruzione e colonizzazione, ci furono vie migliori e vie peggiori, ma mai immobilità. Per spiegare a uno studente che, con tutto questo, lui intende non tanto una legge morale, bensì piuttosto una legge di natura, a Richard sarebbe bastato indicare ciò che si vede fuori dalla finestra, là dove molte delle foglie che gli avevano dato gioia a primavera sono ormai cadute a terra in mezzo all’erba, mentre sugli alberi già si intravedono le gemme che spunteranno l’anno venturo».
Il movimento incessante degli uomini che accompagna e seconda la storia è assimilato al ciclo naturale degli eventi, alle necessità di riproduzione e rigenerazione della terra, al fisiologico ricambio dei popoli giovani e poveri nei Paesi ricchi e vecchi. Risponde cioè alle logiche dei processi evolutivi della demografia e alle spinte propulsive dei desideri individuali e collettivi. «Nutrire dei desideri è indice del fatto che si vive ancora in un mondo in cui si ha il diritto di desiderare», afferma Richard, e la tesi che la scrittrice Erpenbeck affida alle parole del suo narratore protagonista traduce, in fondo, sul piano letterario quanto sostiene l’antropologo Appadurai, il quale alla «capacità di aspirare come una capacità sociale e collettiva» attribuisce le possibilità di costruzione del futuro come fatto culturale. «Le aspirazioni hanno certamente qualcosa a che fare con i desideri, le preferenze, le scelte e i progetti (…) ma – scrive Appadurai – non sono mai semplicemente individuali. Si formano sempre nell’interazione con la vita sociale e nel suo tessuto». Da qui la convinzione che «una più profonda capacità di aspirare non può non rafforzare i poveri nella battaglia contro la povertà».
Sembra essere questo il compito che Richard si è dato nel suo andare incontro alle vite dei profughi, nel suo prodigarsi perché coltivino desideri e interessi, aspirazioni e determinazioni. Offre ad uno il lavoro di giardiniere, ad un altro quello di badante. Realizza il sogno di Karon, donando il denaro necessario per l’acquisto del terreno nel villaggio ghanese. Apre la sua casa al giovane e timido Osarobo che affascinato dal pianoforte, mai visto prima, prova a muovere i tasti:
«Probabilmente i nostri suoni diventano musica solo quando noi stessi riusciamo ad ascoltarli. Ciò che Osarobo sta suonando non è né Bach né Mozart, né jazz e nemmeno blues, ma Richard riesce a sentire che Osarobo si ascolta, e questo suo ascoltarsi trasforma i suoni storti, sghembi, pungenti, incespicanti, opachi in qualcosa che, nonostante la loro totale arbitrarietà, è comunque bello».
Richard si chiede che cosa proverebbe questo ragazzo del Niger se ascoltasse per la prima volta in vita sua i timpani e le trombe di Bach, le sinfonie di Mozart o i notturni di Chopin. Per questo decide di portarlo ad un concerto in Duomo e regala al «futuro musicista di strada» una tastiera arrotolabile. Festeggia il Natale insieme a Rashid che resta incantato davanti al presepe, alle figure dei pastori e alle candele colorate il cui fumo fa muovere la piramide con gli angeli in cima. Due mondi profondamente diversi si sfiorano, si incrociano, si intrecciano. Nella pagina letteraria l’autrice che scrive si distingue appena dal protagonista che narra. Allo stesso modo si alternano le memorie di Richard e quelle di Rashid fino a confondere il vissuto dell’uno e dell’altro, fino a sovrapporre le voci e i sentimenti di ciascuno. Rashid racconta le sue terribili notti sul barcone, le bottiglie calate in acqua per bere almeno un po’, l’urto contro gli scogli, il panico e il naufragio con i corpi dei morti vicini, un mare pieno di cadaveri, più di cinquecento annegati su ottocento. «Richard pensa a quante volte, in aereo, ha guardato giù dagli oblò verso il mare. Pensa alle onde che, viste dall’alto, erano perfettamente immobili e alla schiuma bianca che sembrava pietra».
Stretto in un cortocircuito di passato e presente, l’anziano studioso dell’età classica si ritrova ad essere anche lui uno straniero, dal momento in cui, dalla sera alla mattina, nel capodanno del 1990 era diventato cittadino della cosiddetta Repubblica Federale. Da quando è caduto il muro non riesce più ad orientarsi in una Berlino che dilatandosi ha perduto il suo centro geometrico e rischia di dissipare o frantumare la sua stessa identità di città rinata dalle macerie naziste. Altri muri si innalzano nella Germania di oggi e la cupa memoria di un passato mai del tutto trapassato riemerge, riaffiora sulle labbra di quanti guardano ai profughi africani con sospetto e con paura.
«E proprio in quella parte della Germania, in cui l’Internazionalismo proletario era fino a venticinque anni fa la parola d’ordine di innumerevoli striscioni, c’è scritto adesso sui manifesti elettorali di un partito dal consenso crescente: Meglio soldi per le nonnine che per sinti e marocchine».
Erpenbeck sa che i centri di accoglienza non sono certo campi di concentramento. E tuttavia la sua testimonianza letteraria è volta a denunciare che c’è qualcosa di opprimente e di inquietante in quegli interni con «la luce opalina eternamente vacillante nei corridoi», in quei luoghi che non possono essere liberamente visitati e da cui gli ospiti stranieri non possono autonomamente allontanarsi. La casa che i profughi davvero abitano ha le pareti mobili dei cellulari, è custodita nei display più o meno incrinati su cui ricevono e comunicano messaggi con il mondo. Durante la traversata i telefonini chiusi nelle buste di plastica per proteggerli dall’acqua e dalla salsedine sono stati provvidenziali ponti sospesi nelle onde radio per lanciare i primi SOS. Ora questi piccoli oggetti iridescenti, che ci rendono apparentemente così simili, servono nelle mani dei profughi a rassicurare gli assenti, a dire ai familiari: “sono ancora vivo”.
«Una rete di numeri e di password si allarga sui continenti e sostituisce per loro non solo ciò che è andato perduto per sempre, ma anche il nuovo inizio che non può aver luogo. Ciò che possiedono è invisibile e fatto di aria».
Imparano a fatica la lingua tedesca, a partire dalle voci del verbo andare – Gehen, ging, gegangen: infinito, passato, participio passato – ma sembrano condannati a restare, ad aspettare, a perdersi nel vuoto indefinito di un tempo infinito. E intanto c’è sempre, anche in Germania, qualche salvini che grida con la bava in bocca, salutato da entusiasti applausi: “tornatevene a casa” o “portateveli a casa vostra”. Nessuno ricorda più che nel 1945 otto milioni di tedeschi sono emigrati verso ovest e che negli anni a seguire la rinascita economica del Paese è stata possibile grazie al contributo determinante del lavoro e delle braccia di milioni di stranieri immigrati.
I libri sono quel che diventano quando li leggi, dove li leggi e magari anche con chi li leggi. Per questo si offrono a diverse chiavi di interpretazione. Ho letto il racconto di Jenny Erpenbeck mentre nella cronaca si replicavano drammaticamente i naufragi nel Mediterraneo e in tv su Rai Uno scorrevano le scene del film Fuocoammare in puntuale e sconcertante coincidenza con servizi, trasmessi sui canali delle emittenti private, scientificamente costruiti per diffondere l’odio sociale nei confronti degli immigrati che ci invadono, ci infettano e ci stuprano. Sfogliavo questo libro, ne leggevo le pagine e mi ritornavano insistentemente le immagini di Lampedusa e dei generosi soccorsi a mare in stridente contrasto con gli strepiti dei leader politici che invocano muri, ruspe ed espulsioni. Scoprivo che Lampedusa invisibile e perfino invisa ad alcuni irriducibili italiani non è così lontana dalla Germania, da quella piazza nel quartiere di Kreuzberg di Berlino da cui muove la storia esemplare di Richard. Il quale, nel frattempo, ha imparato a mangiare le banane fritte in padella e il fufù, piatto tradizionale della cucina ghanese, ma non riesce a rimuovere il pensiero di un uomo morto in fondo al lago, il cui corpo non si trova da settimane. Un fantasma che inquieta e turba le giornate del filologo. Un piccolo indizio che l’autrice ha probabilmente voluto nascondere e disseminare lungo le pagine del libro come monito simbolico della nostra cattiva coscienza e come memoria viva di tutti i morti precipitati nella oscura foiba del Mediterraneo.
Dialoghi Mediterranei, n.22, novembre 2016
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