di Laura Malleo
Il tempo trascorso a Palermo, città dove sono cresciuta e che poi ho lasciato passata l’adolescenza, per lo svolgimento di uno stage presso il CEIPES, Centro Internazionale per la Promozione dello Sviluppo e dell’Educazione, mi ha concesso di rivedere con occhi di adulta, pregi e difetti dell’ambiente. Con questa preparazione psicologica e questo tipo di turbamento interiore il 5 luglio 2010 cominciavo questa esperienza. Il CEIPES è un’associazione no-profit che si dedica alla progettazione europea. Interessata ad uno dei loro progetti: “Radio Youth Protagonists” entrai a far parte del CEIPES, sia come partecipante al progetto sia come stagista operativa del loro ‘team’ per un periodo di tre mesi.
Il progetto Youth Protagonists aveva come obiettivo la formazione di una radio internazionale e riuniva partecipanti italiani, rumeni e turchi. I programmi radio creati erano disponibili su internet alla pagina www.youthonair.org, pagina che ho imparato a gestire e programmare. Durante il mese di luglio abbiamo incontrato gli altri partecipanti a Palermo. Per una settimana abbiamo passato il tempo insieme, dedicandoci alla programmazione e alla creazione dei programmi radio. In quest’occasione ho avuto la possibilità di lavorare come project manager; sono stata il punto di riferimento per i partecipanti, ho tenuto un laboratorio di approfondimento sul tema del rispetto dell’ambiente e ho vissuto l’esperienza di far parte del partner leader di progetto nonché associazione ospitante nel caso di incontro in loco (con le responsabilità e l’impegno che tutto questo può significare: il benessere degli ospiti, l’intrattenimento durante la giornata, l’interesse a non perdere di vista l’obiettivo dell’incontro, la messa in pratica del metodo di educazione non-formale, l’attenzione allo spirito di gruppo e al far sì che tutti restino soddisfatti) .
Avendo scelto Palermo come meta, sapevo di mettermi in gioco in prima persona e dover rivedere tutti i riferimenti, i punti fermi, i canoni di sviluppo, progresso, l’alta concezione della persona e del rispetto del cittadino, il vivere civile e la socialità che fino a quel momento avevo raccolto altrove abituandomi agli standard europei dei contesti accademico-lavorativi. Prevedevo un aspro scontro con personaggi d’ufficio attenti solo a timbrare il cartellino, scarsa affinità con quanti non sanno avere a cuore il bene pubblico, diffusa incapacità di concentrazione, di rispetto degli spazi altrui, la impossibilità di giostrarsi tra i lavori di gruppo e la riuscita personale, intrighi e sotterfugi in direzione e pasticci su pasticci in ambito di finanziamenti e denaro da investire in progettazione. Consapevole che il mio immaginario rispecchiasse la realtà, ero comunque decisa a tornare nella Palermo materna, disposta ad affermare la mia volontà di cambiamento, a non cedere all’assimilazione del contesto locale, poco sicura di farcela ma aperta con coraggio alla possibilità di vincere. In caso di sconfitta definitiva in campo lavorativo, sarebbe rimasto comunque l’affetto familiare che è solo qui, e quella cucina così tradizionale e deliziosa che merita una citazione direttamente dal Gattopardo.
«Buone creanze a parte, però, l’aspetto di quei babelici pasticci era ben degno di evocare fremiti di ammirazione. L’oro brunito dell’involucro, la fragranza di zucchero e di cannella che ne emanava non erano il preludio della sensazione di delizia che si sprigionava dall’interno quando il coltello squarciava la crosta: ne erompeva dapprima un vapore carico di aromi, si scorgevano poi i fegatini di pollo, gli ovetti duri, le sfilettature di prosciutto, di pollo, di tartufi, impigliate nella massa untuosa, caldissima dei maccheroncini corti cui l’estratto di carne conferiva un prezioso color camoscio» (TdL: 81).
Tra l’Ottocento e il Duemila passa un tempo lungo e pieno di cambiamenti storico-sociali, gli sformati di riso e di capellini rimangono gli stessi.
L’infelicità palermitana. L’infelice ragion “de ne pas être”, che regna sovrana
Palermo è un ibrido. È una realtà deformata, organizzata senza punti di riferimento, e di conseguenza caotica. È un posto dove la convivenza è difficile, il senso di civiltà è diminuito, si è molto diffusa la diffidenza e la fiducia nel prossimo è dettata da precisi comportamenti di dimostrazioni di rispetto reciproco. È sconfinata ma ristretta al tempo stesso. Si rischia di conoscere qualcuno dovunque, e insieme di trovarsi in un posto nuovo improvvisamente ogni sera. Palermo è la città dalle misure di città che ha perso l’efficienza del paese e non ha raggiunto lo status simbolico della metropoli, della frenesia metropolitana in cui tutto funziona al massimo dell’efficienza, in cui ogni angolo è tirato a lucido; però ci prova, è lì che vuole dirigersi; senza sforzi però, senza fatica, senza assenso, come ‘sic stantibus rebus’. Ci sono prospettive di futuro quando si desidera qualcosa, ma non si agisce per ottenerlo? E così come Palermo sono i Palermitani, rimaniamo statici e vittime del nostro snobismo, del nostro lento cullarci su noi stessi, vittime della nostra perfezione.
L’infelicità dei Palermitani, vigente ai nostri giorni, assomiglia alla condizione di infelicità che vige nel mondo arabo, analizzata e documentata da Samir Kassir ne L’infelicità araba, realtà non ancora comparata da fonti ufficiali, formali, accademiche, con quella espressa sopra. Durante la lettura del testo di Kassir, ho riscontrato numerose somiglianze con la staticità degli umori palermitani;
«C’è bisogno di descriverla l’infelicità araba? Basterebbero pochi dati per mettere in evidenza la gravità dell’impasse in cui sono bloccate le società arabe: tasso d’analfabetismo, forbice tra i più ricchi, immensamente ricchi, e i più poveri, disperatamente poveri … L’infelicità araba ha … di particolare che la provano quelli che altrove parrebbero risparmiati. E ha a che fare, più che con i dati, con le percezioni e i sentimenti» (SK: 3).
Ho riflettuto sulla probabile radice comune e sono arrivata alla conclusione che gli Arabi accomunati da Kassir sotto una cupola comune d’infelicità storica, hanno poco da invidiare ai cugini palermitani avvolti nella nebbia pratico-intellettuale che oscura il cammino del progresso, come Tomasi di Lampedusa ha accuratamente descritto ne Il Gattopardo. Non ho prove per confermare che le cause che portano a queste simili ragioni d’essere siano comuni, ma sulla scia degli esempi forniti da Kassir azzarderò qualche conclusione.
«L’impotenza, innegabilmente, è oggi la cifra dell’infelicità araba. Impotenza a essere ciò che si ritiene di dover essere. Impotenza ad agire per affermare la propria volontà di esistere, se non altro come possibilità, di fronte all’Altro che ti nega, ti disprezza e, adesso, nuovamente ti domina. Impotenza a reprimere la sensazione di essere ormai un’entità trascurabile sullo scacchiere planetario quando è in casa tua che si gioca la partita; un sentimento, per la verità, irreprimibile da quando la guerra in Iraq ha riportato l’occupazione straniera in terra araba. E, come contraccolpo ha trasformato l’epoca delle indipendenze in una parentesi» (SK: 6).
Resistere all’infelicità con le parole e pagare con la vita? Kassir, assassinato da un’esplosione di stampo terroristico che ha voluto zittire la sua voce e spegnere nei suoi occhi il bagliore della vita, è il segnale più vistoso dell’infelicità araba: un giornalista, uno scrittore è messo a morte perché imputato di libertà. Porta la sua firma, un’analisi del mancato compimento della modernità connesso all’inadeguata risposta araba in termini di trasformazione e di rinnovamento.
Come la cosa meglio ripartita del mondo palermitano, nell’élite intellettuale e nella massa popolare, sia l’infelicità
Lo status di infelice che qui analizzo, è un’emozione passiva come l’apatia; è la convivenza con il male di vivere, sedimentato nel tempo; è la difficoltà a portare a termine un progetto di vita personale, è la sedentarietà morale e psicofisica di quanti hanno paura del mondo circostante, di misurarsi con le responsabilità della vita, di essere orgogliosi di aver fatto un passo in una direzione unica. Tutto ciò definisco qui ‘infelicità’ e attribuisco questa sensazione al popolo palermitano, in lungo e in largo. Tra le élite e la massa, la sensazione di arretratezza, la mancanza di iniziativa, il rifiuto del progresso sono in fin dei conti diffusi allo stesso modo. Il riferimento ai “signori” feudali, fatto da Tomasi di Lampedusa ne Il Gattopardo è perfettamente compatibile con la descrizione del ristretto gruppo intellettual-chic che regna oggi a Palermo. «Se incontrate un ‘signore’ lamentoso e querulo guardate il suo albero genealogico: vi troverete presto un ramo secco» (TdL: 45). Il riferimento alla differenza tra élite culturale e massa popolare proviene da un brano de Il Gattopardo in cui queste due realtà cercano confronto, in maniera più specifica è un popolano che cerca notizie e curiosità a proposito di un rappresentante dell’élite signorile, il Principe di Salina, si apre così una riflessione in cui l’infelicità sopra citata è frutto sia di una parte di popolazione che dell’altra, allora come oggi.
«Ma padre, tu che vivi in mezzo alla ‘nobbiltà’, che cosa ne dicono i signori di questo fuocogrande? Che cosa ne dice il Principe di Salina, grande, rabbioso e orgoglioso come è ?… Vedete Don Pietrino, i ‘signori’ come dite voi, non sono facili da capirsi. Essi vivono in un universo particolare che è stato creato non direttamente da Dio ma da loro stessi durante secoli di esperienze specialissime, di affanni e di gioie loro; essi posseggono una memoria collettiva quanto mai robusta e quindi si turbano o si allietano per cose delle quali a voi ed a me non importa un bel nulla ma che per loro sono vitali perché poste in rapporto con questo loro patrimonio di ricordi, di speranze, di timori di classe … I ‘signori’ vivono di cose già manipolate. Noi ecclesiastici serviamo loro per rassicurarli sulla vita eterna, come voi erbuari per procurar loro emollienti o eccitanti. E con questo non voglio dire che sono cattivi: tutt’altro. Sono differenti; forse ci appaiono tanto strani perché hanno raggiunto una tappa verso la quale tutti coloro che non sono santi camminano, quella della noncuranza dei beni terreni mediante l’assuefazione. Forse per questo non badano a certe cose che a noialtri importano molto; chi sta in montagna non si cura delle zanzare delle pianure, e chi vive in Egitto trascura i parapioggia. Il primo però teme le valanghe, il secondo, i coccodrilli, cose che invece ci preoccupano poco. Per loro sono subentrati nuovi timori che noi ignoriamo: … rabbuiarsi per un colletto di camicia mal stirato … o per un posto sbagliato a tavola. Ora, non vi sembra che il tipo di umanità che si turba soltanto per la biancheria o per il protocollo sia un tipo felice, quindi superiore?» (TdL: 176).
Samir Kassir, da parte sua, sostiene sì che l’infelicità sia la cosa meglio ripartita nel mondo arabo ma che a quest’affermazione non manchino di certo sfaccettature d’interpretazione; infatti, riferisce:
«… a guardare gli Arabi più da vicino, il quadro non risulta più piacevole. Una carrellata su questo continente atipico rivela che di sicuro ci sono Arabi felici e altri che cercano di esserlo, mostra ovunque società in crisi e Stati nell’impasse, tutti inadeguati a essere protagonisti della propria storia». «Il quadro è di sicuro incompleto, ma consente comunque di individuare l’altra tara principale del mondo arabo, quella costituita insieme all’impotenza nelle relazioni internazionali, dal deficit democratico. L’assenza di democrazia non è uno specifico male arabo, ma il mondo arabo rimane l’unico sistema regionale in cui praticamente tutti i paesi condividono questa tara, pur se la dittatura propriamente detta … proietta la sua ombra anche sugli altri, ne ridimensiona le pseudo-democrazie e livella verso il basso le libertà. … Ma sarebbe un errore imputare la crisi del concetto di cittadinanza [e dell’infelicità] a una predisposizione culturale, perché essa è in primo luogo l’effetto di un’altra crisi, quella che investe lo Stato» (SK: 15).
Come l’infelicità palermitana sia maggiore oggi che in passato
Samir Kassir illustra che il passato del mondo arabo, ripercorrendo l’Islam dell’VIII e IX secolo, ha rappresentato uno dei capitoli più fecondi della storia della civiltà. L’epoca illustre degli Arabi si è estesa per secoli, facendo di questo popolo un esportatore di civiltà e progresso. È da lì che bisogna partire per chiedersi dove abbia sbagliato questa popolazione per causare tutta una serie di effetti che a ruota hanno portato alla crisi dell’Arabità (intesa come orgoglio di essere arabi) odierna.
«Riconoscere l’esistenza di una gloria passata … sortisce l’effetto di dare degli Arabi un’immagine astorica. Tramontata questa età dell’oro, la storia araba sarebbe allora tutto un susseguirsi di fallimenti, una serie ininterrotta di disgrazie» (SK: 30).
Non si può non fare riferimento alla conquista della Sicilia da parte degli Arabi; fino al XI secolo gli Arabi occuparono la Sicilia e questi due secoli di vita a stretto contatto ci hanno dato la possibilità di diventare cugini e mettere radici per dimostrare un affiatamento postumo non solo culturale ma sociale, storico e di stile di vita della popolazione, che ci accomuna nel bene e nel male. Come Samir Kassir ci ricorda, nonostante la percezione araba della storia tenda a nascondere e coprire i successivi sprazzi di modernità e di ottimismo, questi ci sono stati anche se per periodi brevi. Non bisogna sottovalutare per esempio, il periodo di quarant’anni fa in cui «gli Arabi sembravano un mondo in movimento, parte integrante e talora trainante della rivoluzione terzomondista» (SK: 31). Allo stesso modo, quaranta o cinquanta anni fa, si sviluppavano in Sicilia correnti letterarie, movimenti di pensiero all’avanguardia, che proprio perché temporanei ci aiutano a comprendere quest’atteggiamento autoctono di decadimento progressivo, al minimo sobbalzare in avanti. Oggi come nell’Ottocento, come riportato da Tomasi, la perfezione dei Siciliani sembra non voler essere scalfita. L’orgoglio li divora e il progresso e l’onda futurista sembrano essere malattie da evitare:
«Ogni intromissione di estranei sia per origine sia anche, se si tratti di Siciliani, per indipendenza di spirito, sconvolge il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza, rischia di turbare la loro compiaciuta attesa del nulla; calpestati da una decina di popoli differenti essi credono di avere un passato imperiale che dà loro diritto a funerali sontuosi» (TdL: 166).
In maniera simile, il passato imperiale fa ombra sullo stato d’animo del mondo arabo attuale:
«La storia araba, una storia di imperi, va letta come una somma di esperienze culturali. O meglio,come una somma di differenze culturali. Non c’è da stupirsi allora che un tale patrimonio fornisca ancora oggi sostegno – e legittimazione – alle teorie più antitetiche. Primato del profano sul sacro per alcuni, del sacro sul profano per altri, razionalismo filosofico, autoritarismo teocratico o misticismo ribelle, fino all’utopismo: nulla di ciò che è umano le è stato estraneo. Ribelli e uomini di potere, filosofi e maestri sufi, predicatori o passatisti, tutte le sfumature spirituali coesistono o si succedono nel corso di una lunga storia in cui si incrociano e si scontrano correnti tanto difformi, e talora anche antagoniste come il razionalismo aristotelico di Averroè e la teologia di al-Ghazali» (SK: 38).
E la sensazione di infelicità insita nella popolazione ha una doppia provenienza: il non ricordo, quando questo non c’è, e il peso del ricordo degli splendori forse non più raggiungibili.
«è strano ma queste epoche abbastanza recenti sono meno presenti delle pagine più antiche, sia nell’immagine che degli Arabi si ha dall’esterno, sia nella rappresentazione che essi stessi hanno della propria storia. È stata dimenticata la modernizzazione di Mohammed ‘Ali, dimenticata l’opera delle Tanzimat, oppure circoscritta alla storia turca. È stata dimenticata soprattutto la Nahda, salvo forse un’élite ancora affezionata allo spirito dei Lumi» (SK: 39).
In effetti un lavoro di memoria che ripeschi dal passato il benessere di cui il mondo arabo ha goduto, potrebbe incoraggiare le popolazioni di oggi e rinvigorirle di splendore, almeno riflesso da se stessi.
«Eppure che grande risorsa sarebbe oggi un simile lavoro di memoria. Se non per scovare ricette preconfezionate che sappiano porre termine all’epoca dell’infelicità, almeno per re-interpretarla come un momento della storia. Ma anche e soprattutto perché, se non ci si riappropria di quella storia, il rapporto degli Arabi del XXI secolo con la modernità continuerà a reggersi su un malinteso» (SK: 39).
Se dovessi pensare a un simile procedimento per i Palermitani, non riuscirei a pensarlo come efficace; la “malavoglia” dei miei concittadini supererebbe quella, scarsa, dei promotori dell’iniziativa. Ma per cominciare davvero, quelli che la pensano come me devono cambiare atteggiamento per primi, tacere e non stare a guardare, ma agire.
Come l’infelicità palermitana non sia il risultato della modernità, ma del suo mancato compimento
La modernità affronta gli ostacoli imposti dagli uomini locali, si barcamena tra i rifiuti e i ‘no’ politici e cerca di portare in auge il progresso nonostante l’ostilità dell’ambiente circostante. Sembra che la realtà locale si incontri col progresso per rifiutarlo, per mandarlo via, per far passare la voglia di fare a coloro i quali vorrebbero abbracciarlo, provocando uno scontro. L’incontro-scontro col progresso a cui mi riferisco è racchiuso nell’efficace descrizione dell’arrivo del Cavaliere Aimone Chevalley di Monterzuolo, piemontese, in Sicilia nel novembre del 1860.
«La corriera giunse sul far della notte con la sua guardia armata a cassetta e con lo scarso carico di volti chiusi. Da essa discese anche Chevalley di Monterzuolo, riconoscibile dall’aspetto esterrefatto e dal sorrisetto guardingo; egli si trovava in Sicilia da un mese, nella parte più strenuamente indigena dell’Isola per di più, e vi era stato sbalzato dritto dritto dalla propria terricciola del Monferrato. Di natura timida e congenitamente burocratica si trovava molto a disagio. Aveva avuto la testa imbottita da quei racconti briganteschi mediante i quali i Siciliani amavano saggiare la resistenza nervosa dei nuovi arrivati e da un mese individuava un sicario in ciascun usciere del proprio ufficio ed un pugnale in ogni tagliacarte di legno sul proprio scrittoio; inoltre, la cucina all’olio aveva da un mese posto in disordine le sue viscere» (TdL: 152).
Le sensazioni che subisce il Cavaliere piemontese all’arrivo in Sicilia, sono le stesse che a mio parere subisce il progresso che si presenta sotto forma di normalità o di legge che cerchi di dare una svolta alla situazione burocratica, sociale e civile palermitana. Il movimento ‘progressista’ è in principio disarmato, poi sedotto e mai abbandonato; troppo spesso finisce al contrario per essere assimilato e inglobato nella realtà locale, cominciando a fare parte di questa, dimenticando l’insita filosofia di progresso e adagiandosi nell’immobilità circolare locale.
«Quando Francesco Paolo gli si avvicinò presentandosi strabuzzò gli occhi perché si credette spacciato, ma l’aspetto composto e onesto del ragazzone biondo lo rassicurò alquanto e quando poi comprese che era invitato ad alloggiare a palazzo Salina, fu sorpreso e sollevato; il percorso al buio sino al palazzo fu allietato da continue schermaglie fra la cortesia piemontese e quella siciliana (le due più puntigliose d’Italia) a proposito della valigia che finì con l’essere portata, benché leggerissima, da ambedue i cavallereschi contendenti» (TdL: 154).
A riprova di quanto descritto sopra, il rischio dell’adagiamento del diverso al vecchio è tale che:
«… scese a pranzo martoriato dai contrastanti timori di chi è capitato in un ambiente al di sopra delle proprie abitudini e da quelle dell’innocente caduto in un agguato brigantesco. … “domani non partirà e per esserne sicuro mi proverò del piacere di parlare con lei a quattro occhi fino al pomeriggio”. Questa frase che avrebbe terrorizzato l’ottimo cavaliere fino a tre ore prima lo rallegrò invece adesso, … giocò a whist, vinse due rubbers e guadagnò tre lire e trentacinquecentesimi, dopo di che si ritirò in camera sua, apprezzò la freschezza delle lenzuola e si addormentò del sonno fiducioso del giusto» (TdL: 48).
Il non attecchire del progresso tra i Palermitani è dunque legato al rifiuto per principio. Nel caso del mondo arabo, Samir Kassir fa un excursus storico affrontando il tema del progresso in tutto ciò in cui si manifesta. La mancata riuscita della sua affermazione è in questo caso la vicinanza dell’Occidente, l’errore di scambiare il futuro, il cambiamento, il progresso con ciò che ha già messo piede in Occidente. In questo modo il mondo arabo non ha un sentiero da battere, un futuro da scoprire, ma è costretto a passare attraverso i filtri dell’Occidente che lo obbligano a dirigersi da un lato o dall’altro. Se questa mancanza di modernità ha cause ben diverse da quelle scolpite negli animi dei Siciliani, nonostante questo, il risultato è molto simile. La modernità autoctona nel mondo arabo è la Nahda che se
«fosse stata un fenomeno storico senza alcun seguito, forse sarebbe giusto non riconoscerne l’importanza. Ma le cose non stanno così. La Nahda, come momento storico e come aspirazione nazionalista, è probabilmente un capitolo che si è chiuso verso la fine della Prima Guerra Mondiale, ma persevera come attitudine e come visione del mondo» (SK: 49).
Probabilmente è stato messo in sordina dall’ingombrante presenza occidentale.
«Ciò significa che la modernità araba non si riduce a pochi decenni del XIX secolo. E questo vale per la storia delle idee e della produzione culturale come per la storia delle mentalità e del costume» (SK: 50).
Per esempio, tra le due guerre, nonostante ‘modernizzazione’ arrivi a significare più che mai occidentalizzazione,
«il nazionalismo arabo non tarda a ripresentarsi. Anche se ormai in funzione antieuropea, dopo la frustrazione generata dalla soluzione imposta alla questione d’Oriente, nei contenuti continua a derivare, in tutte le sue versioni, dalla storia del pensiero europeo» (SK: 54).
Senza avere i risvolti politici del teatro – a parte talune eccezioni – e a dispetto delle apparenze, una forma d’arte così popolare come la canzone si inscrive, persino essa, nel processo di occidentalizzazione.
Tornando ai Palermitani, lo scontro che si offre al progresso smuove gli animi degli autori della modernità più tenaci; infatti al momento di proporre la nomina a Senatore del Regno al Principe di Salina, in quanto illustre siciliano, missiva del governo di Torino, Chevalley non si lascia smontare dall’atteggiamento sornione dei loquaci Siciliani quando si propone loro di fare qualcosa, avendo ormai chiara la stoffa dei personaggi a cui si rivolgeva. Tale stoffa è rimasta uguale a distanza di due secoli, non c’è popolazione più sorniona dei locali Palermitani; ne ho fatto le spese durante la mia adolescenza e durante l’esperienza degli ultimi mesi, ritrovandomi a contare i partecipanti palermitani ai progetti in sede CEIPES sulla punta delle dita di una mano. Che gli Arabi siano o no simili ai Palermitani anche sotto questo aspetto è per me ancora da provare. Un’ipotesi esplicativa della ragion per cui i Siciliani si crogiolano sul dolce non fare ce la offre Tomasi riportando i pensieri dello stesso Principe:
«Le lusinghe scivolavano via dalla personalità del principe come l’acqua dalle foglie delle ninfee: questo è uno dei vantaggi dei quali godono gli uomini che sono nello stesso tempo orgogliosi ed abituati ad esserlo. “Adesso questo qui s’immagina di venirmi a fare un grande onore” pensava “a me, che sono quel che sono, fra l’altro anche Pari del Regno di Sicilia, il che dev’essere press’apoco come essere senatore. È vero che i doni bisogna valutarli in relazione a chi li offre: un contadino che mi dà il suo pecorino mi fa un regalo più grande di Giulio Lascari quando mi invita a pranzo. Il guaio è che il pecorino mi dà la nausea; e così non resta che la gratitudine che non si vede e il naso arricciato dal disgusto, che si vede fin troppo» (TdL: 161).
La reazione del Principe di Salina all’offerta del Cavaliere Chevalley è emblematica perché sembra plausibile e corretta in nome di tutti i Palermitani, la cui partecipazione a qualcosa di sospettoso e nuovo mostra sempre per prima la faccia burbera, accigliata e distante. Davanti agli sforzi, al fare, alla pratica ci si allontana come fossero malattie; e infatti il Principe risponde:
«Stia a sentirmi, Chevalley; se si fosse trattato di un segno di onore, di un semplice titolo da scrivere sulla carta da visita e basta, sarei stato lieto di accettare; trovo che in questo momento decisivo per il futuro dello stato italiano è dovere di ognuno dare la propria adesione, evitare l’impressione di screzi dinanzi a quegli stati esteri che ci guardano con un timore o con una speranza che si riveleranno ingiustificati ma che per ora esistono» (TdL: 160).
Mi viene da pensare che allora, le tante attività progettuali, vive, profumate di novità, rimangano scritte sui biglietti da visita o impelagate nella burocrazia regionale per gli stessi motivi. La risposta del principe Fabrizio, il “Principone” come Tomasi lo denomina affettuosamente, è attualissima nella descrizione delle dinamiche interiori dei Siciliani, e con questi dei Palermitani, che spingono questo popolo alla passività, alla staticità del loro ambiente per il loro apparente vivere felici:
«Ma allora Principe, perché non accettare? – Abbia pazienza, Chevalley, adesso mi spiegherò: noi Siciliani siamo stati avvezzi da una lunghissima egemonia di governanti che non erano della nostra religione, che non parlavano la nostra lingua, a spezzare i capelli in quattro. Se non si faceva così non si sfuggiva agli esattori bizantini, agli emiri berberi, ai viceré spagnoli. Adesso la piega è presa, siamo fatti così. Avevo detto “adesione” non “partecipazione”. In questi sei ultimi mesi, da quando il vostro Garibaldi ha posto piede a Marsala, troppe cose sono state fatte senza consultarci perché adesso si possa chiedere a un membro della vecchia classe dirigente di svilupparle e portarle a compimento. Adesso non voglio discutere se ciò che si è fatto è stato male o bene per conto mio credo che parecchio sia stato male; ma voglio dirle subito ciò che lei capirà da solo quando sarà stato un anno fra noi. In Sicilia non importa far male o far bene: il peccato che noi Siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di “fare”. Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Dopo venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori già complete e perfezionate, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui abbiamo dato il “la»; noi siamo dei bianchi quanto lo è lei, Chevalley, e quanto la regina d’Inghilterra; eppure da duemila cinquecento anni siamo colonia. Non lo dico per lagnarmi è in gran parte colpa nostra; ma siamo stanchi e svuotati lo stesso» (TdL: 160).
Per quanto riguarda il mondo arabo, Samir Kassir è pronto a rifiutare la validità dei luoghi comuni che recitano sia il nazionalismo arabo a frenare la modernità. Di fatto, l’Arabismo ideologico che si sviluppa dopo l’irruzione coloniale è anch’esso prodotto dell’incontro con l’Europa, e non si può dichiarare frutto genuino del mondo arabo.
«L’ideologia, specialmente nel Mashreq, sarà infatti segnata dal giacobinismo culturale ereditato dalla Rivoluzione Francese, e comporterà l’abbandono dell’idea di impero a tutto vantaggio di quella di Stato-nazione, solo che qui non c’è uno Stato nazionale in cui inquadrarla» (SK: 57).
Il Principe Fabrizio non si stanca di esporre le caratteristiche della natura dei Siciliani; si dilunga in descrizioni appropriate e ancora attuali di ciò che sono e ciò che vogliono i Siciliani di oggi:
«Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali; e, sia detto tra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio. Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorzonera o di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che voglia scrutare gli enigmi del nirvana. Da ciò proviene il prepotere da noi di certe persone, di coloro che sono semi-desti; da ciò il famoso ritardo di un secolo delle manifestazioni artistiche ed intellettuali siciliane: le novità ci attraggono soltanto quando le sentiamo defunte, incapaci di dar luogo a correnti vitali; da ciò l’incredibile fenomeno della formazione attuale, contemporanea a noi, di miti che sarebbero venerabili se fossero antichi sul serio, ma che non sono altro che sinistri tentativi di rituffarsi in un passato che ci attrae appunto perché morto» (TdL: 172).
Al nominare i Siciliani andati all’estero e diventati illustri, fenomeno tipico ancora ai nostri giorni come allora, con Crispi a Torino, Fabrizio seccato esclama:
«Siamo troppi perché non ci siano delle eccezioni!» E poi ancora: «Non nego che alcuni Siciliani trasportati fuori dall’Isola possano riuscire a smagarsi: bisogna però farli partire quando sono molto, molto giovani: a vent’anni è già tardi; la crosta è già fatta, dopo: rimarranno convinti che il loro è un paese come tutti gli altri, scelleratamente calunniato; che la normalità civilizzata è qui, la stramberia fuori» (TdL: 172)
In entrambi i casi sembra non trattarsi dell’impossibilità a ‘essere’ dopo ‘essere stati’. Nel caso degli Arabi, visto che il ritorno dei cugini del basso Mediterraneo nella storia universale, è stato possibile una quarantina di anni fa, nulla dovrebbe impedire che la fine della loro infelicità, il giorno in cui non saranno più al centro di un mondo fatto di crisi, li riconcili con il sincretismo che ha contrassegnato la loro lunga storia (SK: 60).
Come l’infelicità dei Palermitani dipenda dalla loro geografia più che dalla loro storia
Sia Samir Kassir che Tomasi di Lampedusa accomunano l’origine dell’infelicità delle due popolazioni a cui rispettivamente si riferiscono, più alla posizione geografica delle loro terre che all’avvicendarsi dei periodi storici. È interessante notare le spiegazioni che adducono soffermandosi su questa tesi. Posso testimoniare che la descrizione di Tomasi nel Gattopardo, la riscontro sulla mia pelle; l’ambiente in cui sono cresciuta avrebbe potuto avere un’influenza notevole sul mio stato d’animo, sul mio modo di essere e di crescere. Lo ha avuto senz’altro plasmandomi a immagine e somiglianza degli altri suoi prodotti locali; se mi sento diversa e proiettata verso altri luoghi, geografici o virtuali, lo devo all’esperienza fatta fuori dal contesto siciliano, alla differenza di punti di riferimento a cui mi sono esposta prima dei vent’anni.
«Per capire la storia del mondo arabo, infatti, bisogna per forza tener conto della sua geografia. Proprio perché da un punto di vista geografico, questo insieme regionale è atipico: a cavallo tra due continenti, con confini che non sono tutti naturali … Per atipica che sia, questa geografia ha avuto un peso determinante nello sviluppo della storia araba contemporanea» (SK: 62).
Il mondo arabo, collocato di fronte all’Europa e nel cuore del Vecchio mondo, è definito dalle circostanze topografiche con un carattere di affermazione quasi ovvia. La prossimità con l’Europa è stata il fattore più gravido di conseguenze per lo sviluppo della storia araba. Questa prossimità ha generato una lunga catena di eventi che non ricostruirò qui ma che va dalla conquista dell’Andalusia all’occupazione della Sicilia, come ho già ricordato, dalle Crociate alla spartizione imperialista del Levante dopo la caduta dell’Impero Ottomano. Bisogna ricordare che il mondo arabo è l’unica area del contesto coloniale ad aver avuto rapporti con l’Europa in epoca pre-imperialista, mantenendosi in posizione di dominio in questo faccia a faccia. Secondo Samir Kassir, basta questo per spiegare come mai soltanto gli Europei guardino agli Arabi senza pregiudizi, e quanto si alimenti negli Arabi il rancore di non esserci più dopo esserci stati (SK: 41). Per quanto riguarda il popolo siciliano e i riferimenti alla geografia isolana, Tomasi fa un discorso un po’ diverso da Samir Kassir, il centro del suo ragionare sono le caratteristiche del territorio, la geografia sì ma in un senso più specifico: dall’orografia all’idrografia, alla topografia e alla meteorologia.
«Il Sole…si rivela come l’autentico sovrano della Sicilia: il sole violento e sfacciato, il sole narcotizzante anche, che annulla le volontà singole e mantiene ogni cosa in una immobilità servile, cullata in sogni violenti, in violenze che partecipano dell’arbitrarietà dei sogni» (TdL: 48).
Le caratteristiche locali sembrano voler giustificare i caratteri aspri e la poca voglia di andare avanti dei Siciliani:
«D’altronde vedo che mi sono spiegato male: ho detto i Siciliani, avrei dovuto dire la Sicilia, l’ambiente, il clima, il paesaggio. Queste sono le forze che insieme e forse più che le dominazioni estranee e gli incongrui stupri hanno formato l’animo: questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l’asprezza dannata; che non è mai meschino, terra terra, distensivo, umano, come dovrebbe essere un paese fatto per la dimora di esseri razionali; … questo clima che ci affligge sei mesi di febbre a quaranta gradi; li conti, Chevalley, li conti; Maggio, Giugno, Luglio, Agosto, Settembre, Ottobre; sei volte trenta giorni di sole a strapiombo sulle teste; questa nostra estate lunga e tetra quanto l’inverno russo e contro la quale si lotta con minor successo; Lei non lo sa ancora, ma da noi si può dire che nevica fuoco, come sulle città maledette della Bibbia; in ognuno di questi mesi se il Siciliano lavorasse sul serio spenderebbe l’energia che dovrebbe essere sufficiente per tre; e poi l’acqua non c’è o che bisogna trasportare da tanto lontano che ogni sua goccia è pagata da una goccia di sudore; e dopo ancora, le piogge, sempre tempestose che fanno impazzire i torrenti asciutti, che annegano bestie e uomini proprio lì dove una settimana prima le une e gli altri crepavano di sete. Questa violenza del paesaggio, questa crudeltà del clima, questa tensione continua di ogni aspetto, questi monumenti, anche, del passato, magnifici ma incomprensibili perché non edificati da noi e che ci stanno intorno come bellissimi fantasmi muti; tutti questi governi, sbarcati in armi da chissà dove, subito serviti, presto detestati e sempre incompresi, che si sono espressi soltanto con opere d’arte per noi enigmatiche e con concretissimi esattori d’imposte spese poi altrove; tutte queste cose hanno formato il carattere nostro che rimane così condizionato da fatalità esteriori oltre che da una terrificante insularità di animo» (TdL: 164).
A una descrizione così dettagliata che sembra folle per il suo dilungarsi in ricognizioni territoriali che si è certi di trovare anche altrove, è inevitabile lo stupore degli estranei, stranieri ai luoghi e ai fatti descritti:
«Benché onesto, Chevalley non era stupido; mancava sì di quella prontezza di spirito che in Sicilia usurpa il nome di intelligenza, ma si rendeva conto delle cose con lenta solidità, e poi non aveva l’ impenetrabilità meridionale agli affanni altrui. Comprese l’amarezza e lo sconforto di Don Fabrizio, rivide in un attimo lo spettacolo di miseria, di abiezione, di nera indifferenza del quale per un mese era stato testimonio; nelle ore passate aveva invidiato l’opulenza, la signorilità dei Salina, adesso ricordava con tenerezza la propria vignicciuola, il suo Monterzuolo vicino a Casale, brutto, mediocre, ma sereno e vivente; ebbe pietà tanto del principe senza speranze come dei bimbi scalzi, delle donne malariche, delle non innocenti vittime i cui elenchi giungevano così spesso al suo ufficio; tutti eguali, in fondo, compagni di sventura segregati nel medesimo pozzo. Volle fare un ultimo sforzo; si alzò e l’emozione conferiva pathos alla sua voce: “Principe, ma è proprio sul serio che lei si rifiuta di fare il possibile per alleviare, per tentare di rimediare allo stato di povertà materiale, di cieca miseria morale nelle quali giace questo che è il suo stesso popolo? Il clima si vince, il ricordo dei cattivi governi si cancella, i Siciliani vorranno migliorare; se gli uomini onesti si ritirano, la strada rimarrà libera alla gente senza scrupoli e senza prospettive, ai Sedara; e tutto sarà di nuovo come prima, per altri secoli. Ascolti la sua coscienza, principe, e non le orgogliose verità che ha detto. Collabori» (TdL: 165).
Come in un duello l’estraneo e il locale si affrontano a spada tratta e rispondono uno ai colpi dell’altro con maestria, non manca – imperterrita – la riconferma dei locali che è vittoria al duello dialettico ma aspra sconfitta quando costretti ad ammettere che il cambiamento non arriverà mai:
«Caro Chevalley, lei ha ragione in tutto; si è sbagliato quando ha detto: ‘i Siciliani vorranno migliorare’ … i Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria; ogni intromissione di estranei sia per origine sia anche, se si tratti di Siciliani, per indipendenza di spirito, sconvolge il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza, rischia di turbare la loro compiaciuta attesa del nulla; calpestati da una decina di popoli differenti essi credono di avere un passato imperiale che dà loro diritto a funerali sontuosi. Crede davvero lei, Chevalley di essere il primo a sperare di incanalare la Sicilia nel flusso della storia universale? Chissà quanti iman mussulmani, quanti cavalieri di Re Ruggero, quanti scribi degli Svevi, quanti baroni angioini, quanti legisti del Cattolico hanno concepito la stessa bella follia; e quanti viceré spagnoli, quanti funzionari riformatori di Carlo III; e chi sa più chi siano stati? La Sicilia ha voluto dormire, a dispetto delle loro invocazioni. Perché avrebbe dovuto ascoltarli se è ricca, se è saggia, se è onesta, se è da tutti ammirata e invidiata, se è perfetta in una parola?» (TdL: 166).
E se da una parte Tomasi marchia a fuoco i Siciliani descrivendo la loro incapacità di aprirsi alla trasformazione, Samir Kassir apre un tortuoso capitolo di cammino per il mondo arabo, un’uscita dall’infelicità bloccata dall’ombra occidentale che sovrasta il Medio Oriente:
«Tutti hanno il diritto di cambiare, e forse bisogna ammettere che l’inversione di rotta degli islamisti è costante, e sincero il loro impegno contro la dominazione straniera. Questo ancora non basterebbe ad accettare che la loro scelta è la sola strada percorribile. Perché se l’Islamismo non è – o non è più – una pedina dello straniero, è a lui che finisce col dare ragione. Avallando lo scontro di civiltà, anzi facendolo proprio, offre ai sostenitori della crociata l’occasione di arruolarsi, e all’Occidente l’opportunità di far uso di tutte le molte risorse tecnologiche che ha a disposizione per mantenere la sua supremazia sugli Arabi. E perpetuare la loro impotenza» (SK: 14).
Conclusioni
Per portare a compimento quest’opera di comparazione, dedicherò le ultime pagine a un’ipotesi di cause a cui rimandare la responsabilità di tanto sfacelo interiore o circostante. Nelle riflessioni più disparate, queste possono essere le più varie e le più banali. Quelle che ho riscontrato come plausibili e accomunabili ai due popoli confrontati sono espresse da Samir Kassir nel suo saggio L’infelicità araba e le ho trattate con citazioni dirette appropriandomene per trasferirle alla condizione isolana dei Siciliani. La prima causa dell’infelicità dei due popoli è probabilmente il passato glorioso di cui godono queste due società. Se nel caso degli Arabi, il passato di grandi potenze del IX secolo li portava a spasso nel Mediterraneo, popolo di viaggiatori, esportatori di tecniche di coltivazione, di irrigazione, di matematica e scienze nuove, nel caso dei Siciliani ci si rifà all’epoca di Federico II, alla Scuola Siciliana, ai fasti del Regno delle Due Sicilie. Entrambi questi periodi sono dei fardelli di splendore che rievocati al giorno d’oggi fanno temere il confronto. Proprio per questo motivo sia il mondo arabo che la popolazione isolana di Sicilia potrebbero attutire il colpo con una sconfitta in partenza.
«Il profondissimo senso di impotenza da cui scaturisce (l’infelicità) pare che si autoalimenti di un lutto non elaborato per la sua grandezza, e che quindi si metta a confronto con una dimensione parametrica che rimanda a un altrove storico in questo caso. L’impotenza degli Arabi sarebbe ancora più dolorosa perché non esiste da sempre o, per essere più precisi: l’infelicità degli Arabi consisterebbe nella loro impotenza a ‘essere’ dopo ‘essere stati’» (SK: 5).
Un’altra delle cause possibili è da ritrovarsi nella sensazione di vittimismo di cui si rivestono entrambi i soggetti in questione. Se il mondo arabo avendo costituito il bersaglio dell’imperialismo occidentale, ha escogitato di fare la parte della vittima per non appesantirsi di responsabilità, quasi allo stesso modo i Siciliani si sono giustamente appropriati del concetto di vittime avendo fatto da approdo a un innumerevole susseguirsi di invasori e conquistatori che hanno trovato spazio in Sicilia. Cominciando coi Fenici, i Greci, i Romani, gli Arabi stessi, i Normanni, i Borboni passando per gli Spagnoli e i Bizantini, gli Angioini e altri ancora…
«… eppure da duemila cinquecento anni siamo colonia. Non lo dico per lagnarmi, è in gran parte colpa nostra; ma siamo stanchi e svuotati lo stesso» (TdL: 163).
Di certo i Siciliani sono stati considerati e trattati da popolo colonizzato da tutti gli invasori di passaggio o stabili che fossero. È interessante notare come gli Arabi si siano ritrovati a fare gli “imperialisti” in Europa e proprio in Sicilia. Anche se con tempistiche lontane e separate, le due popolazioni in questione hanno lo stesso vissuto di colonia, con caratteristiche diverse certo, ma con sensazioni scalfite nel patrimonio storico-genetico che potrebbero essere le stesse. Infine, farei riferimento alla facilità con cui i Palermitani sanno posticipare gli eventi, soprattutto quando si tratta di prendere decisioni, di assumersi responsabilità, di portare a termine un’impresa. Credo che quest’atteggiamento sia dovuto allo storico passaggio di popoli dominanti, all’assuefazione a fare da sottomessi, all’incredulità che si possa contare su noi stessi, sulle nostre forze. Di conseguenza, il pensiero viziato che ne emerge, è che il cambiamento, il futuro, il progresso possano anch’essi arrivare dall’alto, dall’esterno, da qualcun altro; da un prossimo Messia redentore che farà tutto questo per noi. Questo delirio di onnipotenza al passivo è insito nei Palermitani e potrebbe essere la causa di tutti i mali dovuti all’inattività locale. D’altro canto, questa stessa esperienza potrebbero averla provata gli Arabi con l’imperialismo occidentale/americano ancora oggi vigente.
Una critica veritiera che avvolge i Siciliani e fa appello all’orgoglio non costruttivo di questo popolo è la seguente:
«La ragione della diversità deve trovarsi in quel senso di superiorità che barbaglia in ogni occhio dei Siciliani, che noi stessi affermiamo fierezza, che in realtà è cecità. Per ora, per molto tempo, non c’è niente da fare. Compiango; ma, in via politica, non posso porgere un dito, me lo morderebbero. Questi sono i discorsi che non si possono fare ai Siciliani; ed io stesso, del resto, se queste cose le avesse dette lei, me ne sarei avuto a male» (TdL: 164).
Come Fabrizio, tutti i Siciliani ancora oggi, complice la provenienza storica che connette quelli di allora a quelli di oggi, al sentirsi rivolgere tale critica, se ne avrebbero a male. Citando Proudhon (in Tomasi di Lampedusa) la causa maggiore dell’arretratezza isolana, in Sicilia, può essere stata anche il feudalesimo. Ma a questa accusa, il Principe di Salina risponde con fermezza:
«Sarà, ma il feudalesimo c‘è stato dappertutto, le invasioni straniere pure. Non credo che i suoi antenati, Chevalley, o gli squires inglesi o i signori francesi governassero meglio dei Salina. I risultati intanto sono diversi» (TdL: 165).
Non sono sicura che due secoli siano il ‘molto tempo’ che il Principe di Salina voleva lasciare a intendere. Sta di fatto che le situazioni descritte, le percezioni degli animi dei Palermitani così aridi e disinteressati al cambiamento, sono ancora vive, presenti, attualissime. La politica è ancora un campo di morsi e unghia stridenti al nominare ciò che non è dovuto, l’area civico-sociale comincia a muoversi manifestando una voglia di cambiamento e sbandierando grandi successi, ma non ha il supporto dei grandi, né la credibilità dei fiduciosi; lo scetticismo continua a regnare sovrano. Nonostante ciò, è con mio grande stupore che devo ammettere di avere vissuto a Palermo una splendida esperienza di lavoro nei tre mesi che ho passato al CEIPES. L’aria costruttiva, lo spirito di gruppo, l’innovazione, l’ingenuità del credere che dai piccoli passi si arrivi alla conclusione di grandi progetti è stata manna dal cielo. Lo spirito del CEIPES, libero dalle faccende locali, slegato dalle dinamiche soffocanti dello status palermitano, ha dato una spinta di energia innovativa alla città. La ragione di questo ramo dell’albero palermitano che germoglia e funziona potrebbe essere l’origine geografica delle persone che costituiscono il CEIPES. Che Presidente e vicepresidente siano rispettivamente di nazionalità portoghese e turca è probabilmente la chiave risolutiva che immette la distanza necessaria tra la volontà di portare a termine un’iniziativa, il fare reale, e il popolo palermitano, già descritto ampiamente. Questo atteggiamento regala possibilità di reale progresso in terra siciliana.
È un dato di fatto che i Palermitani che si interessano al CEIPES sono pochi. Non sto qui a ipotizzarne le cause, ma mi è facile collegare questo dato a quanto detto (o citato) fino ad ora riguardo ai caratteri dei locali. Mi dispiacerebbe scoprire che il mio invito al cambiamento, la mia emozione nel constatare che qualcosa comincia a cambiare grazie al pacifico atteggiamento con cui si pongono le “popolazioni straniere” oggi, come l’esempio illustre del CEIPES – ingenue macchiette portatrici di trasformazione – vengano travisati dai fatti e dalle circostanze e una volta messi a confronto con le riflessioni di Tancredi ne Il Gattopardo possano essere considerati sulla stessa stregua: strategie di cambiamento teatrale che aiutino invece a conservare la vecchia staticità.
«Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la Repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi. Mi sono spiegato? … Arrivederci a presto. Ritornerò col tricolore» (TdL:41).
E poi ancora, a testimoniare l’insulto “facile” degli immobili a coloro che accesi di entusiasmo si ispirano a qualcosa fuori dal comune: diretto il riferimento allo scontro generazionale di tutti i tempi, in cui Fabrizio Salina si ricrede e si compiace infine del suo giovane nipote:
«Il tricolore! Bravo, il tricolore! Si riempiono la bocca con questa parola, i bricconi E che cosa significa questo segnacolo geometrico, questa scimmiottatura dei francesi, così brutta a confronto alla nostra bandiera candida con l’oro gigliato dello stemma? E che cosa può fare sperare quest’accozzaglia di colori stridenti? … “Rudere Libertino!” Scherza pesante quella canaglia! Vorrei vederlo alla mia età. Quattro ossa incatenate com’è lui. …Scendendo le scale capì: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è”. Tancredi era un grand’uomo; lo aveva sempre pensato» (TdL: 43)
E dentro se stessi, i Palermitani illuminati continuano a trasportare il fardello di indecisione e compromesso che fa luce sul cammino da seguire. Pensiero sintetizzato da Tomasi di Lampedusa nelle reazioni emotive del Cavaliere Chevalley e di Fabrizio Salina separatamente, alla luce dello scontro verbale avuto tra i due:
«Chevalley pensava: Questo stato di cose non durerà; la nostra amministrazione, nuova, agile, moderna, cambierà tutto. Il principe era depresso: Tutto questo – pensava – non dovrebbe poter durare; però durerà, sempre; il sempre umano, beninteso, un secolo, due secoli…; e dopo sarà diverso, ma peggiore. Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra» (TdL: 43).
In chiusura vale la pena riportare il paragrafo conclusivo del saggio di Samir Kassir, ché possa essere di buon augurio per i Siciliani tutti.
«… è probabilmente troppo ambizioso pensare che le catene dell’infelicità stiano per spezzarsi. Il malo- sviluppo arabo si è troppo aggravato perché la felicità possa essere a portata di mano. E il persistere dell’egemonia occidentale, resa più pesante dall’occupazione americana in Iraq e dalla sempre maggior supremazia in Israele, non consente di postulare un risveglio arabo in tempi stretti. Ma nulla – né la dominazione straniera, né i vizi strutturali delle economie, ancor meno l’eredità della cultura araba – impedisce di ricercare malgrado le pessime condizioni attuali, la possibilità di un equilibrio. Per raggiungerlo, molte sono le condizioni necessarie, e non tutte dipendono dagli Arabi. Ma anche se non si può realizzarle tutte, resta sempre possibile forzare il destino, iniziando dalla condizione più urgente e senza la quale non c’è scampo alcuno: che gli Arabi abbandonino il miraggio di un passato ineguagliabile e guardino finalmente in faccia la loro storia. In attesa di esserle fedeli» (SK: 88).
Dialoghi Mediterranei, n.22, novembre 2016
Riferimenti bibliografici
SK: Samir Kassir, L’infelicità araba, Einaudi Torino, 2006
TdL: Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Feltrinelli Milano, 1998
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Laura Malleo, giovane palermitana, laureata prima a Firenze in Scienze Politiche e poi in Lingue e Relazioni Internazionali Comparate alla Ca’ Foscari, di Venezia, ha vissuto a lungo all’estero. Ha frequentato nel 2009-2010 un Master in Mediazione culturale e investimenti economici per il Mediterraneo. Ha svolto attività di volontariato presso ONG e di interprete di lingua inglese in occasione di convegni e di eventi. Ha collaborato recentemente con il Festival SoleLuna. Dal 2012 vive a Palermo dove ha aperto un’impresa gastronomica e culturale con la madre, PerciaSacchi, ma ritiene di essere ancora alla ricerca di un lavoro vero.
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